Ci è giunta l’altro giorno una lettera firmata Anonimo Bolagnista del XXI secolo – una testimonianza dura e disperata di quello che alcuni, forse in mala fede, definiscono bolagnismo severo.
Ebbene, nonostante le calunnie che contiene, le accuse e i riferimenti talvolta imprecisi o allucinatori (Fate era un uomo, Oscar Fate – o quando avrebbe cambiato sesso?) in uno sforzo di trasparenza e apertura a nuovi generi  letterari (tra i quali, ad esempio, lo psico-memoir), ve la diamo in pasto. La calunnia, in fondo, la querela, nutre i nostri corpi stremati.

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Non che mi aspettassi chissacché quando ho fatto il mio primo ingresso nell’Anonima Bolagnisti, ma certo non pensavo che sarebbe successo quello che poi effettivamente ho avuto modo di osservare. La stanza dove ci incontravamo non era molto grande e aveva una strana forma poliangolare – ho provato a volte a contare i lati, ma mi sono reso presto conto che era uno sforzo inutile – e posso dire soltanto che in un angolo c’era sempre una strana pozza fetida che emanava costantemente miasmi di malinconia imputridita e di tentazione sadico-anale mentre il pavimento era formato da pezzi di coccio frantumati e amalgamati con una strana pasta di colore giallo ocra. L’intera situazione sapeva di acido urico e di benzodiazepine (che vagavano tranquillamente nell’aria ed erano spirate via da alcune bocche d’aria incastonate all’interno di una delle molteplici pareti, quella turchese e dall’odore di rancido, al di là della quale – ci dissero – si riunivano le puttane assassine). Le sedie erano disposte in cerchio, come pretende ogni perfetta quanto istituzionale (presunta) mancanza di distanza e autorità, e al centro era posizionato uno strano macchinario: una ragazza, che aveva frequentato quel posto per diversi mesi e che aveva nel fondo degli occhi l’immagine balorda di un silenzio estrogenico, mi confidò che serviva a raccogliere le nostre esperienze in vista della produzione del più grande romanzo-mondo mai esistito, un’opera titanica e che per la sua infinità non aveva certo bisogno di regole o di contenitori, ma soltanto di una mega-macchina, quella che – aggiunsi io – domina il mondo almeno da un paio di secoli a questa parte. La signorina F. (non potevamo scambiarci i nomi in quella sede, ma lei – almeno così mi disse nell’orecchio mentre me lo mordeva piangendo e sanguinando – non era altri che Fate) è pazza e il suo seno morbido e appuntito e il suo sesso caldo e impregnato mi tolgono ancora il sonno.

Perché “ancora”? Semplice: durante la penultima seduta a cui ho partecipato prima che succedesse quello che successe, la signorina F. aveva scaricato la sua più intima e vera (sì! era “vera”, non tutte le evacuazioni lo sono) diarrea sul macchinario, perché la descrizione della merda nella quale affoghiamo giorno dopo giorno non basta più e perché tra le parole e le feci c’è una distanza incolmabile e (forse) infinita, e così il signor Arturo (l’unico che poteva avere diritto a un nome e che ovviamente, dato il ruolo di sorvegliante-psicosimboliatra, non amava gli eccessi filosofico-simbolici) decise che fosse rinchiusa in un vecchio manicomio (di quelli riaperti di recente, ma soltanto per gli affetti da malattie a carattere psico-simbolico, di cui ovviamente fa parte anche il bolagnismo “severo”), in maniera tale che – così disse il nostro mentore – poteva dare libero sfogo ai suoi sfinteri senza impedire a chicchessia di dire la propria, controllandosi.

Il primo giorno in cui ho fatto ingresso in quella strana struttura – ricordo ancora le urla da neonato affamato di un maiale (di cui ho avuto modo poi di assaggiare le superbe salsicce) che veniva scannato ritualmente con un coltellaccio arrugginito, poco tagliente e molto doloroso – il signor Arturo mi consegnò nelle mani un bicchiere contenente urina e un altro contenente feci semisolide (o semiliquide, io sono ottimista per cui per me restano semisolide, ma Fate non concordava) affinché potessi distaccarmi dalle esagerazioni spirituali del credere per potermi dedicare al discreto materialismo del pensare. Il signor D., che in un secondo momento sarebbe divenuto il mio migliore collega bolagnista e che in un terzo momento mi avrebbe tradito, mi chiamò a sé e mi disse che l’unico intento di quella strana procedura di accoglienza era di creare uno stupore lancinante, una ferita al proprio ego narcisistico, una rappresentazione oscena della qualità intrinseca del vivente biologico. Insomma, dissi io, un modo per sottolineare che siamo umani non tanto perché mangiamo ma perché cachiamo e pisciamo. Il signor D. mi guardò fisso negli occhi per lunghissimi secondi, come cercando qualcosa, e poi mi disse: sei un idiota e mi consegnò nelle sapienti e profumate mani del signor Arturo. Mentre mi muovevo in circolo – come ben sapete, soprattutto agli inizi, il bolagnista anonimo, nel momento in cui entra nella stanza della sede, deve creare un cerchio all’interno della figura poliangolare della stanza e lo deve fare immergendo prima i piedi nudi in un piccolo e fetido catino riempito di acque luride, sangue di maiale e sottilissimi fogli scritti fittamente e poi camminando legato a una fune formata da capelli spessi e ricci fissata con un piolo al macchinario – e, dunque, mentre mi muovevo in circolo – chiedo scusa, ma tendo ancora a perdere il filo della narrazione, soprattutto da quando mi sono ritrovato in questo malinconico posto senza speranza, in questo mondo che non mi appartiene e al quale non appartiene alcuna seppur mediocre volontà di resistenza – insomma, ricordo che in quel momento, mentre mi muovevo in circolo, sorrisi al signor Arturo per mostrargli come fossi ben disciplinato e fossi ben consapevole di voler superare il mio petit bolagnisme (come solitamente viene chiamato, in maniera familiare, dagli psicosimboliatri), il quale signor Arturo, però, non nascondendo un’espressione di panico, mi disse soltanto che necessitavo di inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e forse anche di una vera e propria reazione al dolore. Io, che sono una persona molto ben educata, risposi semplicemente non lo so, ma che, se lo ritiene necessario, sono qui anche per questo. Il dolore del braccio frantumato (che misi in conto al governo in vista delle psicoferie), dopo essere stato posto tra due assi di legno e immerso in un florilegio di chiodi arrugginiti, lo sento ancora, soprattutto quando penso di poter costruire una narrazione psico-simbolica (ma ho imparato a controllare le fitte, anche ora che sto scrivendo, usando ovviamente soltanto l’altro braccio, i miei cari e inseparabili inibitori selettivi e i miei innovativi narcolettici antipsicotici).

Feci anche amicizia con molti dei semi-internati nell’Anonima Bolagnista e riuscii a cogliere come si sprofondi nel bolagnismo anche quando si ritiene che la battaglia possa essere vinta. Un esempio su tutti era Zuc-Zic-Zuc – due avvertenze: la prima è che ho deciso di trascrivere in questa maniera lo strano fonema che pronunciò più volte mentre si masturbava ferocemente ascoltando le cupe dissertazioni del prof. Amalfitano, la seconda è che non ricordo più se la prima e la terza Z fossero sorde e la seconda sonora o l’inverso – il quale mi impegnava costantemente in discussioni su quanto fosse, ad esempio, complessa l’articolazione del senso all’interno della distinzione tra l’essere e il dover essere laddove la nostra società multi-qualcosa (non ricordo più) assomiglia sempre di più a un agglomerato di impronunciabili affricate alveolari sorde. Io gli rispondevo che certo, sì, la questione è sicuramente complessa e che il passaggio dal momento occlusivo al momento fricativo delle affricate merita un approfondimento, ma lui, allora, soprattutto se gli si dava ragione e non si approfondiva a dovere la connessione tra la linguistica post-moltitudinaria e la psico-sociologia alveolare, era capace di mettersi a testa in giù, camminare sulle mani e sollevare con i piedi il grosso scaffale contenente l’enciclopedia della meta-critica letteraria dell’illustre prof. Benno von Haas per poi gettarlo contro la povera e indifesa Fate. Sì, Fate. Perché poi c’è ovviamente Fate: meravigliosa, calda, psicosessuale e sanguinante. Con lei ebbi anche una specie di relazione: ci incontravamo all’esterno della stanza poliangolare e, come due ragazzini, andavamo a nasconderci in un vecchio bagno di quelli utilizzati un tempo per il taglio della lingua e il rimpasto della materia molle, e lì ci lasciavamo andare alle nostre più folli perversioni: lei amava moltissimo riprendersi con uno smartphone mentre con un sottilissimo coltellino tagliava piccoli lembi di carne tra le “ninfe” poco al di sotto della grande foresta (il sangue che usciva dagli innumerevoli vasi sanguigni mi ricordava lo sprizzare allegro del sangue del maiale a testa in giù); io invece ansimavo e mi toccavo l’incavo delle ginocchia e cercavo di fare di tutto per trattenere gli orgasmi multipli che mi partivano dal mesencefalo.

Ma Fate era meravigliosa: feroce, aromatica e aritmica. Poi, il signor D. ci scoprì e svelò la nostra relazione, consegnò il mio unico amore al signor Arturo e lei fece la fine che fece, senza la possibilità né di evacuare né di tagliare lembi della propria (non altrui!) carne. Il signor D., invece, fu sin dall’inizio per me una questione un po’ controversa: credevo, infatti, che fosse un mio collega, anche lui inviato dal governo per controllare la situazione, prevedere le trasformazioni future, contenere le defecazioni simboliche e, invece, si trattava di tutt’altro. Il signor D. era un vero artista, uno di quelli che farebbe impallidire qualsiasi rappresentante del monismo autoerotico franco-nipponico o del de-spiritualismo anti-fenomenologico di matrice sino-mediterranea. La sua idea era semplice (ricordo le serate trascorse a parlarne, le più belle di quell’epoca, tra un bicchiere di urina e una defecata nello stagno), se l’artista non deve più toccare alcuna materia e deve soltanto produrre idee (la sua conoscenza della storia dell’arte mi lasciava sgomento e con un leggero reflusso esofageo), se l’artista deve essere in grado di non essere più in grado di fare niente che abbia a che fare con le mani e la manualità, allora si aprono due strade che, nonostante siano rette, si incontreranno nel punto esatto e nel momento opportuno: muovere la realtà senza le mani – questo il motivo della delazione nei confronti di Fate – e masturbarsi senza toccarsi – questo il motivo per cui eravamo sempre nudi e pensavamo a Fate mentre sorseggiavamo la sua (di lei) urina.

Quand’ecco che accadde quello che non doveva succedere: mentre io entravo nella stanza poliangolare e il signor Arturo masturbava due cani per dimostrare non so che forma di continenza e di ascesi, il signor D. e Zuc-Zic-Zuc, ad un segno convenuto, presero a gridare e gridando a vomitare lunghi fogli scritti in maniera eccessivamente fitta: fenelzina, tranilciproimina, moclobemide – strillava rigettando fogli il signor D. – amitriptilina, clomipramina, imipramina – gli faceva eco Zuc-Zic-Zuc. Poi, la macchina iniziò a emettere degli strani rumori, sembrava uno di quei vecchi post-cingolati della VI Guerra Simbolica, e quando tacque mi sembrò che cadesse come corpo morto cade: a quel punto dovetti intervenire.

Il signor Arturo era, come del resto avevo sempre sospettato, proprio il signor Arturo Belano, capo dei ribelli, quello che da anni cerca di costruire l’alternativa alla realtà, attraverso un miscuglio di perversioni, scrittura, rivoluzioni post-materialistiche e psicosessualità simbolica. Il mio rispetto nei confronti di quest’uomo immenso fu accresciuto in quel momento dal fatto che si facesse chiamare proprio Arturo, del resto quando bisogna nascondersi soltanto i più grandi sono in grado di farlo sotto lo sguardo di tutti. Io, dal canto mio, ero stato mandato lì per difendere l’accumulazione secondaria e il secondo ciclo della riproduzione del capitale simbolico – quello necessario per gli investimenti nei progetti governativi – e non avrei potuto certo permettere che il macchinario accumulasse tutte quelle defecazioni simboliche e arricchisse il Fronte dell’OTRPS.

Il mio problema, però, era un altro: amavo il signor Arturo Belano e credevo nella rivoluzione. Dinanzi a me si aprivano, allora, due strade: proseguire la mia missione facendo il doppio gioco, insomma avrei lasciato in qualche modo scappare Arturo Belano, gli avrei chiesto se potevo entrare nell’OTRPS, l’Organizzazione Transnazionale per la Rivoluzione Psico-Simbolica, e la mia credibilità sarebbe stata confermata dalle informazioni che, all’epoca, erano in mio possesso; la seconda era: proseguire la mia missione, finirla con questi sogni rivoluzionari, consegnare Arturo Belano al governo, godermi il mio bonus aziendale per la risoluzione di una delle più difficili questioni contemporanee (e per il mio braccio fracassato), defecarmi le mie meritate psicoferie in qualche paradiso artificiale convenzionato con il governo.

Mentre valutavo tutte queste opportunità, il signor D. era già alle mie spalle e mi colpiva con il guinzaglio del maiale scannato qualche giorno prima. Arturo Belano era dinanzi a me, bello forte e duro come un vero post-maschio della nostra epoca. Tutto si svolse in pochi attimi: mentre tentavo una qualsiasi reazione, il signor D. mi aveva già imbracato all’interno del macchinario al centro della sala poliangolare, Arturo Belano aveva già nelle mani una grossa leva che andava infilata all’interno di una piccola fessura su uno dei lati della mega-macchina, poi il silenzio. Le ultime parole che ascoltai furono: che si dia inizio alla Rivoluzione!

Poi, più nulla. Ora mi trovo a vagare (psico-simbolicamente potrebbero essere trascorsi svariati anni) in una terra che assomiglia sicuramente al Messico del mio immaginario infantile ma a niente che io mi possa ricordare di quello che ritenevo fosse il mio mondo (e non lo rimpiango, comunque). Intanto: la rivoluzione non è scoppiata, Arturo Belano è soltanto un personaggio uscito dalla penna di un tal Roberto Bolaño, tra l’altro omonimo dell’esimio professore che aveva scoperto il bolagnismo, e io sono considerato un pazzo mentre vago per le strade di Città del Messico. Mi hanno spiegato molte cose, ultimamente:  tipo che con schizofrenia non si indica mica una specifica patologia, ma un insieme complesso di disturbi – tutti molto gravi e caratterizzati dalla compromissione del cosiddetto “esame di realtà” da parte del soggetto, mi disse una volta un operatore dalle mani talmente linde e lisce da farmi pensare ai macchinari che maciullavano le lingue – ma che in definitiva il mio era un caso a cavallo tra la schizofrenia paranoide e la schizofrenia ebefrenica, con una tendenza più sviluppata della prima, ma che comunque la vita è bella per tutti e tutti devono essere felici. Ho provato a lungo a raccontare la mia storia, a dire che tutto potrebbe essere diverso e che la Rivoluzione deve essere l’unica stella polare del nostro agire. Quando parlo (e lo faccio spesso), alcuni mi seguono educatamente con malcelata compassione, molti mi sorridono con ben celata presunzione, quasi tutti senza celare nulla mi scacciano in malo modo, ma nessuno, celando o non celando, è felice e non ne avevo dubbi. E così la mia vita si dipana tra mense per poveri, dormitori lerci e puzza di urine e feci, le quali, però, – la merda di questo mondo –, non sono più capaci di suscitare alcuna rabbia psico-simbolica e dunque produrre capitali rivoluzionari. Un mio caro amico (di questo mondo), che nel mio mondo forse sarebbe stato internato per “bolagnismo severo” e che è costantemente ossessionato dalla domanda “chi è il sognatore che sogna il mio sogno?”, mi assicura che la Rivoluzione arriverà e che sta soltanto a noi essere in grado di attenderla, sognandola attraverso i sogni dei nostri sognatori preferiti. Noi lo facciamo, per il momento, seduti su questa panchina a Paseo de la Reforma, un po’ dormicchiando e un po’ parlando dei nostri (diversi e lontani) vecchi tempi.

Maggio 2015, Anonimo Bolagnista del XXI secolo