I

Era lei a chiedergli di osare. L’ultimo movimento doveva spingere i toni del realismo al suo margine estremo: “Se il nostro amore vale qualcosa” – evocando, insolitamente pignola, nei suoi striduli accenti, parole come purezza e fedeltà – “devi avere il coraggio di metterlo in musica. Ancora io non sento quel pathos, quella seduzione… la stessa presa ipnotica che ha imbambolato noi due!”
Era nuda in mezzo al letto, stesa su un fianco, con il bocchino di grafite tra le labbra, i capezzoli larghi e grossi come due tuorli d’uova. Lui la guardava disorientato, con la gola arsa e la testa pesante. Abbrancato da un morso di pudore, allungava il cuscino sul bassoventre. Sogni di orribili creature lo immiserivano, a volte si svegliava in lacrime. Era come in un finale d’atto: udiva in sottofondo un moto d’archi, lo strepito degli ottoni, e nel torpore quell’impasto timbrico, esaltato e irrisolto, di scale discendenti e armonici, lo spingevano verso l’incertezza e il baratro, i suoi fantasmi di morte. Al risveglio, aveva un’idea buona per riprendere il lavoro, benché le lucide visioni e il crescendo sempre più teatrale di quei sogni cominciassero a inquietarlo, fino a procurargli orrore. Provò, impacciato, a rilanciare a tono: “Non trovi sia stucchevole il realismo in musica, cara? Antico, superato… Una malinconia di riporto che ormai ascolti solo nelle canzonette dell’avanspettacolo o nel melodramma…” Ghignò borioso: “O vuoi che faccia il verso al Puccini e a quel vecchietto rammollito di Mascagni?” Stese il braccio verso il comodino, nella penombra tastava la bottiglia e i bicchieri. Riuscì a versarsi un dito di scotch. Schiarendosi la gola, un sorso alla volta, canticchiava divertito: Ma l’amore no, l’amore mio non può disperdersi nel vento con le rose…”
Assorta in sé stessa, lei taceva e si gustava la prima sigaretta del mattino. Nonostante la passione, recepiva con fastidio le certezze spocchiose del suo uomo. Un tempo attrazione assoluta e puro godimento estetico completavano la loro affinità. Amelia era stata una pianista virtuosa, una eccellente concertista che aveva sgrossato molte insicurezze di Massimo, e Massimo si lasciava travolgere dalle premurose e instancabili dritte di lei, che scavava in quel talento e lo sublimava, spronandolo a sfidare il mondo che lo affliggeva e lo vinceva. Amelia era rimasta folgorata dal suo estro creativo: nelle sue composizioni viveva una musica piena di utopia e narcisismo, di lirismo nervoso e inaudita freschezza armonica. Per lui aveva lasciato il marito, Parigi e i teatri, la carriera e una ragguardevole posizione.
Era novembre, le notti erano lunghe e il buio somigliava a qualcosa di molle che incartava il freddo e la paura. Anche il vento, scuotendo le querce e alzando dal bosco rumori smorzati e a volte inconsueti, minacciosamente umani, incuteva un sottile senso di inquietudine. Dalla capitale giungevano notizie poco incoraggianti e proclami confusionari: rastrellamenti, occupazioni, fughe, defezioni. Il Duce, confinato da qualche parte, annunciava dai microfoni di Radio Monaco l’imminente rinascita dello Stato fascista. In provincia e nei posti più isolati si attendevano sviluppi: in tanti decidevano di non scegliere, molti di più passavano dall’altra parte.
Massimo emise un profondo respiro. Da uomo di successo ormai rispettato e osannato, l’aria venne su con una punta di ripicca: “Ho consegnato a Berardi i primi due movimenti della sinfonia e ho giocato di fino: instabilità tonale, fragilità armonica, livelli timbrici che si contrastano. È rimasto sbalordito. Credo si aspetti, pure nell’adagetto, una ripresa altrettanto di rottura!”
La fiamma del camino svelava la faccia tesa di Amelia, i fianchi pieni, gli occhi avidi e spaventati, come pentiti, e le fossette che s’ingrinzivano dentro uno sbuffo di fumo: “Berardi sarà la tua rovina, Massimo. Sei succube dei suoi capricci e delle sue senili afflizioni. Davvero non ti accorgi che sta facendo di tutto per allontanarci?”, disse perentoria e abbassando di due toni la voce.
Lui fece finta di non aver capito: “Sai bene che la mia musica è un artificio. È il nostro sentimento che le dà fiato. Bambina mia, io non so comporre altro da quando ci sei tu…”
“Dici a lui le stesse cose?”, urtata, intanto alzò ginnica la gamba destra e lui poté scorgere il suo interno cosce tonico e di un’abbondanza giusta: ragguardevole risultato delle sgroppate che faceva intorno alla collina e sino al paese più lontano. L’equitazione l’aveva appresa nei collegi svizzeri da piccolina, praticata fino ai sedici anni con maestria pari alla musica lassù in Austria e nei giardini della reggia di famiglia quaggiù a Colorno, dove un ramo indebitato dei Borbone, avendo sostenuto i fasci di combattimento, godeva ancora di protezione e manteneva titoli e rango. Amelia, non volendo più vedere un pianoforte, ai cavalli dedicava ormai tutto il tempo che le avanzava dall’amministrare gli affari dell’amante. Anche in questa pratica era diventata brava: contrattava i pagamenti sempre più tirati di Berardi, organizzava di persona le tournée, curava i rapporti con i teatri, apriva conti correnti all’estero e pianificava, un passettino alla volta, l’affrancamento definitivo del suo uomo da quel taccagno.
“A lui consegno i miei imbrogli. A te il mio rigore!”, rispose con spirito e ridendo malizioso.
Amelia da tempo lo esaminava in un modo calcolato e severo, quasi biasimevole, come se riconsiderasse gli aspetti penosi della sua vita: il disfattismo artistico e nevrotico del suo amato, che prima coincideva con un agone di malinconie e di insoddisfazioni, adesso le appariva ripugnante e un po’ falsato. Nel pieno della maturità artistica, Massimo faceva prevalere artatamente la tecnica e una certa freddezza compositiva; Amelia lo avvertiva di sentir replicare armonie fin troppo macchinose in quei suoi lavori più recenti, un suono fiacco e compiaciuto che sfiorava appena l’essenza dei sentimenti e l’energia brutale degli sconvolgenti esordi, e le sue splendide innovazioni di temi o di forma adesso parevano più accorte, l’astratto travaglio partoriva languidi e fumosi castelli sonori.
Vero era che ormai la musica nuova di Massimo Aloia conquistava l’Italia e riempiva i teatri. Quei suoi lavori rivoluzionari avevano sparigliato conventicole e camarille, un bruciante successo che ridicolizzava tutto ciò che c’era prima, attirando le gelosie dei colleghi, il livore degli oppositori. Fin quando sentiva dalla sua parte Pavolini, potentissimo reggente del dicastero della Cultura Popolare e suo più fervido sostenitore, poteva comporre beato: l’ascesa senza freni della sua musica degenerata, così carica di sottintesi e vacuità, del senso eccelso della forma e di grandi ideali, ricordava gli albori del regime e le strigliate al fiacco conformismo.
Amelia non si sorprese il giorno in cui vide sull’Agenda della Massaia Rurale le prime foto di Massimo, in livrea e papillon, giovane e tenebroso, in occasione di un ricevimento presso l’ambasciata tedesca. Vacillò solo nel leggere della esaltante direzione del Tristano e Isotta e l’elogio di certe sue magniloquenti composizioni, fra cui quartetti d’archi e sonatine, che non impallidiscono al cospetto dell’opera eterna del Virgulto Ariano che è il Riccardo Wagner; anzi oseremmo dire che primeggia, l’Aloia, sulla Gloria del Terzo Reich per certe soluzioni estetiche e talune geometrie sonore…
Ma fu quando giunse in fondo all’articolo che temette di aver esaurito il suo compito, intimidita all’idea di occupare un posto che ormai andava affollandosi: Le musiche del giovine hanno trovato il compiacimento del Duce e del suo orecchio infallibile… Il popolo d’Italia ha scovato il suo Vate? Colui che ben presto tramuterà in dramma musicale i supremi costumi della razza italica, muoverà le masse e celebrerà le magnificenze dell’Impero? Mussolini lo crede!
Massimo sdegnava i giornaletti: il suo ego e la sua ebbrezza non avevano bisogno di consacrazioni mondane, provava disgusto per le recensioni battute dai lacchè, per codazzi in grisaglia e ragazzotti invasati che prima di applaudire ai suoi concerti urlavano ossequiosi “Eia, Eia! Alalà!”. Sentiva di avere appena incominciato, un bel giorno al Metropolitan di New York ci sarebbe arrivato pure senza la diplomazia di Berardi e le sue selezionatissime relazioni.
Ora l’uomo scivolava con una mano sul pube pronunciato e ricciuto di Amelia, insisteva con carezze indesiderate, mugolando parole vuote e stupide. Lei si destò di scatto, spinse via il suo braccio, quel tragico brontolio di protezione e di affetto. Con voce lacerata, lo rimproverava: “Non ci resta che andare via, Massimo. Se ti ostini a rimanere, dovrò pensare che la tua sia viltà e incoerenza. Vuol dire che la tua musica non vale niente e che io ho abbandonato tutto quello che avevo per vivere con un inetto!”
Allora Massimo increspò la fronte e la squadrò con gravità. Quando faceva il broncio, Amelia diventava ancora più desiderabile. I suoi occhi irati, e poi la sua inerzia, la rigidezza, quel suo contegno aristocratico gli provocavano un fremito. Si eccitava a vederla inalberata, e se assumeva quel tono di scherno e di delusione per metterlo alle strette, lui non reagiva, anzi aspettava che sbollentasse la tensione.
I tasti bianchi del pianoforte, in un angolo della baita, riflettevano le prime luci dell’alba e il suo lavoro da troppi mesi inconcluso. Intorno c’erano il letto, il camino, un cucinino da campo, vecchi arredi decaduti, mobilio liberty con credenze piene zeppe di argenteria dismessa e tanta carta da musica. Si sentivano odore di naftalina e di chiuso, di acrilico di calza e piumaggio, di sigarette d’importazione, odore di decadenza e anticamera di manicomio. Amelia agguantò le sue cose sparse per terra, raggiunse lo specchio, sfilò da un cassetto ciprie e belletti e, alla luce opaca delle candele, prese a darsi una sistemata. Montava in larghe onde i capelli a partire da una riga laterale e stendeva il fard rosa sulle guance pienotte. Si vide ancora più provata e offesa, capì cosa vuol dire annullarsi per far splendere l’altro. L’amore smisurato è sacrificio e solitudine, preludio di una frattura che va covando dentro: quando comincia a lacerare l’anima – era questo ormai il suo pensiero pulsante – può rinnovarsi in modo fatale.
Massimo, sospeso nella sua bolla d’irresolutezza e inettitudine, andò al piano; cominciò a scarrellare accordi in sequenza e a mezza gola intonava le parti melodiche che mancavano: con uno schiocco di palato richiamava i timpani, con un muggito le tube, poi appuntiva le labbra e ripeteva l’acuto dell’ottavino. Lei lo sferzò dallo specchio, mentre spruzzava la lacca sui boccoli biondi: “Tutte queste modulazioni… questi inutili cromatismi… il tema che vuole essere mistero e invece non è altro che menzogna e millanteria! Senti che tutto suona falso come te?”
Parlava con rancore e Massimo ne era turbato.“La gloria ti attende, Massimo. Deciditi: o marcire in questa stamberga o risplendere dall’attico di Palazzo Clerici a Milano, che tra l’altro, all’insaputa di Berardi, ti sto pagando a cambiali…”
Fuori era umido e il giorno arrivava; riluceva, nei tiepidi raggi di un sole invernale, la volpe argentata della sua pelliccia. Una Balilla l’attendeva in moto, la guidava uno dei più fedeli uomini del consenziente commendator Berardi. Amelia, prima di infilarsi in macchina, aveva mormorato con voce oppressa: “Io non ti aspetto più!”

 

II

Massimo scendeva – sbarbato e bardato di punto, con la cartucciera sulla pancia e il blazer a due strati – lungo il sentiero dei pascoli. Era solito, ogni mattina, inoltrarsi in cerca di fagiani o di ispirazione nel vasto bosco di querce bianche che delimitava la sterminata tenuta di Berardi. Dopo aver liberato i cani, ispezionava i gradevoli ronchi coltivati a segale e l’isolata brughiera: come nei sogni, e dopo un’ennesima svolta in cui il bottino di caccia rimaneva magro, restava lì a contemplare l’immenso paesaggio che lo circondava in attesa di una visione o di un suono della incontrollata natura, per sperimentare il selvaggio e l’inedito nelle sue arditezze compositive. Il facoltoso impresario lo aveva levato da una tormenta di debiti e dalle grinfie di creditori senza scrupoli, offrendogli quell’ozio dorato, il conto aperto nei circoli e nei postriboli militari, la smania di levarsi ogni capriccio. Massimo, di contro, ricambiava con le sue partiture.
Autodidatta e di ottime letture, imbevuto di Beethoven e Schumann, di lied e altre svenevolezze, libero più di uno Stravinskij, ma rigido più di un Gesualdo, era un ragazzo di franca esuberanza e fascinosamente talentuoso, con un viso da fotomodello e la pelle un po’ bruna, nome e taglio meridionale degli occhi – benché il naso aquilino, la faccia stretta e una prestanza da quinto reggimento degli alpini dicessero ben altro.
Il rapporto fra musica e esistenza andava di pari passo con la sublimazione artistica e il senso del possesso dell’arguto Berardi per quel corpo dolcissimo, disinvolto e giovane. Il commendatore si sentiva legato a lui, lo amava dal profondo: si rivedeva in quella creatura inquieta e malinconica, dalle sue ansie traeva il bisogno di elevare i propri sentimenti, il desiderio di abbandonarsi alla spiccata seduzione e a quella tenerezza insita in ogni suo gesto o furia creativa – immaginando progetti ben più concreti di un affettuoso protettorato. Per quello avvertiva l’intrusione di Amelia come una minaccia che andava costruendogli attorno l’irreparabile. Di nascosto da Massimo, aveva avuto degli scontri violentissimi con la donna: erano volate parole grosse, persino schiaffi. Le addossava la colpa di farlo vergognare dei propri timorosi trasporti, le rinfacciava una gelosia da donnetta che non capiva l’elevata natura e gli slanci e l’inesprimibile del legame tra lui e Massimo, se è vero che aveva fatto ricorso a disperati mezzucci, inviando note secretate al Partito, per metterlo fuori gioco e sputtanarlo.
Anche Berardi batteva la riserva col moschetto e il cinturone, e dimenava la testa per la rabbia che i suoi mezzadri nascondessero i rossi, macchiandogli – loro sì: manica d’inservienti – l’onore. Provava collera e anche umiliazione per essere rimasto a presidiare quel buco, rinunciando alla carriera e a un posto in Parlamento in nome di un ideale che adesso mostrava le sue falle.
Coi suoi stivali da cavallerizzo procedeva a scatti, come una bestia braccata che avesse fiutato puzzo di morte. Di luce utile per sparare quel giorno non ce n’era, il cielo era il fondo di un catino svuotato, metallo grigio e cupo. Gli andava incontro, Massimo, con quel sorrisetto mansueto e civettuolo: “Perché ti diverti a spaventarmi?”, gridò appena lo ebbe a tiro.
“Mi sfuggi, mio diletto…”
“Come una cerva che anela ai corsi d’acqua”, scherzò lui, parafrasando un famoso salmo che aveva musicato anni prima a quattro voci.
“Ti ho forse ferito o fatto qualcosa?”, chiese Berardi stremato, come se uscisse da una caparbia attesa. La solitudine in cui lo aveva ricacciato lo faceva sentire una persona ridicola e impudente, l’astinenza sessuale lo abbruttiva e gli faceva scoppiare la testa.
“Dovrei pensare a comporre, se vuoi far soldi! Se mi tampini come un cane o fai sfregio della mia pazienza, non combinerò mai nulla!”
“A che punto sei?”
“Non sono fatti che ti riguardano! Tu pensa a versarmi gli anticipi…”
Massimo cercava di essere duro: era approdato alla sofferta decisione di cambiare vita, di cedere alle insistenze di Amelia, e la spietatezza serviva a farlo capire a quel testone di Berardi.
“Presto la smetterai di trattarmi così. Tornerai il bambino che eri…”
Berardi gli si avvicinava tremante.
“Ma smettila!”
“So bene i tuoi sentimenti di amarezza: la cultura fasulla di questa nazione, le tue intuizioni troppo difficilmente comprensibili, la tua avanguardia che mal si adatta a questo gusto arretrato, sono pensieri che non ti danno tregua… Ma la tua musica è eterna, ben presto rieducherai l’orecchio e avrai il mondo ai tuoi piedi”, e lo disse con il cuore in gola, con un formicolio di gioia che, a due passi da Massimo, da quella aria pacificata e triste, gli trasmetteva un insano vigore.
“Sto impazzendo! Non dormo da mesi, l’angoscia mi divora. Non riesco a trovare un’idea decente per completare il lavoro…”
Berardi sorrise con dolcezza: “Non vedo l’ora di ascoltare il terzo movimento, dev’essere sublime! Ho già pagato lo studio d’incisione di Lugano per le tue sinfonie. Ho chiesto a Castellani di fare uno sforzo… La Berliner, lo sai, si sposta solo se a dirigerla c’è lui…”
“Uno sforzo?”
“Anche quel mangiapane a tradimento di Castellani è pronto a fare il salto della quaglia! Si stanno sfilando tutti! Ma appena riconquisteremo Roma per questi parassiti non ci sarà pietà! Nessuna pietà!”
Lui lo cingeva e lo teneva bloccato a una montagnola di muschio e terriccio, lo sentiva eccitato.
“Non ci credi più neanche tu, vero?”, chiese Massimo, notò che aveva preso a tingersi i capelli.
Berardi abbassò lo sguardo. Poi sfilò dal taschino una busta gialla sigillata, sulla ceralacca il calco del fascio littorio.
“Che cos’è?”
“Viene da Salò, è quella perorazione inviata al Ministro Mezzasoma che finalmente si degnano di vagliare”.
“Mezzasoma di nome e di fatto…”
“Lascia perdere. Ti vuole il Duce, Massimo. È il tuo momento. Sarai tu a portare in trionfo la Repubblica!”
Gli mise una mano tra i capelli impomatati.
Massimo si divincolò seccato: “Il Duce ha ben altro a cui pensare in questi giorni e Mezzasoma capisce di musica come io capisco di caccia! È finita, Berardi. Sei stato sempre politicamente scaltro, ma il fascismo e il tuo cocciuto isolamento ti hanno offuscato la testa. Ancora ti ostini a non capire che dietro queste montagne c’è l’inferno?”
Massimo spezzò un ramo di ginepro, con la punta delle dita sfrigolò le piccole bacche e le annusò voglioso. Berardi era accaldato, ansimava, percepiva come un invito ogni singolo movimento della sua energica muscolatura. Guardava le sue ciglia lunghe, la sua bella bocca. La brughiera era deserta, calava la nebbia e lui aveva voglia di stringerlo forte, di accarezzargli il petto e baciarglielo: “Ci andrai con lei?”
“Amelia, fino a prova contraria, sarà la madre dei miei figli!”
“E di me cosa ne sarà?”
“Sono stato la tua gallina dalle uova d’oro. Hai avuto da me tutto: fortuna, soldi, affetto. My darling, credo possa bastare. Alla tua solitudine troverai rimedio!”
“Perché sei così cinico?”
“Non meno di quanto tu sia patetico!”
Berardi chinò il capo, si sentì perduto: «Perdonami, vita mia». Poi, con le parole che si strozzavano in gola: “Su, vieni qui da me, fatti abbracciare un’ultima volta”.
Ma lui, divertito e inquieto, infieriva arretrando. Si rincorsero affannati, si fermarono a un passo da una grande betulla. Massimo, con due manate sul petto, spinse Berardi contro la corteccia. Gli tolse il fucile dalla spalla, il cinturone da ufficiale. Berardi fece altrettanto con lui. Massimo fu preso da uno strano imbarazzo, non era più infastidito e la sua incapacità di reagire si miscelò a un senso di gratitudine e di vaga fragilità – sentimenti consueti che lo incatenavano a quell’uomo. Fu un attimo e con le dita gli abbassò le bretelle. I pantaloni larghi da Ras scivolarono morbidi sulle foglie: Massimo lo cingeva ai fianchi e gli solleticava i reni. Con tocco raffinato, nell’inginocchiarsi, gli abbassò le mutande. Berardi palpitava per l’emozione di poter piegare ancora l’ostile bellezza di Massimo, per il dolce sgomento di abbandonarsi ancora al suo consumato candore. Poi i suoi occhi nistagmici si fecero ancora più tremolanti in direzione della luce bianca del cielo, spalancò la bocca e cominciò a inghiottire aria. Per tutto il tempo al suo quieto ansimare si sovrappose il canto soave di una coturnice che spiegava le ali e faceva dei brevi voli attorno alla brughiera deserta: scompariva e riappariva, con stridule riprese e sbirciando di tanto in tanto, come a farsi beffa di due cacciatori aggrovigliati e innocui.

 

III

Sulla sovraccoperta c’era una sua dedica, una citazione di Schopenhauer. Berardi la lesse appena, commosso accarezzava il tratto della sua firma, le lettere ariose del suo nome. Mise il 78 giri sul piatto del giradischi e azionò il braccio. Ne aveva uno potentissimo a corrente elettrica, veniva dagli Stati Uniti d’America. L’aveva pagato una fortuna: la guerra aveva sballottato i dazi doganali, il nazionalismo aveva dissanguato, bisognava ammetterlo, soprattutto chi stava bene. Non era un caso che la borghesia, non potendo più abbellirsi l’anima, cominciasse a svignarsela a gambe levate, ragionò amareggiato. Intanto che la puntina si poggiava e il disco prendeva la velocità giusta, lui aveva tutto il tempo di arpionare la poltrona di marocchino che era al centro dello studio e stendersi assorto.
Il palazzo baronale in cima alla rocca del paese era cinto a mezzacosta da un fuoco cobalto di nuvole e nebbia, contro le inferriate batteva un vento gelido di tramontana. Solo e senza servitù, meditabondo, di profilo contro l’ampio finestrone della sala, serrò gli occhi non appena il moto introduttivo degli archi prese la forma di un’onda. Il terzo movimento era un adagetto, i violoncelli e gli archi bassi trattenevano a stento l’involare della melodia, struggente già dalle prime note. Lo stesso facevano gli altri strumenti dell’orchestra, iterando il motivo su un sostenuto d’intensità crescente che si dilatava verso il basso proprio come fa il mare in tormenta quando scava gli abissi. Erano, al solito, ansiti contrapposti: tema spezzettato in un gioco di specchi e strumenti che s’invocavano a vicenda nelle tessiture alte, massa che sprofondava e procedeva ostinata verso una meta delirante nel fondo dell’accompagnamento. Riconobbe il suo marchio: l’amaro enigma aloiano dell’amore, quell’ossessione di esprimere l’assoluto dei sentimenti veniva reso palpabile con ricercatezza e giudizio, elevazione e sofferenza. Percepiva una struttura fugata e organica, ma con un’ambiguità formale e asimmetrie ritmiche ancora più irresolute. Ogni approdo sonoro diventava materia di elaborazione di nuove aree armoniche e di mille altri motivi esplosivi, uno più accattivante dell’altro, di ripetizioni e contraddizioni esteticamente motivate fin nei dettagli. La reazione più immediata fu di stupore: la bellezza estrema e conturbante di Massimo si era come smagliata e traspariva in ogni accento dell’adagetto. Non c’era nulla di Wagner in quella musica, le melodie non erano per niente compassionevoli e il sinfonismo metafisico e imbellettato di scuola veniva puntualmente traviato da elementi rustici o da incursioni dissacranti che procedevano per quinte e creavano ancora più tensione.
Era frastornato, sentiva aria di capolavoro. Nelle pause la musica continuava a pulsare, mentre un senso mostruoso di immobilità, in antitesi, si nascondeva dietro ogni singola nota o nell’intimità delle voci. Gli tremavano le mani, a stento riusciva a tirarsi indietro la folta capigliatura scarmigliata che gli scendeva in fronte, la musica sapeva di morte e aggrediva alla gola, toglieva il respiro; si destò un attimo e vide il vento che tormentava il fogliame e le sagome nere dei monti, i cespugli che si piegavano sotto una luce straziante. Così le combinazioni orchestrali e i contrasti tematici: ogni tessitura tempestosa provocava disturbo, quel procedere cinereo dei temi gli fece d’istinto slacciare la vestaglia, un sudore freddo colava dalle spalle e lo teneva agitato intanto che una caterva di accordi vaganti, privi di rapporto tonale, richiamavano con enfasi il finale, ritardandolo con maestria.
Il rombo di scarponi e metallo cresceva ovunque e sovrastava i tenui prolungati dei violini. Gli parve che avessero lasciato l’asfalto e fossero arrivati proprio attorno alla baita dove, dopo la fuga di Amelia e Massimo, tutto era rimasto com’era. Sul finale fu come riprendere fiato, dopo un sobbalzo improvviso da una rupe e dall’attimo in cui ti manca il respiro: il pizzicato della sinfonia, nella ripresa, contrappuntava in mimesi ogni singola foglia che sbatteva sui vetri, l’incresparsi del cielo o ogni minuto piccione che volava nervoso e anticipava pioggia o qualcosa di più funesto: le crepe negli accordi, le triadi svuotate e dissonanti, i ritardi che diventavano il principio di nuove melodie erano la perfetta incarnazione di quel mondo che implodeva – lasciando la stupefazione dei sentimenti intatta. Realizzò che non sarebbe sopravvissuto a un’altra stagione di dispiacere e irritabilità. Ora il dolore si faceva spazio dentro e non reclamava rimedi, lenitivi, andava diritto verso la prostrazione e l’agonia, nessuna presenza fisica avrebbe saputo opporsi a quella disfatta. Forse solo la sua musica, ma la musica è fatta d’aria, non esprime nulla di esterno da sé. Aveva levato dalla Beretta in madreperla la sicura, la lingua gli si era seccata in bocca, smise di mimare con un braccio l’esecuzione; era terrorizzato, ma cosciente che la morte nel suo animo avrebbe fatto meno rumore.
L’immagine del volto di Massimo lo inseguiva come un rimorso. La sinfonia finiva con un rondò: una danza macabra che piroettava su tutti i temi esposti, ma con gli accenti spostati e beffardi, con uno straniamento ritmico e sincopi imploranti; e poi la dicotomia del primo movimento tornava ancora: intervalli sempre più essenziali di note su una ampiezza armonica profonda come il mare, e quella convinzione assurda di affogarvi dentro. Ciclico anche il trattamento: ogni volta che una melodia finiva ricominciava da un’altra parte, ma in una successione rapidissima e in barba a ogni cadenza. Archi, corni e fagotti si rincorrevano come folletti. Dinanzi all’ingegnosità di certe soluzioni, a quella stanchezza purificatrice capì che non poteva opporsi al destino: aveva perduto sul campo dell’onore, e Amelia s’era preso il suo effimero vantaggio. Lui stesso lo aveva spinto a andare a Milano e fin sopra le alte valli. I partigiani li aspettavano sul lungolago da giorni, Berardi aveva chiesto che non soffrisse e che risparmiassero la signora. Riprese in mano il telegramma che aveva mandato a Amelia presso il consolato tedesco, credendola ancor viva: “Sia tregua. Sapete quanto ho avuto in serbo il suo cuore e il suo spirito eccelso. Un amore ostinato che si è tenuto da parte perché non sfiorisse nell’infelicità”.
Ignorava che una sventagliata di mitraglia le aveva trapassato il cranio staccandole quei boccoli soffici, mentre si divincolava da una staffetta per gettarsi disperata sul petto ancora caldo di Massimo. A Dongo li avevano sorpresi insieme a dodici gerarchi fascisti mentre cercavano di imbarcarsi per il confine svizzero. Lui si era finalmente destato dai suoi sogni angosciosi; lei dal tormento di aver amato un grande spirito, ma in un tempo troppo funesto.
Prima di Natale, confidando nella pietà cristiana dei novelli condottieri, Berardi aveva rivolto un ultimo disperato appello al governo provvisorio militare perché fossero riconosciuti a Massimo Aloia più consoni funerali di stato. Non ricevette risposta. L’errore forse fu quello di tessere le lodi di Massimo evocando Wagner, su cui gravava il più atroce dei pregiudizi. Era musica che non sarebbe finita in nessun manuale perché aveva rivelato l’impronta tragica di una generazione infiacchita, esaltata da delirio e decadenza – e assieme a essa spariva. Intuì che i tempi nuovi l’avrebbero tenuta da parte per pignoleria politica, e lui ne aveva sorriso mestamente, di più sfiorando con lo sguardo pietoso e desolato l’archivio della sua biblioteca, pieno zeppo di manoscritti e partiture autografe (aveva sentito dire dal macellaio che i rossi, nelle case dei gendarmi, bruciavano ogni cosa) del suo amato.
Tutto aveva previsto fuorché un finale così brutale, una simmetria così beffarda. L’assurdità di ricominciare a inseguire quei due scellerati pure all’inferno. Così l’epilogo della sinfonia, incarnazione precisa degli ultimi sentimenti: prolungava nella coda uno dei temi esposti, il più arioso, fino all’esasperazione e non c’era strumento dell’orchestra che non si aggrovigliasse attorno a quella melodia principe, che non ne fosse geloso e tentasse di imitarne i vezzi, arrampicandosi frenetico per raggiungerla, col solo scopo di fagocitarla. Ma invano: il tema rimaneva in alto, imperturbabile e severo, sussurrato appena dal fagotto, strumento anfibio e etereo.
I badogliani avevano superato il ponte e serravano la rocca. Li riconobbe dal passo incolonnato e marziale da soldati del regio esercito. Di sghembo, sprofondato nella poltrona, se apriva gli occhi poteva scorgere, oltre il poggio, il fumo dei colpi di mortaio e la luce intermittente delle raffiche, e sul vetro la smorfia spettrale dell’amato, al solito ironica e capricciosa. Impugnò la pistola, scosso da felice inquietudine. La sensazione di gelo, il cuore sempre più silenzioso. Il potente grammofono americano rimetteva meccanicamente da sé la puntina sul disco e riprendeva l’ostinato di timpani e ottoni. Il paese era deserto e la resistenza ridicola dei pochi repubblicani rimasti avrebbe preso la via degli altri presidi fuggiaschi. Per come annaspavano, calcolò che in una manciata di minuti, forse neppure il tempo dell’adagetto, avrebbero bussato alla sua porta.

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In copertina: Marcello Gallian, Amanti (olio su carta, 1962)