Il giardin delle delizie

Schiller e i suoi sono fuori, sorpresi. Bloom fischietta con la testa in mano ed i gufi, posati intorno, ricambiano. Dalí insiste che i “gufi non son quel che sembrano”. Pound, intanto, s’allontana con Dante tra i sicamori. Eliot, ancora in panchina, consola Virgilio, che è costretto ad abbandonare la partita per l’estrema umidità della nuova sede ed il traghetto per Atene. “Che cosa vuoi, ora?” pare chiedergli l’inglese, “voglio morire!” dicono le labbra del mantovano. Omero, però, è lontano da quelle labbra per compierne il desiderio.
Nel corridoio il milesio tiene il discorso augurale. Si dimena, sputa, grida. Nemmeno un fonema dalla gabbia dei denti. Gli ordini erano già chiari. Attaccare, senza fronzoli. “Adelante! Achei!” pare dire l’omerico, ma non dice nulla. Si agita. Ed i suoi con lui. Il baffo di Nietzsche si copre di spuma giallastra. Ora si torna in campo.
Eraclito, muto finora, si lascia andare alla tautologia. “Questo è un bosco!”
“La contea di Twin Peaks?” Beckett incalza da dietro.

 “L’hai sentito, Fahridi? È il solito metaletterario o è colpa dell’alzheimer, come si vocifera!”
Ride l’arabo. Poi torna tranquillo: “È così. La parola è successiva – dubito sia mai servita a qualcosa…”
Dal Giornale con cui Fahridi s’accarezza gli stivali si alza una voce familiare: “che cazzo dici, caprone? E allora il secondo principio della termodinamica dove lo metti?”
“Disperditi il culo mentre te lo riscaldo!” Quijano lo liquida con un gesto ed un paio di fonemi.
“Il lavoro nobilita l’ano – se quest’ultimo è un sistema isolato.” Pure il Giornale pare concordare.

D’improvviso il bosco risuona di mille e mille voci. L’arabo e l’ispanico e tutti gli altri si voltano alla ricerca della fonte del canto. Nove donne, sedute su una radice sospesa di poco sul terreno, applaudono gli uomini in campo.
“E quelle chi sono?” In coro – come il coro.
“Sono le muse.” Risponde Fharidi, per l’occasione coreuta.
“E perché sono ancor vestite?”
“È questo il nostro enigma.”
“La parola è femmina, a volte lo dimentico.”

In campo i due schieramenti si galvanizzano. La testa di Bloom fischia senza fiato.
Sacher-Masoch, entrato in luogo di Virgilio, le prende tutte. Il partido fila teso, statico.  La pelota rimbalza tra i fossi, non si lascia domare. Pound in fascia mantiene Mozart in check. Kafka,  nascosto dietro una quercia, si scava la fossa. Nietzsche sbraita, sradica Joyce e il pallone da terra e lo lancia in avanti.
Poi Diego. La panza di Diego. Un arto mancino è tutto quello che di mobile gli resta. Le connessioni elettriche che lo legano alla materia grigia fanno fulmini. Piove.
Diego intercetta la pelota – inspiegabilmente bianca, intonsa. “La pelota no se mancha” grida Quijano appollaiato sul salice – e tunnel. Sartre a terra. Virata sul piede debole, uno-due su quello dominante. Sacher-Masoch ricade sui piedi godendo. Pound interviene in raddoppio – Mozart in fascia si libera senza saperlo, ridendo.
Diego – di controbalzo, alza un lob sulla corsa di Wolfgang. Un rimblazo, due – la testa di Bloom, tra le mani del corpo, già risuona “troppe note, troppe note”, in barba alla detta imparzialità.
“L’imparzialità è la morte preventiva!” sussurra Fahridi, mentre si gusta il controllo a seguire del salisburgo: ginocchio, petto. Spalla o mano, in avanti, sponda con l’albero e al centro, d’esterno. “Idiota!” grida Schiller a Socrate, quando Wolfgang, in fuga, lo beffa, e con gesto di stizza chiama a sé Fedor Dostojevsky, il prigioniero. “Entri tu!” gli dice ammonendolo con lo suardo!
Il cecchino boemo risorto dal fosso penetra.
Diego dal fondo incitando: “adelante, Kafka!” Socrate intanto perde il controllo del corpo, inciampa e ricade nella fossa del boemo. “La sua cicuta” – Omero lo seppellisce vivo, all’istante.

La pelota viene carica d’effetto, ben ponderata. K. si lancia rasoterra a colpire di testa – incespica con le radici, col naso aguzzo le sfregia o viceversa. Ma non si ferma. Scivola sul fango come un delfino sulla schiuma unta dell’onda. Impatta la pelota prima, poi il tronco di un albero. D’Annunzio vede il sangue ed il cranio sguarrato e si fionda, acchiappa – il cranio, non la pelota. E questa, inspiegabilmente bianca, intonsa, scivola dentro.
Il cecchino boemo giace morto per terra. Nietzsche al galoppo punta Omero ed esulta, e Quijano sull’albero: “L’uomo è un ponte, un pareggio! Avanti il prossimo”. Dalla panca si alza Antonio Moresco.
“La parola, Quijano, vale la testa di un uomo!” chiosa Fharidi.
“Bisognerebbe dimostrare anche il contrario.”

Due muse accorrono a recuperare il corpo acefalo di Kafka. Lo poggiano ai loro piedi, calde lacrime spandono per la morte del boemo.
Omero resta silenzioso. La panza di Diego rimbalza di gioia. Si commuove – core napulitano!
Schiller richiama i suoi a stringere sulle fasce. “Più flusso continuo, come solo tu sai fare!” Urla a Joyce. Entra Fedor.
“Certo: il pareggio, il valore dell’avversario, il rispetto. Ora, però, bisogna guadagnarsi la memoria.” Infine, pare dire Omero. Nessun fonema dalla gabbia dei denti.

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Scontro al Vertice I IIIII