Canone

Millennium Bug: i classici italiani del nuovo millennio

Le intenzioni sono buone ma tacciabili di presunzione: segnalare i libri editi dal 2000 in poi che saranno i nuovi classici, che rientreranno nel canone letterario italiano, che saranno citati nei manuali di letteratura in anni vicini o lontani.
CrapulaClub – rappresentato dai direttori Luca Mignola (LM), Alfredo Zucchi (AZ), Antonio Russo De Vivo (ARDV), Andrea Zandomeneghi (ANZA) e Sara Mazzini (SM) – aggiornerà, da oggi, un canone soggettivo che ambisce all’oggettività, immortalerà una lista di opere e autori secondo il gusto e l’intuizione dei singoli succitati, ma non lo farà con nessun’altra pretesa se non quella del gioco (in quanto gioco, severa e seria), dell’azzardo, del piacere di puntare su un libro e scoprire, un giorno, di aver avuto ragione. In questa condivisa vertigine della scommessa vinta (o persa), CrapulaClub è consapevole di cortocircuitare con il proprio spirito antiaccademico e anti-critica fondato sulla sfiducia verso le istituzioni culturali e quei soggetti, i critici, preposti a vigilare sulla qualità dell’immane quantità di testi letterari in circolazione: alla fine, beffa cui consapevoli sottostiamo, ci si affiderà agli sfiduciati.

OPERE

calassoCALASSO, Roberto (1941), L’ardore, Milano, Adelphi, 2010: perché molto semplicemente è il più possente e perfetto racconto di un’umanità e della sua cultura (riti, simboli, miti, forma mentis) mai posto in essere. (ANZA)
Incipit: Erano esseri remoti, non solo dai moderni ma dai loro contemporanei antichi. Distanti non già come un’altra cultura, ma come un altro corpo celeste. Così distanti che il punto da cui vengono osservati diventa pressoché indifferente. Che ciò avvenga oggi o cento anni or sono, nulla di essenziale cambia.

d-amicisD’AMICIS, Carlo (1964), Quando eravamo prede, Roma, Minimum Fax, 2014: perché è anche La strada di Cormac McCarthy abitato e disabitato da bestie e immaginato da Lars von Trier. (ARDV)
Incipit: In principio erano gli animali, e i cacciatori vivevano della loro morte.
Avvolti in pellicce un tempo appartenute alle prede, arrivavano all’alba con i fucili a tracolla e si salutavano con un colpo di mento, strofinandosi le mani. Tacere era la più diffusa tra le tecniche con cui miravano a imitare l’unica autorità che riconoscevano sopra le loro teste: la natura e le sue leggi.

gennaGENNA, Giuseppe (1969), Assalto a un tempo devastato e vile. Versione 3.0 (2001, 2010), Roma, Minimum Fax, 2010: perché è il perfetto romanzo fin de siècle, chiude il Novecento letterario italiano e apre a forme e concetti nuovi e ancora vivi. (ARDV)
Incipit: Siamo qui, io e i miei amici, asserragliati al terzo piano di viale Sabotino. Fuori passa il tram, sferragliante ed elettrico, tra le piastre del pavé. La gente transita indifferente a tutto, tra le luminarie e le vetrine, dentro l’odore azotato che ha la città d’inverno. Quando ci penso, mi viene un tuffo al cuore.

labbateLABBATE, Orazio (1985), Lo Scuru, Latina, Tunué, 2014: perché c’è un lavoro sul linguaggio notevole, italiano e dialetto sono impastati bene; perché è una storia gotica che non si lascia svelare, è una sfida al lettore; perché ha qualcosa di Cormac McCarthy; perché è un esordio che ci consegna un Autore degno di essere seguito. (ARDV)
Incipit: Il mio nome è Razziddu Buscemi. Sono un avvocato in pensione.
Seduto nel mio portico di Milton, West Virginia, guardo la prateria e il campo di granturco. La porta con le zanzariere sbatte e dentro casa non c’è nessuno. Mia moglie Rosa è morta qualche notte fa. Dormiva in camera da letto mentre sgusciavano dal cielo le prime stelle rosse che da alcune settimane vedo più spesso. Rosa aveva gli occhi nelle ossa del buio. Le ho preso i polsi sotto la luce morta della luna. Erano sbiaditi i polsi e non batteva nulla dentro di lei. Credevo di percepire fantasmatici respiri provenire dalla sua bocca. Il vento dalla prateria portava gli affanni dei morti, le ultime boccate di aria vivente, le parole di Dio. Chissà dove sarà finito il cuore di Rosa: sotto il letto? Dentro le nuvole?

magurnoMAGURNO, Marco (1974), Diorama, Milano, Il Saggiatore, 2016: nel dilagare del digitale e del virtuale, la distinzione tra finzione e saggio, in una mente sana, è abolita. Tutto non è illusione ma immagine. (AZ)
Incipit: Ogni giorno viviamo lo stesso giorno, il giorno dell’assalto: travolti da una sovrastimolazione sensoriale che ci cattura e ci libera costantemente, in un processo continuo di dentro/fuori, alto/basso, reale/irreale, vero/falso che scuote il dualismo (realmente illusorio) su cui si fonda la nostra percezione.
Ma cosa fare di fronte a questo assalto? Quali pratiche mettere in atto?

mainoMAINO, Francesco (1972), Cartongesso, Torino, Einaudi, 2014: perché è rabbia e malattia mentale che si fanno letteratura; perché è rappresentazione dello sfaldamento del nostro paese. (ARDV)
Incipit: Il mio lavoro, il mio primo lavoro, quello ufficiale, qui a Insaponata, un lavoro non retribuito, quello per il quale mi trovo impiegato ventiquattro (24) ore su ventiquattro (24), ogni giorno, senza soste, quello che svolgo da sempre, vale a dire dal momento in cui ho raggiunto la cosiddetta capacità naturale, più o meno dai (16) anni in avanti, è quello che mi vede pedissequamente impegnato nell’impedire alle salme mobili che occupano la mia vita biologica di annientarmi definitivamente colla loro biologica visione delle cose; questa visione delle cose, ovviamente una visione biologicamente pragmatica e piatta, ovviamente una visione elementare e vuota, tipica delle persone premorte che occupano militarmente la mia vita attraverso corpi ricoperti da divise, questa visione fonda e assicura la sua esistenza su due (2) regole tanto rozze quanto incredibilmente efficaci: la regola che chiamerò, per comodità, la regola A) statuisce: uno (1) più uno (1) fa sempre due (2); mentre la regola che chiamerò regola B) recita: uno (1) più uno (1) non fa quasi mai due (2). Potrebbe fare uno-emmezzo (1,5) forse due-e-trequarti (2,75). Ma soprattutto nell’ipotesi in cui uno (1) più uno (1) dovesse fare precisamente due (2) qui e ora, ebbene, tale accadimento sarebbe per così dire marchiato per sempre da un’invincibile incertezza, un evento premonitore in senso catastrofico, come quando prima dei terremoti si vedono, in certe inquadrature di telefilm a tema sub-drammatico, piccoli uccelli agitarsi con nervosismo e le pupille nere che vibrano dentro le orbite, come gocce di cottura sul piano rovente della nuova cucina componibile. Credo che questa mia inettitudine a governare il destino, ammesso che il destino intenda farsi convogliare da poteri umani, dipenda da una mia forma di radicale pigrizia, che so essere una specifica deviazione della mia malattia ovvero una sua evoluzione.

morescoMORESCO, Antonio (1947), Canti del caos, Milano, Mondadori, 2009 (già edito da Rizzoli, 2001-2003). Invenzione e sfondamento. Un lunghissimo controcanto al mondo com’è conosciuto e venerato. (LM)
Incipit: Lettore irredento, se tu sei uno di quelli che ancora aspettano il capolavoro, ho qui per te uno scrittore altrettanto idiota che si è messo in testa di scrivere un capolavoro.
Ma entro nel vivo. Mi presento: sono un noto editore. Tempo fa, in un momento difficile e delicato della mia vita, ho avuto a che fare con un tizio, uno scrittore che lavorava tutto solo da molti anni. L’ho fatto venire per un po’ in casa editrice, mi sono lasciato andare con lui a certi progetti, l’ho menato un po’ per il naso. Tanto più che ci eravamo già conosciuti, in passato… Ma non potevo pubblicare il suo libro, gliel’ho spiegato in tutti i possibili modi che nessuno vuole più libri vasti, assoluti, lunghi viaggi, non fanno mercato, storcono tutti quanti la bocca, solo ricalco letterario, strafalcioni, aforismi, da leggere con il telecomando in una mano, la cuffia del walkman sulle orecchie.

morganti-la-consonante-k-copertina-iloveimg-resizedMORGANTI, Davide, (1965), La consonante K, Neri Pozza, 2017: perché è un romanzo-caos come nessuno, un’opera tentacolare e senza testa – grottesca, tragicomica, assurda – che sfugge all’interpretazione, che getta il lettore in un labirinto di storie e personaggi. (ARDV)
Incipit: Bruno si ricordò di quando da ragazzo suo padre, al termine della seconda guerra mondiale, aveva costretto lui e la mamma a trasferirsi dalla Polonia in Germania per denazificare il paese.

parentePARENTE, Massimiliano (1970), Contronatura, Milano, Bompiani, 2008. Il libro degli equivoci: estremo, capriccioso, irritante, fuori catalogo (ERRATA: ripubblicato nella Trilogia dell’inumano da La nave di Teseo nel 2017) Parente semiologo (guru) della fuga simbolica del desiderio. (AZ)
Incipit: Così Naike Porcella non ha dormito, non ha digerito, grassa com’è continua a trangugiare tartine di maiale e mai che scoppi una volta per tutte o gliene rimanga una insaccata nel gargarozzo. Mangia anche quando è sazia, mangia per inerzia, per ribellione. Mangia se nervosa, se triste, se è tranquilla. Mangia d’istinto, o per terapia, o per avidità o per ideologia. Oppure ho capito male, piuttosto nel malumore c’entra la bambina. Appena nata, non ha neanche sei mesi, e già ingozzata e sformata pure lei come le oche nel cortile della villa per foie gras, scarrozzata in braccio o di sala in sala nella carrozzina inglese, appena nata e già le sue scorreggine e i suoi ruttini riecheggiano nella volta uterina della sala, risuonano tra le pareti color placenta, e la piccola appena nata e sempre attaccata a quelle mastodontiche mammelle immuni da mastiti e il cui latte non ha mai fine, a sera ce n’è ancora pure per i nipotini e i figli degli ospiti e volendo, quando voglio, dopo la mezzanotte, ce n’è pure per me, e talvolta voglio.

pesce

PESCE, Giuliano (1990), Io e Henry, Milano, Marcos y Marcos, 2016: perché non è dato riscontrare scrittura così fresca e limpida tra i giovanissimi – se ci aggiungi la capacità di costruzione e falsificazione dei retroscena degli immaginari e una certa erudizione sbarazzina che fa della parodia il fondamento del discorso, ottieni un autore esplosivo. Mi attendo grandi cose da Pesce.  (ANZA)
Incipit: Se hai un sogno, vale la pena di viverlo inseguendolo; se non ce l’hai non vale la pena di vivere. Il vecchio Henry lo diceva sempre. Il problema è che il vecchio Henry diceva davvero tante – troppe! – cose.

pincioPINCIO, Tommaso (1963), Un amore dell’altro mondo, Torino, Einaudi, 2002: perché racconta un eroe di fine secolo, Kurt Cobain, senza doverne fare biografia; perché c’è invenzione, c’è mondo altro; perché ha un modo tutto suo di rappresentare depressione e tossicodipendenza; perché risuona come pochi. (ARDV)
Incipit: E l’amore?
Passava l’ultimo scorcio del secolo scorso. Erano appena iniziati gli anni Novanta, come li chiamavano allora; gli anni del disagio rigoroso, come li hanno chiamati in seguito. Homer B. Alienson, un essere umano che aveva già consumato una buona metà della sua aspettativa media di vita, si affacciò al decennio con questa domanda tra capo e collo, «E allora?»
La gente viveva di domande, allora.

pincio-2PINCIO, Tommaso (1963), Panorama, Milano, Enne Enne, 2015: perché forma e contenuto combaciano e Panorama, in Italia, sembra un libro dell’altro mondo. Mentre Pincio inventa strutture narrative complesse e armoniche, i suoi colleghi d’inizio secolo – quelli che hanno dimenticato di fare i sociologi – stanno ancora a pensa’ a’ lingua. (AZ)
Incipit: Mai, la parola chiave è mai. Il resto può discutersi, ma quanto al punto nodale, al nocciolo, un fatto è pacifico: in quei quattro anni Ottavio Tondi non ha mai incontrato Ligeia Tissot. Mai, neppre una volta. L’ha vista in foto, questo sì, in molte foto. L’ha vista ritratta in immagini del passato, del tempo in cui lei era ancora adolescente e sgraziata, e in foto più recenti, scattate in quei quattro anni o poco prima, foto che lei, almeno nei primi tempi, gli spediva quasi ogni giorno e nelle quali appariva già donna e padrona della sua bellezza; foto in cui poggiava  sui palmi il viso imbronciato o sedeva sull’erba di un parco, illuminata dal sole, o se ne stava in piedi e infreddolita, di notte, a fumare in strada, avvolta in uno scialle che pareva una coperta militare; foto in cui era sempre spietatamente giovane e sempre elegante, sempre con quella sua luce nello sguardo, una luce irruenta e folle, da assassina. 

pugnoPUGNO, Laura (1970), Sirene, Venezia, Marsilio, 2017 (già edito da Einaudi, 2007): perché attraverso l’artificio della distopia restituisce un affresco dell’odio razziale e sessuale che già caratterizza la nostra società. Uno dei possibili romanzi cult della Generazione Y. (SM)
Incipit: Samuel salì sulla piattaforma che sovrastava le vasche e aprì uno degli armadietti. Si tolse la tuta col logo western standard della yakuza – una y stilizzata in un cerchio enso, che sembrava tracciata col sangue – e indossò la muta di neoprene.
Il bordo vasca era deserto, non c’era nessun altro nell’allevamento.

santoniSANTONI, Vanni (1978), Gli interessi in comune, Milano, Feltrinelli, 2008: perché archivia sperimentalismi, pseudoavanguardie e postmodernismi d’ogni sorta, andando al contempo ad ampliare irreversibilmente la dicibilità del reale attraverso una smodata e spudorata lucidità affabulatoria: per restituire ed esprimere le emergenti realtà antropiche non è necessario – è anzi infantile e controproducente – far esplodere il mondo, basta cesellare, levigare e affinare operosamente e con pazienza una moltitudine di nuove lenti e montarle poi sui vecchi gloriosi occhiali, il supporto tradizionale del grande romanzo occidentale. (ANZA)
Incipit: Giugno duemilasei. Nove e quaranta di sera.
Iacopo ha passato la giornata in tipografia. Ha stampato mille copie di un volantino in formato A4.

sitiSITI, Walter (1947), Troppi Paradisi, Torino, Einaudi, 2006: perché sviscera le più radicali distorsioni del desiderio nell’individualismo occidentale e si pone come pietra angolare dei paradigmi stilistico-formali della contemporaneità letteraria italiana. (ANZA)
Incipit: Mi chiamo Walter Siti, come tutti. Campione di mediocrità. Le mie reazioni sono standard, la mia diversità è di massa. Più intelligente della media, ma di un’intelligenza che serve per evadere.

tedoldiTEDOLDI, Giordano (1971), I segnalati, Roma, Fazi, 2013: perché c’è morbosità, c’è ambiguità sessuale; perché la storia di giovani alla deriva è accompagnata da musica classica di cui si parla con sapienza; perché ogni frase, ogni dialogo confermano il talento dell’autore; perché il talento non si compiace di sé. (ARDV)
Incipit: Prima che il caos regnasse tra Fulvia e me fu molto bello. Mi illudevo che lei e io incarnassimo la congiunzione di destini, quella formula della felicità di cui avevo letto in una raccolta di saggi di psicoanalisi in un capitolo che sviscerava la nozione fumosa e inafferrabile di amore tra un uomo e una donna. Arrivare all’amore della natura, passando per un libro, per poi tornare alla natura, mi sembrava il corso divino della maturità erotica e sentimentale. Giunsi invece alla Pazzia, l’esatto opposto della natura (qualunque cosa sia questa idea ancora più fumosa e inafferrabile dell’amore), e da quella visione tornai segnato a vita.

tomassiniTOMASSINI, Veronica (1971), Sangue di cane, Milano, Laurana, 2010: perché ti abbassa al mondo degli umili – i polacchi, i clochard –, ti fa vedere il sangue, ti fa sentire la puzza di alcol, e di escrementi, e di tanto altro; perché è un libro vivo, vero, pur non essendo scritto come un reportage. (ARDV)
Incipit: Marcin era morto. Io avevo i pidocchi. Cioè successe nello stesso momento, Marcin cagava sangue, stava morendo, beveva e cagava sangue. Io invece avevo prurito ovunque, dietro la nuca soprattutto. “C’hai la rogna”, mi diceva Tano, il pescatore, l’amico di Ivona. Ma Ivona stava con Marcin e Marcin stava morendo perché cagava sangue.

vastaVASTA, Giorgio (1970), Il tempo materiale, Roma, Minimum Fax, 2008: per il lavoro sul linguaggio, a tutti i livelli – stanandolo, braccandolo, rinnovandolo, riscoprendolo, incarnandolo, incendiandolo. Per la capacità di farlo imbizzarrire – ad opera di incontenibili bordate di intelligenza superiore – mantenendo una meravigliosa armonia. (ANZA)
Incipit: Ho undici anni, sto in mezzo a gatti divorati dalla rinotracheite e dalla rogna. Sono scheletri storti, poca pelle tirata sopra; infetti, a toccarli si può morire. Ogni pomeriggio lo Spago gli porta da mangiare in fondo al giardino di fronte casa. Io a volte la accompagno. Ci vengono incontro lenti, sbandando laterali, ci guardano con gli occhi che sono gocce d’acqua e fango. Tra i morenti mi sono legato al peggiore, quello che sul bitume dei vialetti se ne sta in fondo, immerso nell’abisso; sente i passi e muove la testa piano, come un cieco che segue una canzone. Il pelo nerastro regredito a sbuffo sulla pelle scrostata, una zampa brancolante persa tra le altre; zoppicava già da piccolo, adesso è grande, uno storpio naturale.

 

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