Uno scambio, aperto e sottile, nato per caso e presentato qui in una forma chiusa per mera convenzione. Mentre il dialogo tra Andrea Cafarella, Sara Gamberini e Alfredo Zucchi continua altrove, su CrapulaClub ne abbiamo isolato una parte (la parte per il tutto: fin dove è possibile).
Dall’idea di pausa e sospensione in musica, con cui Andrea e Alfredo hanno cominciato a dialogare, fino al silenzio: uno spazio da abitare, un gesto da esprimere. Dalla pratica della scrittura, che unisce i tre dialoganti, al momento che la precede e forse la fonda.
In mezzo: le associazioni, letterarie e musicali, che hanno accompagnato il dialogo mentre accadeva.

Alfredo Zucchi: Quando sento un’idea avvicinarsi – spesso accade che arrivi al galoppo – il primo effetto che avverto su di me è un cambiamento della disposizione interna: lo spaziotempo diventa ritmo. Questa trasformazione, che ho pensato, nel tempo, prima come una caccia e poi come un adescamento erotico, mi predispone a una sorta di inseguimento. Riconosco le forze in gioco: l’intensità è la chiamata; l’attesa è la promessa di una risposta. L’intero processo è avvolto nel silenzio e avviene al buio, in un luogo non ancora abitato dalla parola – esso precede e supera la parola, non dice niente.

Sara Gamberini: Prima ancora dell’idea c’è qualcosa da cogliere che non è facile afferrare e che si trova, come dice Alfredo, prima della parola. Non è un’immagine. E allora cos’è? Non è nemmeno un’emozione. Ci sono i pensieri, c’è l’inconscio, o l’incoscienza, e poi è possibile percepire qualcosa che proviene dall’esterno, ma è mio, è universale, qualcosa che aleggia.
Allora prima di scrivere, predisporsi, con uno sforzo che non coinvolge la tenacia, l’intenzione, ma richiede invece di togliere, di stare raccolti. A volte si crede che per togliere, per rimanere in presenza dell’essenziale, sia necessario raggiungere un certo grado di semplicità. Io non lo credo. Si tratta di sospendere i giudizi, di allentare le resistenze, togliere i nomi alle cose, togliere tutto quello che conosciamo. Come un suono, prolungato. Ciò che è sottile è in realtà ingombrante, pervade ogni cosa, ma è spesso imprendibile. Non si afferra con un pensiero, né con i sensi, posso spiegarlo usando la parola rassicurazione. Il movimento sottile è quello che si percepisce in una rassicurazione. Che forma ha una rassicurazione? Nessuna, ovviamente. E che emozione è? Non è nemmeno completamente un’emozione. È una voce? Anche. Ma possiede un movimento, entra e esce, viene da fuori ma non pertiene al sovrannaturale, entra, ci attraversa e ha un effetto.
Come un animale nel bosco quando avverte un rumore, nella precisa tensione di quel momento – questa tensione è preceduta da una pausa – e poi di seguito, quando capisce di cosa si tratta, la rassicurazione. Forse inizio a scrivere da quella pausa. Non vorrei sembrasse cosmico, ricercato, metafisico. Ha invece più a che fare con una fascinazione.
Sono d’accordo con Alfredo sul fatto che, al di là delle parole, ci sia anche una grande sensualità in questo modo di predisporsi, colta poco prima del suo aspetto sessuale. Proprio così come il corpo avverte il desiderio, anche in questo caso, una pausa. Prima ancora che lo avverta davvero. È anche da qui che inizio a scrivere, anzi, che provo di continuo a iniziare a scrivere.
Un esempio. Mi sento infastidita, mi porterebbero a dire i pensieri, in realtà ho paura, mi rivela l’inconscio, invece, grazie a questa sospensione di cui parliamo che per me è dolcissima, ecco, è dolcissima, all’improvviso mi viene in mente un’esplorazione in piena libertà. La scrittura per me inizia quando invece di raccontare di un fastidio, permetto al mio personaggio di esplorare una casa, un sentiero. Lo metto nella condizione di essere molto libero per un po’. Raccontare di un fastidio significherebbe essere insinceri, omettere qualcosa. Accontentarsi un pochino. Raccontare la paura coinvolgerebbe troppo direttamente l’Io, graviterebbe attorno a questa strana istanza psichica. Lasciare invece che il personaggio esplori e che senta un po’ di quel fastidio, non determinante, e di quella paura, che non è però il fuoco della mia storia.

In un crimine c’è sempre una pausa, tutto si ferma e poi riprende. È quello che è successo: qualcuno è entrato e ha ucciso la ragazza. Capito?

Uscì in corridoio con il mate in mano. Era notte fonda e le stelle brillavano in cielo. “Peccato non avere un telescopio”, pensò mentre vedeva sfavillare le Tre Marie nell’oscurità insondabile.
R. Piglia,  “La musica di Pesic”.

Andrea Cafarella: Si è fatto cenno all’idea di sentirsi «un animale nel bosco quando avverte un rumore, nella precisa tensione di quel momento», descrivendo la sensazione che precede l’atto di scrivere (che già da solo meriterebbe un discorso a parte per essere definito). Generalizzerei ulteriormente: focalizziamo l’indagine sulla sensazione che evoca l’atto di creazione, in generale. L’esecuzione del gesto, in assoluto. Quello di una madre partoriente, o di una coppia di esseri umani che convergono nell’unione carnale: si ritrovano (e qui torna la visione erotica dell’avvicinamento descritta da Alfredo). Ridiventano animali, tornano all’origine attraverso l’animalità dell’atto creativo. Un’azione che è anche incontrollabile, sudicia, dolorosa e disperante. Violenta, come la caccia.

Ogni bestia ha le sue tecniche di caccia, tutte però nascono dal silenzio, dall’attesa. Così è anche per me. Come un rapace, fermo sulla rupe con lo sguardo attento a ogni brandello di linguaggio che possa sfamarmi, aspetto. Il silenzio rappresenta per me quella parte di realtà inesprimibile dal linguaggio se non con la fantasia. Se non nel fantastico. Nell’inattendibile. Nella pausa.
Nel mio caso la preda spesso si nasconde nelle pagine dei libri degli altri, mi parlano continuamente, lasciano delle tracce. Un libro mi scruta da uno scaffale alto perché ha un messaggio per me, esclusivamente per me.
I libri sono i miei tarocchi, funzionano come le sentenze divinatorie di Lao Tzu.

Mi viene in mente un testo di Calasso che, in fin dei conti, parla proprio di questo: di orsi che trovano il miele e afferrano salmoni dai bordi dei fiumi, dopo una lunga attesa, azzannandoli con ingordigia. E questi orsi sono scrittori e artisti di tutti i tempi. Si chiama Il cacciatore celeste.
Cercando una frase di questo libro che avevo in mente, ho trovato casualmente un file sul mio computer che avevo totalmente dimenticato e che ho nominato «Epigrafe iniziatica». Al suo interno, tra altre citazioni, avevo segnato questo lungo periodo calassiano, che mi sembra un ottimo spunto su cui riflettere insieme:

«Hēsychía, parola cardine in Plotino, è insieme «silenzio» e «quiete». Silenzio perché precede ed è superiore al linguaggio; quiete perché contempla ciò che accade da un centro immobile. Anzi, lo fa accadere. è la mente, noûs, che − «senza tremare e in quiete» − offre qualcosa alla materia: il lógos, «che scorre dalla mente». Questo fluire è l’atto incessante che regge il mondo. Atto silenzioso, non visibile. Qui non occorre un demiurgo che agisca, che plasmi una volta per tutte. Il flusso è ininterrotto, è il continuo stesso. Se tutto il pensiero è la ricerca del continuo, Plotino faceva cenno a come trovarlo, in ogni istante».

AZ: Mi colpiscono tre figure che sono venute fuori.
La sublimazione della pulsione libidica in relazione o contrapposizione a quella di morte.
La connessione tra pausa/silenzio e crimine (nel passo di Piglia riportato sopra), che riporta a un tema secondo me fondamentale, portato a galla forse per la prima volta in un racconto della serie di Dupin di Poe, in cui il detective/poeta penetra la mente del criminale poiché anche il criminale è un poeta – e il pensiero sotterraneo di Poe dice: “poesia e crimine parlano la stessa lingua” (o forse sono in auscultazione dello stesso silenzio prima del gesto).
E infine Hēsychía in Plotino, che si connette a un’altra figura di cui ha discusso Sara, la sospensione del giudizio, altra figura cardine in certa filosofia antica: epochè.

Nel saggio che apre La letteratura e il male di Bataille, intorno a Cime tempestose, Bataille si chiede cosa sia il male. Dice, usando i temi e le tensioni proprie del testo della Brontë: il male è legato alla morte – ma la morte è la verità della vita; e il male è legato all’impossibile.
L’impossibile: la sospensione e il silenzio che precedono il gesto sono forse un’immersione o un raccoglimento intorno alla figura del limite: appena prima del gesto, appena prima della parola: i limiti del mondo sono i limiti del linguaggio. La vertigine performativa del gesto è forse in relazione a un allargamento, un’espansione di questi limiti; espansione che non esaurisce il processo, non lo cattura o definisce del tutto, ma lo spinge in avanti o di lato.
Raccoglimento, silenzio e sospensione come dunque coscienza (intuizione o avvertimento, sensazione) della natura profonda del divenire: per ogni limite enunciato (afferrato nella caccia), ne viene fuori un altro: ogni sconfinamento produce una dilatazione dei limiti del mondo.
Avvertimento dell’inafferrabile, intuizione dell’inevitabile: la morte è la verità della vita. Mi è capitato, di recente, di confondere il languore di morte con la volontà di rischio e di esperienza. Ora so quanto siano diversi, e so anche quanto siano legati: ciò che li tiene insieme è forse proprio una traccia profonda del processo di cui parliamo qui: la sospensione che precede il gesto – l’intensità del silenzio – mette ogni volta in gioco tutto, l’intero orizzonte del senso. La stessa volontà di rischio e esperienza (la volontà di caccia), offre costantemente il torace alla morte. In questo orizzonte, la morte stessa è solo un altro modo, forse il più letterale, di fecondare il processo. Una volta, in cima a una roccia a picco sul mare, ho visto questo:

L’uomo dell’atroce,
quell’uomo
si è già superato,
è natura –
morire
non è più delle sue
necessità

Si tratta di una cosa molto vecchia, di cui non condivido più l’estetica dell’atroce (non direi mai più “l’uomo dell’atroce”), ma il punto qui non è discutere di categorie estetiche in astratto, credo. Il punto è che un uomo (una donna, una persona) del genere, da qualche parte, è già morto. Essere già morto è forse la condizione per stare nel silenzio della sospensione e ascoltarlo.

 

SG: Mi piace perché quando proponi uno spunto in realtà si scatena il perturbante.
Un pensiero sulla volontà di rischio e di esperienza collegata alla morte: mi è venuto in mente così, per associazione, il disturbo bipolare, la sindrome maniaco depressiva. Le forme maniacali che si alternano a quelle depressive caratterizzate da fuga di idee, eccitazione, euforia eccessiva, certamente rabbia (pulsione di morte). Esuberanza spropositata rispetto alle circostanze, inappropriata. Incapacità di valutare il pericolo, onnipotenza, eccetera.
Riporto da un manuale: La vacuità verbale ha uno scopo ben definito: mantenere un livello superficiale brioso di euforia, sfuggendo ai richiami depressivi. La mancanza di inibizione del pensiero potrebbe facilitare una certa tendenza artistica che fatica a raggiungere risultati concreti per l’assenza di concentrazione.
Spesso chi soffre di episodi maniacali produce anche deliri mistici, così chiamati dalla psichiatria.
E quindi l’alto, il limite davanti a cui predisporsi sospesi, una certa tendenza artistica, come naturale, istintivo, tentativo di salvezza. Una mente si rompe e cerca naturalmente di riparare così, di compensare aspirando all’alto, ricorrendo proprio a questo sintomo e non a un altro. Chissà cosa accade neurologicamente.
In alto e anche in superficie.
Mi viene in mente che la superficie e l’alto spesso coincidono. Stare in superficie e stare in alto, intendo.

AC: Oggi sono stato tutto il tempo di corsa e, mentre inseguivo il tempo che fuggiva via, mi sono reso conto che stavo sprecando più tempo a pensare di non averne piuttosto che a viverlo davvero.
Anche il mio maestro di batteria dice sempre che non riesco a vivermi il tempo in levare. Che penso solo al battere.
In questo – oggi e spero per sempre – mi ha salvato la meditazione: tutto tempo in levare. Tempo in cui apparentemente non accade nulla. In cui tutto accade nel nulla: nell’invisibile, nel vuoto, in uno spazio di morte. L’illuminazione è la morte. Il sogno è la morte. Lo stato di latenza da cui nasce ogni cosa. Se volessimo indicare la morte dell’universo intero sarebbe il tempo antecedente al big bang che coincide con quello posteriore all’esistenza stessa dell’universo. Uno spazio misterioso e senza regole, che è poi quello di cui stiamo parlando: l’impossibile.

Oggi mi sono venuti in mente un sacco di libri. E ognuno di essi che mi tornava alla memoria morivo dalla voglia di inserirlo in questa conversazione immediatamente. Ora ringrazio di avere aspettato (l’attesa chiaramente è parte integrante, cardinale, di questo ragionamento).
Li elenco adesso: Il navigatore del diluvio in cui Brelich ripercorre la storia di Noè ponendo l’accento fondamentale sull’atto iniziatico che questo personaggio biblico compie appena giunto sulla terra ferma, dopo il diluvio universale: si ubriaca. Ho pensato al libro di Fachinelli: La mente estatica. Mi sono ricordato alcuni passi interessanti de Il silenzio è cosa viva.
E poi i libri dei mistici, li ho rievocati tutti.

(Ripercorro i miei ragionamenti per rendermi conto io stesso di quanto sia effettivamente fruttuosa «l’attesa» nel meccanismo che pertiene alla creazione di un pensiero).
E poi ho riflettuto sui mantra. Quale è la funzione di un mantra durante la meditazione (escludendone il significato letterale)? Allontanare i pensieri per creare uno spazio, dentro il mantra, tra una ripetizione e l’altra ma anche all’interno delle stesse parole. Creare il vuoto. Sembra paradossale, ma effettivamente la ripetizione continua vocale dei mantra, che sembrerebbe avere a che fare col suono, col rumore, crea dentro un silenzio assoluto che è più vicino al Silenzio di quanto non lo sia semplicemente stare zitti. Ed è quindi, in qualche modo, la parola che crea l’assenza di parola, la musica che crea il silenzio. L’orgasmo che avviene a causa dell’eiaculazione. L’eiaculazione che crea l’orgasmo. La morte che dà il senso di una vita. Della Vita.

E mentre pensavo a tutto questo mi è venuto in mente Francesco, Francesco Kafka come lo chiamo io. Inizialmente per quel suo famoso racconto: «il messaggio dell’imperatore». In cui Kafka parla con un Tu immenso, che ci coinvolge tutti. Un tu cui l’imperatore, in punto di morte, ha mandato un messaggio che, però, nonostante sforzi inumani iperbolici, è impossibile che il messaggero riesca a consegnare. A consegnarti. Tuttavia, «Tu stai alla finestra e lo sogni, quando scende la sera».

A me ha sempre colpito quel «quando scende la sera». Per questo motivo scelgo di scrivervi quando è già notte e dovrei essere a letto da qualche ora. Perché la notte è il periodo del silenzio, come della morte, come dei sogni, come dell’amore carnale, come dei crimini e del mistero. Nella notte accade l’impossibile. Ed è proprio questa Notte, questo chiudere gli occhi per creare il vuoto mentale che precede il sogno, che mi ha suggerito un’altra frase di Francesco che ho già riportato altrove, l’ultima degli Aforismi di Zürau, la numero 109:

«Non è necessario che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te».

Definitiva e calzante, mi riporta agli apoftegmi di certa cultura orientale, di libri come il Tao tê ching o l’Hagakure, per capirci.
L’immobilità, il vuoto, il silenzio. Fanno tutti parte della stessa sorgente. La potremmo nominare Notte o Morte, ed è entrambe le cose, le comprende e al tempo stesso sta aldilà di entrambe, e non ha nome (come l’arcano numero XIII, non a caso).

Si muore e si dorme quando si fa l’amore, quando si uccide, si dipinge, si medita, si urla l’odio più profondo, si partorisce, si vive il palcoscenico, si scrive un romanzo. E si muore e si dorme già prima e indubitabilmente dopo aver fatto l’amore o aver ammazzato qualcuno. Il prima e il dopo sono l’essenza del «durante».
In quel dormire-morire è l’atto stesso che sta in mezzo. Nel sonno, l’inconscio, vive e rivive la nostra giornata, quella concreta, vissuta a occhi aperti, ed è sicuramente lì che la si vive in modo più vero, incontrollabile, potente.

Tuttavia è solo in un’immobilità consapevole, controllata, in un sogno lucido, che avviene un lavoro esplicito e visibile su noi stessi, seppure inesplicabile e impossibile, in un certo senso. Questo è ciò che considero il gesto. E nel gesto è espresso tutto il potenziale latente dell’attesa. Così – forse è questo ciò che vuole dirci Kafka – maggiore è l’attesa, il silenzio, il vuoto (dove maggiore non è espresso in termini qualitativi o quantitativi, ma in una misura inspiegabile anch’essa. Mai logica) più profondamente e rettamente si comunicherà con quell’abisso che sta aldilà delle cose – prima e dopo le cose.

Così la caccia è immobilità, nel senso che il fulcro della caccia sta esattamente nel momento della decisione di cacciare. Quell’istante in cui la fame contatta la mente e lo spirito. Bisogna ascoltarsi per sentire la fame. O soffrire così tanto da costringerla a urlare.

SG: Leggendovi, per associazione, ho pensato che tutto è semplice o non c’è.
Charlotte Joko Beck in Niente di speciale scrive:
“Spesso crediamo di dover rivangare ‘materiali’ psicologici sommersi, e lavorarci.
Non è esattamente così. Dopo tutto, dove sarebbero nascosti? Non è esatto supporre che ci siano materiali al di sotto della coscienza che debbano farsi strada per emergere, anche se così ci sembra. Durante una sesshin possiamo diventare emotivi, tristi, disperati, ma queste emozioni non sono misteri nascosti che appaiono all’improvviso. Sono ciò che siamo, e stiamo sperimentando ciò che siamo. Elaborare questi ‘materiali’ è un’altra forma di automiglioramento che non può funzionare. La pratica non è stare seduti di modo che i nostri materiali vengano a galla al fine di elaborarli e diventare migliori. La realtà è che siamo già perfetti. Non abbiamo bisogno di essere diversi.”

E poi ancora:

“L’unica mente in grado di sentire la vita come radicalmente trasformata è la mente semplice. […] La pratica è sviluppare o scoprire una mente semplice.
Mi pare che abbia molto a che fare con quel predisporsi di cui abbiamo parlato all’inizio. E che queste siano ottime indicazioni per la scrittura.”

AZ: Ci sono due cose che mi avete fatto venire in mente. Ieri, in preda alle associazioni, stavo per scrivere una cosa sul big bang, poi ho atteso.
Ora che Andrea lo ha tirato in ballo, lascio andare.

La relatività generale “scopre” il big bang. Nella teoria di Einstein tuttavia persiste un paradosso, una questione di vita o di morte. Nel punto descritto dalla teoria come momento originario, l’universo intero è racchiuso in uno spazio piccolissimo, la densità (massa/volume), per via del calore, dell’energia insostenibile, raggiunge un valore infinito. Ma la materia non può esistere a densità infinita. Qui entra in gioco la meccanica quantistica, che adotta una visione discreta e discontinua dello spazio stesso: se lo spazio non è continuo, persino in quel punto piccolissimo in cui si condensa l’universo intero al momento del big bang, ci sono dei vuoti, degli “sfiatatoi” – parte dell’energia si disperde, la densità è grande ma non infinita, l’universo è possibile. M’interessa questo vuoto (questa pausa o sospensione), perché si avvicina a certe cose di cui andiamo discutendo. Di più: si avvicina alle nostre questioni da un punto di vista universale e materiale, non introspettivo, psicologico o “spirituale”. Voglio dire che l’idea stessa di questo vuoto non riguarda “la mente” ma la materia intera.

Il big bang, inoltre, mi permette di fare un passo indietro (o avanti) e toccare il punto da cui abbiamo iniziato (la musica) e quello a cui siamo arrivati ora (la mente semplice: rimuoviamo l’idea stessa del rimosso!).

La traccia del big bang vibra ancora per lo spazio, è la radiazione cosmica di fondo: è la musica dell’universo: il tempo è ritmo.
Mi interessa e mi parla moltissimo l’idea che dice Sara intorno alla perfezione della superficie. Mi viene in mente Nietzsche quando dice: “il mondo apparente è l’unico mondo vero”. Riflettevo con Andrea qualche giorno fa che la pratica della musica (di certa musica in particolare, ma qui forse è secondario specificare quale) mi riconnetta proprio a quest’idea per cui niente è sommerso, è tutto fuori e in superficie ed esposto – vibra e non dice niente, cioè il suo codice precede e supera la parola. Questo forse vuol dire, nella pratica della scrittura, che uno parte da quel silenzio e da quella sospensione di cui parlavamo, per tornare, alla fine del processo, ad approdare lì: a una dimensione di rara ambiguità in cui, dopo tutto, non ho detto o scritto niente. Niente, voglio dire, che sia riconducibile a un messaggio preciso (per tornare a quello che diceva Sara: a un messaggio di automiglioramento, a un messaggio edificante o “psicologizzabile”).

SG: Vibra e non dice niente.
E poi l’ambiguità non è ambiguità, è quello che c’è. I pensieri, la conoscenza, portano le persone lontano dalla vibrazione  che, appunto, non dice niente. Per sua natura è. La vibrazione è. E che meraviglia è mai questa? Che qualcosa sia e basta.
C’è qualcosa di più perfetto? Allora in questo senso la superficie è in alto, la superficie e l’alto sono la stessa cosa. Perché per quanto si scenda in profondità, nelle spiegazioni, nelle congetture, nelle teorie, mai nulla sarà limpido come quello che c’è.
Allora la profondità come fragilità umana. Sai, ho una debolezza, non riesco a smettere di essere profonda, questo si dovrebbe dire.
Come la ricerca disperata di un senso. Ma non è detto che il senso di un accadimento sia l’aspetto più importante di quell’accadimento.
Non è detto che capire sia la forma più alta di conoscenza. Ricordo che del mio romanzo più di tutto è stato detto che manca di una trama, che il tempo e lo spazio non esistono, e che non si arriva da nessuna parte, tutto è sospeso. “In cui dopo tutto non ho detto e scritto niente”. Esattamente così, Alfredo.

 

Quando la composizione arriva al suo limite estremo, si apre il territorio di ciò che è elementare.
J. Cortázar, Rayuela: Morelliana, cap. 94.

 

SG: Stamattina, analizzando la voce che racconta questa mia nuova storia in un passaggio che trovavo particolarmente pieno di distacco, ho pensato all’urgenza delle emozioni. Mi sono detta che non voglio scaricare addosso a chi leggerà una pastoia condensata di emozioni, magari bellissime, coinvolgenti, ma che tolgono il fiato. Come si trattasse di una forma di rispetto. Io non voglio togliere il fiato proprio a nessuno, ho pensato.
Ho pensato all’urgenza di certe emozioni e alla sospensione. Al richiamo creativo e a quello d’amore, alla loro urgenza. Resto sempre un po’ perplessa quando sento uno scrittore parlare di un romanzo confezionato per essere gradito da un lettore, lì dove si prova ad alternare una descrizione con un momento più lieve, dove si prova a coinvolgerlo, a non annoiarlo. L’ironia. Se non è invece solo questione di modulare l’urgenza, di rimanere sospesi, il modo di coinvolgerlo. Una piccola forma di generosità, accorgersi così dell’altro.

Mi viene in mente anche un concerto che ho sentito di recente, musica rock metafisica punk non so cos’altro, i musicisti suonavano completamente in estasi e tutto era incomprensibile. E un bel po’ noioso. E questi pensieri mi portano al movimento del desiderio. Quando è sospeso e l’esaudimento è rimandato, non attuabile, non immediato.
E quindi l’urgenza del desiderio, anche quello sessuale, nella sospensione. Nella sospensione il desiderio può essere apprezzato in pieno. Diviene coinvolgente in modo spontaneo, o sublime.
E torno al distacco, un esercizio che da qualche anno occupa molta parte delle mie giornate, e ne occupa molta parte perché sono, o forse ero, particolarmente carente su questa disposizione dell’animo. Un distacco tutt’altro che mistico, estraniante o lontano dal desiderio.
Il distacco invece proprio per cogliere a pieno un desiderio, e quindi ancora una volta la sospensione, la pausa, non come vuoto ma come piccola rivelazione. E la pausa e il desiderio insieme. Chissà.

AZ: Sara, ho riletto il tuo testo varie volte – c’era una cosa che già mi ballava in testa quando hai messo insieme stare in alto e stare in superficie; ora che dici la pausa e il desiderio insieme, credo di capire meglio quale fosse l’idea che mi ballava in testa. Si tratta forse della cosa più semplice e essenziale del mondo: è l’equilibrio.

Dunque l’idea di tenere insieme due termini che sembrano opposti – all’interno di un dualismo: non scioglierlo per forza ma lasciare che i due poli coesistano. C’è un’idea molto forte, che viene da lontanissimo, mi vengono in mente i misteri antichi: in quelli di Samotracia, ad esempio, in cui figuravano il “puer” e il “senex”: e l’uno era il desiderio inestinguibile e costantemente in moto; l’altro l’attesa, la pausa (a volte forse anche la rinuncia). Ora, l’iniziazione consisteva proprio nel non scegliere l’uno o l’altro, ma nel tenerli insieme.

La tua frase qui sotto mi pare la sintesi di questo movimento:

“Il distacco proprio per cogliere a pieno un desiderio, e quindi ancora una volta la sospensione, la pausa, non come vuoto ma come piccola rivelazione”.

AC: Sembra anche a me che tutto ciò confluisca nella frase di Sara, dove le due cose: “puer” e “senex” convivono. Come l’universo e la sua stessa nascita – e morte –, quindi il «non-universo», l’assenza di materia. Come in noi esiste ogni possibile dualità contemporaneamente e in modo illogico, sincronico e assolutamente ambiguo.
Forse è proprio qui che si trova questo spazio, in un perfetto equilibrio sottilissimo: tra la vita e la morte, il silenzio e il suono (quindi la parola, la melodia). E nella vita è la morte, e viceversa. E nel silenzio dev’essere il suono, e viceversa. Quindi nell’azione c’è la pausa. E nell’attesa si esprime il desiderio. E via dicendo…

A questo punto mi viene una frase che uso spesso perché la trovo assolutamente illuminante, tratta da un bellissimo saggio di Massimo Cacciari, Hamletica, che parla di Amleto, Kafka e Samuel Beckett. Si tratta delle parole che concludono il libro (prima di una significativa appendice, che però nulla aggiunge al discorso di fondo):

«La bellezza non poteva esprimere le sostanze divine; il pianto non può dire l’inferno. Il comico ‘lascia’ che questo si mostri. Ma le sostanze divine? Anche per esse vale il suo riso? L’infelicità che il comico ‘salva’ è in attesa di poterle in sé immaginare? Godot significa anche questo? L’attesa assolutamente ‘povera’, svuotata di ogni significato, appare nel comico l’unica che possa mantenere aperta questa possibilità. Il riso mette finalmente a tacere tutto ciò che non è deus patibilis, straniero sulla terra, figlio di un padre cui non potrà fare ritorno, e al quale perciò scrive – ma lettere che non potranno mai raggiungerlo. Nessuna ironia, nessuna dissociazione, nessun giudizio toccano questa figura. E ciò nel riso si mostra, nobilissima facies. Nel riso che svuota, o che apre al desiderio di giungere al vuoto, invincibile desiderio, che instancabilmente contraddice o s-dice la «smania di voler credere d’intravedere» (Comment direQual è la parola, ‘testamento’ di Beckett). Qui e qui soltanto può custodirsi l’idea dell’impossibile felicità – qui, aspirando questo vuoto, se ne può conoscere (sapere) la traccia. Il resto è irraggiungibile Silenzio».

Ho sottolineato delle frasi che mi sembra siano venute fuori dal silenzio che avvolge questa discussione (mi viene da riflettere sul fatto che anche noi stiamo «parlando in silenzio», in qualche modo – in questa forma epistolare del ventunesimo secolo).
Quando ho finito di rileggerla mi ha impressionato la chiusa meravigliosa di questo periodo.
Tutto quello che diciamo è vero e giusto. Eppure, c’è dell’altro: questo Silenzio – con la maiuscola – irraggiungibile, che sta aldilà dei suoni (la musica, i gesti, i simboli, tutto quanto è in battere) e del silenzio stesso (tutto ciò che è in levare).
Il Silenzio è qualcosa di significativo, tangibile, esprimibile. Ha una sua consistenza. È, in fondo, la sostanza cui tutti aspiriamo, attraverso l’alternarsi di ambedue: silenzio e musica, attesa e azione.
A causa e grazie al desiderio di cui dice Sara.

Il desiderio, appunto, di giungere al Vuoto, all’abisso. Ciò di cui – direbbe Wittgenstein – e torniamo all’inizio – si deve tacere.
Ma cosa significa tacere se non proprio abbandonarsi, ridere, suonare, scrivere, immaginare, non-dire, agire in potenza, creare l’opera d’arte prima ancora che esista nel senso comune che diamo all’esistere?
Tacere è il gesto, ovvero: esprimere il Silenzio.
Fare il Silenzio.

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L’immagine di copertina viene da qui.