Andrea Zandomeneghi: Febbre presenta una scrittura matura: asciutta, affilata, priva dei virtuosismi e degli orpelli narcisistici tipici dell’esordiente. Come sei arrivato a costruirla? In particolare quanto e in che maniera le collaborazioni con Gay.it, The Vision, Vice e Il Fatto hanno fatto maturare la tua prosa e la tua visione delle cose?

Jonathan Bazzi: La mia scrittura è cambiata molto nel corso del tempo. Cinque, sei anni fa – periodo in cui, incapace di darmi possibilità più concrete, mi sono fatto conoscere sui social attraverso una serie di racconti sulla mia quotidianità (dalla coinquilina mistress ai deliri tragicomici dello yoga milanese) – era molto più satura, barocca e piena di slanci aulici. Ero innamorato della prosa di Rosa Matteucci, Busi, Arbasino. Poi negli ultimi anni la mia scrittura ha iniziato a farsi sempre più leggera. Come direbbe Husserl, per amore delle “cose stesse”. Voglio restare il più possibile vicino all’esperienza, e in particolare con Febbre questa era la mia priorità. Il cambiamento può certo essere anche il frutto del mio lavoro come contributor di magazine e testate online, lavoro che comunque ho portato avanti più per necessità che per vocazione. Io mi sento un autore, non un giornalista: ho grande fastidio verso la mia scrittura quando finisce compressa dai tempi e dalla modalità accelerate – e brutali – del web. Infatti da diversi mesi ho smesso di scrivere articoli: ho iniziato a percepire che stavo buttando via il mio rapporto con la forma e la ricerca linguistica. Anche perché non avrei mai potuto fare entrambe le cose, scrivere Febbre e produrre pezzi al ritmo a cui ero abituato. Ciononostante, l’aver scritto per alcuni anni in modo quasi compulsivo può avermi portato alla scrittura asciutta che si ritrova in Febbre. Anche se quella in realtà è comunque una prosa molto lavorata, frutto di infinite riscritture. Quando scrivevo articoli non dico che doveva essere “buona la prima”, ma ci si andava molto vicino.

 

AZ: Quali sono stati gli autori che hanno maggiormente nutrito il tuo stile? Quali sono i punti di rifermento della tua scrittura?

JB: Le mie letture da sempre sono varie e poco uniformi, ma sicuramente posso dire che il mio riferimento principale sono state le donne, e non solo le romanziere. Non sono particolarmente legato alla forma del romanzo, mi interessano le contaminazioni e la lingua delle scrittrici è la mia lingua materna. Nella post adolescenza ho frequentato molto Emily Brontë, Elsa Morante, Emily Dickinson, Virginia Woolf, Natalia Ginzburg, Lalla Romano. E moltissimo poi, soprattutto durante gli studi universitari, tutte quelle figure sospese, tra riflessione, poesia e scrittura spirituale: Simone Weil, Cristina Campo, Etty Hillesum, Ingeborg Bachmann, Marina Cvetaeva, Antonia Pozzi, Jeanne Hersch, Iris Murdoch. Credo che il mio sguardo debba molto a quel tipo di libera indagine sulla struttura dell’esperienza, come avviene ad esempio ne Diario di fabbrica di Simone Weil. Febbre ad esempio per me è anche una ricognizione sulla trasmissione del trauma e sui misteri del corpo, elaborata sulla scorta delle mie maestre invisibili.

 

AZ: Quali sono invece gli autori – tu peraltro sei laureato in filosofia – che hanno influenzato con più vigore la tua concezione del mondo e dell’uomo? Con quali sensibilità culturali e ideologiche ti senti in armonia?

JB: Sono stato un grande amante della fenomenologia, in particolare della prima scuola fenomenologica, attraverso i corsi di Roberta De Monticelli, mia professoressa durante il periodo di studio all’Università San Raffaele. Gli albori della fenomenologia, quindi Husserl e i suoi allievi (tra cui Edith Stein, sulla quale ho fatto la tesi). Ma anche molto Max Scheler. Mi ha interessato in particolare l’applicazione del metodo fenomenologico ai temi delle emozioni, dell’empatia, della vita morale. Si tratta di un approccio antirelativista, realista per quanto concerne l’esperienza affettiva e morale. I valori esistono, stanno nelle cose, sono accessibili mediante l’intuizione affettiva o percezione assiologica. Dai fenomenologi ho preso l’idea di “serietà dell’esperienza”, la convinzione che la realtà sia attraversata da una trama di rapporti e legami “oggettivi”, ovvero forniti di un accesso intersoggettivo. Una specie di amore per la struttura delle cose. In questo senso ho un approccio molto interessato a ciò che attraversa, taglia orizzontalmente, esseri e situazioni, tracciando analogie e rimandi simpatetici. Penso che un realismo molto preciso porti a intercettare le vibrazioni metafisiche, per così dire, di quello che abbiamo sotto gli occhi. Oltre questo sono appassionato di questioni di genere e di studi queer. E anche di antispecismo. Mi interessano le verità emotive e corporee negate, represse.

 

AZ: Spesso durante la scrittura di un romanzo si leggono e rileggono testi (per tematiche, per prospettive d’interpretazione del reale, per ricerca linguistica) funzionali all’affinamento e alla costruzione del libro. Vorrei chiederti quali letture hanno accompagnato la stesura della tua opera e se s’è trattato di letture casuali o pianificate.

JB: Io pianifico ma poi non seguo i miei piani. Di base nei periodi in cui scrivo intensamente non leggo molto, perché finisco letteralmente ossessionato dalle mie pagine e riesco a fare ben poco che non sia scrivere, rileggere e riscrivere. In ogni caso durante la stesura di Febbre ho letto alcuni lavori sulla simbologia dell’HIV, come Malattia come metafora di Susan Sontag, e ho ripreso il meraviglioso La sofferenza del corpo di Elaine Scarry, che avevo già studiato ai tempi dell’università. Quando scrivo mi è più facile leggere racconti e poesie, testi brevi o brevissimi che ravvivino le mie munizioni espressive. Anche perché io sono interessato a una scrittura dal passo leggero, piena di pause e spazi vuoti, capace di aprirsi a intuizioni liriche. Nell’ultima fase di lavorazione del libro ho letto per esempio alcune raccolte di Patrizia Cavalli, mentre un piccolo libro che mi ha fatto sentire di dovermi dedicare di più alle tensioni espressive del testo è stato il bellissimo Acqua nera di Joyce Carol Oates.

 

AZ: In particolare Febbre sembra porsi come un’autobiografia pura: anzitutto, è così? Oppure hai scelto di romanzare alcuni passaggi, alterare alcuni nomi di personaggi, edulcorare o acuire azioni, dinamiche e caratterizzazioni? Inoltre, con quali altre autobiografie – penso ad esempio a Edmund White – ti sei confrontato e hai dialogato?

JB: Per me Febbre è un romanzo che usa materiale autobiografico. Ci tengo a dire che è un romanzo perché scrivendolo, l’ho progettato e costruito più per le sue immagini, la sua voce e la sua struttura che per le informazioni che trasmette. E infatti alcune cose sono alterate rispetto alla mia biografia. Non le grosse questioni, ma come si sa la vita è molto meno abile a intrattenere rispetto alla sua messa in scena: è piena di ripetizioni, buchi, incoerenze. In più quando si discute della differenza tra autobiografia e romanzo, mi viene sempre da chiedere: la tipica domanda “ma è tutto vero?” si riferisce alla verità del mondo o dell’autore? Con essa si pretende di sapere se il libro contiene la trascrizione di dati reali o di dati mentali reali? In generale io ricerco sempre l’affastellamento, affianco a una singola versione di come sono andate le cose una domanda, o un’immagine, che metta in discussione quella prima versione, allargando lo spettro delle interpretazioni possibili. E diciamo che sono partito avvantaggiato: avevo coi fatti della mia vita già un rapporto da osservatore. Mi sono capitati ma non sentivo un’appartenenza certa, indissolubile. Credo questo valga in generale: penso che, per scrivere di sé in maniera decente, occorra aver vissuto un passo indietro, già in qualche modo da narratore.

AZ: Parlaci di come s’è svolta la fase dell’editing del libro. Ti ha fatto soffrire? Ti ha aperto gli occhi? Il confronto credi che ti abbia arricchito? Cosa e quanto è stato deciso di tagliare o ridimensionare?

JB: La fase dell’editing è stata piuttosto fluida, e non molto lunga. Più che altro Lavinia Azzone, la mia editor, mi ha aiutato a dare coesione narrativa, limitando ripetizioni, dettagli troppo simili tra loro e cali della tensione. Mi ha aiutato a individuare – sin dalle prime settimane – i fuochi tematici più importanti e a seguirli, nel marasma delle scene e dei ricordi. Mi sono stati posti dei limiti di pagine – che ho comunque sforato. Febbre è di 326 pagine, se fossi stato libero probabilmente sarei arrivato a 500. A posteriori credo per il libro sia meglio così, durante la fase di scrittura e di editing sì, ho dovuto fare delle rinunce. E dei tagli. Avevo molte cose da dire, e il ritmo del libro arriva anche da quello. In generale mi sono sentito stimato e libero di seguire le mie inclinazioni. Il mio stile è stato profondamente rispettato. E non so come avrei reagito in caso contrario. Quasi sempre mi sono state fatte delle proposte – il patto era che potevo rifiutare fornendo una risposta argomentata – non mi è stato imposto nulla. La mia editor me l’ha detto più volte: io ti aiuto ma il libro è tuo.

 

AZ: Consideri la pubblicazione di questo libro un atto politico? Perché e in che modo?

JB: Sì, almeno in parte penso lo sia. Per quanto io fatichi a considerarmi un attivista – nel senso che non ho mai fatto parte di associazioni, gruppi o partiti – ad oggi devo riconoscere del mio lavoro fa parte anche quel risvolto lì. E ne sono contento. Febbre ha un potenziale politico perché espone gli effetti della cultura patriarcale, le responsabilità delle istituzioni nei confronti delle periferie (geografiche e identitarie), il carico di dolore non riconosciuto dallo sguardo tradizionale, eteronormato, sessista, abilista, sierofobico. È un libro che cerca di giungere al massimo grado di visibilità, nella convinzione che solo l’espressione di quello che si è permetta di prendere davvero posizione contro un sistema che ci ha stritolato, e magari continua a farlo.

AZ: Dal tuo pressoché infallibile modo di studiare mandando tutto a memoria emergono spiccati tratti di personalità ossessiva. Pensi che questa componente abbia avuto un ruolo nella scrittura del romanzo? Mi viene in mente anche tutto l’aspetto dell’ipocondria (“sì, sono sieropositivo, ma ho anche qualcos’altro, un’altra patologia che nessuno vuole indagare e per stanare la quali mi sottopongo a miriadi di esami”) che porta a ingigantire i dettagli, cadere preda di suggestioni, sentirsi incompreso e trascurato. Interessante da ultimo come ci sia una sorta di ereditarietà nel DOC presente infatti anche nel padre del protagonista maniaco della pulizia e dell’igiene, al punto di non poter vivere con lui.

JB: Sì, il temperamento ossessivo probabilmente è anche alla base della memoria dimostrata dalla voce narrante nel recuperare questioni e dettagli del passato, anche remoto. Se è vero che il disturbo ossessivo è il sintomo di una struttura psichica bloccata da qualche parte nel passato, tutto Febbre può essere inteso anche come una pratica di desensibilizzazione, di ritorno all’oggi. Mi interessava articolare anche una sorta di metamorfosi del trauma, vedere come si trasmette, come cambia nel tempo, a quali tentativi compensatori (e quindi sintomi) dà origine. Nella vita ho sperimentato anche altre forme di DOC, che però non ho inserito in Febbre perché avrebbe aperto ulteriori questioni, e come dicevo mi è stato chiesto di rispettare degli standard di compattezza, importanti per un esordio.

AZ: Fortemente negativi sono i personaggi maschili adulti: il nonno, il padre, il compagno della madre. Vorrei che ci parlassi di come vedi una serie di concetti: patriarcato, machismo, virilità, mascolinità. Anche alla luce del fatto che sono presenti soggetti più giovani e positivi, Marius in primis, pensi che le aberrazioni del maschilismo si stiano sfaldando e depotenziando, stiano scolando via, di generazione in generazione. Hai quindi una visione ottimistica?

JB: Senza dubbio volevo raccontare anche la dimensione delle gerarchie di genere. Le violenze domestiche, la violenza assistita (quella vissuta dai bambini che assistono agli episodi di violenza), l’abuso psicologico e fisico. Anche perché sono fenomeni sui quali purtroppo spesso ho sentito agire il “meglio tacere”: minimizzare, scusare, far finta di niente. Nella mia vita il virus è stato solo l’ultimo di una serie di invasori, usurpatori dello spazio vitale. Sono cresciuto a Rozzano, e lì il machismo e la virilità tossica sono ovviamente imperanti. E bisogna poi sempre tener presente che in quei contesti la contrapposizione non è solo uomini contro donne. Al vertice della piramide gerarchica c’è il maschio bianco adulto sano eterosessuale, e il suo potere si esercita anche sui maschi privi delle altre caratteristiche: bambini, vecchi, stranieri, omosessuali e così via. E in questo senso io più volte nel libro dichiaro il mio amore per i maschi “deboli”, i ragazzi depressi e malconci, quella che in un’ottica machista si potrebbe definire la femminilizzazione del maschile. Per tornare alla tua domanda, penso che oggi le differenze rispetto al paradigma machista ricevano più visibilità e si autocomprendano meglio. Però il periodo politico è quello che è. Quindi per ora le concepiscono un po’ come delle isole di consapevolezza, che magari riescono in alcuni casi a fare rete e incidere sulla vita sociale, ma sempre restando in forte minoranza.

 

AZ: Al centro della narrazione c’è una malattia venerea, portanti sono le questioni dell’orientamento sessuale del protagonista e della sua educazione sentimentale. Considerando che fai penetrare con forza – quasi con violenza – il lettore nei tuoi territori più intimi e considerando che ti produci in descrizioni minuziose anche di soggetti (apparentemente) marginali ai fini della storia (penso a quando ti muovi orizzontalmente mappando geografia e morfologia antropica di Rozzano); alla luce di tutto questo perché hai deciso di non inserire nel romanzo scene esplicite di sesso? Perché cioè “meglio tacere? Lo sapranno anche i muri” vale per tutto meno che per il fattore erotico che affronti con un certo pudore e una certa reticenza?

JB: Il sesso c’è, anche se in una forma abbastanza specifica, e forse anomala. Mi sono concentrato sulle prime esperienze sessuale, nella quali si manifesta come forza incontrollabile e traumatica, una specie di pratica impellente, di trauma, che il protagonista della storia si infligge. Non mi interessava inserire delle scene erotiche in senso stretto: uno degli obiettivi era quello di raccontare una dimensione della sessualità gay alternativa a quella libertina, sfrenata, autocompiaciuta. Prendere le distanze dalla goliardia di tutta una parte della comunità gay maschile, ma più in generale dal modo in cui gli uomini (ad esempio mio padre nel libro) parlano di sesso. Volevo mettere a fuoco soprattutto la scissione tra emozioni e pulsioni, la spaccatura che il desiderio sessuale introduce nella vita psichica, e il bisogno di trovare una mediazione che ricomponga l’integrità messa alla prova dalla libido. E poi volevo anche mettere in discussione l’idea secondo la quale i sieropositivi contraggono l’infezione a causa del loro smodato amore per la promiscuità.

AZ: Quale è il tuo lettore ideale?

JB: Io ci tengo molto a non escludere nessuno. Soprattutto con Febbre la mia scommessa era quella di mettere a fuoco una prosa che parlasse a quante più persone possibili. E questo significava lavorare a una voce che fosse limpida ma non sciatta, asciutta ma non povera. Idealmente vorrei essere letto da tutti: da chi legge poco e da chi legge molto, da chi ha affinità biografiche con la mia vicenda e da chi invece non ne ha nessuna. Di certo non scrivo solo per gli scrittori o la comunità LGBT, ecco. Anche se amo sia gli scrittori che la comunità LGBT.

AZ: Hai deciso di dare amplissimo spazio a Rozzano. Perché è stato così importante nella tua formazione? A me sembra che tu costruisca il tuo personaggio progressivamente in contrapposizione con quel luogo che diventa l’emblema dell’ignoranza, del degrado, della barbarie, della marginalità socio-culturale. Jonathan Bazzi è l’incarnazione dell’antitesi di Rozzano?

JB: In parte sì, ma io conservo in me molto di quel posto. Resto un rozzanese, anche se non vivo più lì da almeno dieci anni. Come scrivo da qualche parte nel libro, Rozzano è stata il veleno e l’antidoto. Ha una carica vitale più alta, ti costringe a fare di continuo i conti col pericolo vero. E anche la forza espressiva lì è più intensa, meno addomesticata. Probabilmente se non fossi nato a Rozzano sarei una persona diversa, e forse un autore più allineato. Qualcuno di recente mi ha fatto notare un’affinità tra il mio rapporto con Rozzano e quello di Anna Maria Ortese con Napoli (che non era la sua città d’origine ma divenne la sua ossessione). L’essere legati a un luogo da cui ci si ostina a prendere le distanze per poi tornarci sempre… Insomma, qualcosa di simile a quello che in psicologia evolutiva è l’attaccamento ambivalente/invischiante. Con Febbre in qualche modo io torno a Rozzano, la distruggo e poi la ricostruisco, a modo mio. C’è un intento quasi mitopoietico, ho voluto rendere Rozzano più bella.

AZ: Come è avvenuto l’incontro con Fandango?

Essenzialmente grazie a Matteo B. Bianchi. È stato lui che ha fatto avere a Tiziana Triana (direttrice editoriale) e Lavinia Azzone (editor per la narrativa) le prime pagine che avevo scritto. Nel corso degli anni io più volte sono stato contattato da autori e persone dell’ambiente editoriale che hanno provato a stimolare il mio approdo alla forma romanzo. Lui è stato quello che ci ha creduto di più, che forse ha capito meglio il mio bisogno di incoraggiamento, che più volte è tornato a domandarmi come stesse andando con la scrittura e le vicissitudini editoriali. Ha dimostrato una generosità non comune. Gli devo molto.

JB: Quando e come è nata l’idea di scrivere questo libro?

L’idea risale al 2014, ma ho inviato a lavorarci seriamente solo dal 2017, utilizzando come spunto alcuni frammenti già esistenti (pubblicati sotto forma di articoli o brevi racconti). All’inizio non sapevo se dedicarmi all’HIV, a Rozzano oppure a entrambe queste due presenze della mia vita. Poi ho avuto l’idea di legarle, ho sentito che avevano qualcosa da dirsi, da dirmi. In quella fase sono state fondamentali alcune scrittrici (in particolare Viola Di Grado e Teresa Ciabatti), che mi hanno dato consigli preziosi, tra cui quello di affrontare subito il tema dell’HIV invece di rimandarlo a un libro successivo.

AZ: Ti interessa la letteratura italiana contemporanea? Quali autori leggi e stimi?

JB: Mi interessa molto la letteratura italiana contemporanea. Parlo italiano e credo che la frequentazione degli autori che si misurano con la mia stessa lingua sia un’esperienza – estetica e formativa – più profonda rispetto alla lettura di opere non italiane in traduzione. Tra l’altro è una questione molto forte per me anche con la musica: da estimatore dei testi delle canzoni, ho sempre fatto fatica ad ascoltare canzoni cantate in altre lingue. Non perché non capisca l’inglese: è proprio un problema di intimità, di accesso diretto all’esperienza linguistica. Come ti dicevo leggo soprattutto donne: Matteucci, Ciabatti, Muratori, Stancanelli, Durastanti, Bellocchio, Di Grado. Ma adoro anche Mari, in particolare le opere autobiografiche, e i giovani narratori che non hanno paura dei sentimenti, tipo Barison e Biferali.

AZ: Che libro vorresti scrivere in futuro?

JB: Questa è una domanda a cui, per ora, non riesco a dare una risposta precisa, univoca. Io sono dei Gemelli, e i Gemelli sono bravissimi – da buon segno mercuriale – a moltiplicare all’infinito gli scenari possibili senza dedicarsi a nessuno nello specifico. Con Febbre la scelta è stata facile: avevo l’urgenza di raccontare quella storia, quelle storie. Era la mia, sentivo di doverlo fare prima di potermi dedicare ad altro. Per il futuro ho diverse suggestioni fluttuanti: credo di volermi spostare dalla dimensione autobiografica ma non ne sono ancora sicuro al cento per cento. Ho molta voglia di sperimentare ma c’è da vedere quanto e se potrò permettermelo. Ho deciso di prendermi queste prime settimane dall’uscita del libro per farmi ispirare anche un po’ dalle impressioni che ricevo. Per capirmi un po’ di più come autore, per vedere meglio l’autore che sarò. Del passaggio alla pura fiction la cosa che mi spaventa di più è il dover scegliere, con la dimensione autobiografica in qualche modo sei stato scelto tu, ti resta la libertà dello sguardo, ma un abbozzo di trama c’è già.

AZ: Raccontaci della copertina del libro. Hai contribuito a sceglierla, cosa trasmette e quale è la sua storia?

JB: Come si sa è molto raro che un autore, soprattutto se esordiente, possa contribuire alla scelta dell’immagine di copertina. A me invece è successo, e se è successo lo devo alla sensibilità della mia casa editrice e poi ovviamente alla potenza delle immagini di Elisa Seitzinger, illustratrice ipertalentuosa di Torino che seguo da quando una mia coinquilina mi portò a casa un poster raffigurante una santa Lucia corredata da alcuni versi di Like a Prayer di Madonna. La mano che regge la piantina con gli occhi non è nata col libro, esisteva già: era un’illustrazione di Elisa che amavo da tempo. Nel 2017 avevo anche pensato di tatuarmela, perché tocca in me qualcosa di molto intimo. È un’immagine allo stesso tempo dolorosa e fiera, vitale, sgargiante. Ricorda i tarocchi, il folklore sudamericano, quel temperamento meridionale in cui sono cresciuto, che mi ha formato e credo alimenti un po’ anche la mia scrittura. Quando durante il primo brainstorming per la cover l’ho proposta a Fandango è piaciuta subito, e così Febbre ha trovato la sua copertina. Qualche giorno fa una persona mi ha scritto che è un’immagine che mi somiglia, e credo sia vero. Nella mia visione si lega profondamente anche allo spirito del libro: raffigura un’offerta, l’offerta viva di uno sguardo, di un punto di vista. Ecco come sono andate le cose o, più precisamente: ecco come io le viste, ecco il modo in cui mi sono apparse. Febbre è soprattutto questo, l’offerta di un punto di vista. Un reportage a ritroso nel segreto, in ciò che ci insegnano sia meglio non dire.

***

Jonathan Bazzi

Febbre

Fandango Libri, 2019