Palla non è Palla. È Palma, è Palmina, è Mina, è Amò. È Porcotta, è Dart. È tonta, è picchiatella, ´ncojonita, cojona. È ‘na zoccola, ‘na bestia. È una bambina che vuole fare ancora cinque minuti di pósoposino.

Il Diario di Palla non è un diario. Invece dell’atteso incipit in prima persona a inizio libro, un occhio narrante incollato alla protagonista la segue in ogni suo movimento, si sofferma maniacale sugli oggetti, sul sangue. Assisto al rituale del lavaggio della mestruazione celebrato da un’altra donna e la sensazione di intimità è altrettanto potente di quella che si dispiega in un dialogo interiore.  Catapultata a forza nel giro di quattro righe nella familiarità del sangue e di questo rito femminile, ripreso con abbondanza di dettagli, non posso non riconoscermi in esso. Questo stesso rituale segreto e universale l’ho celebrato centinaia di volte. Quel sangue l’ho visto migliaia di volte. È proprio come il mio. È proprio il mio. Il sangue non si può contare, “non è corpo e non è cosa”(p. 52): è un archetipo e un veicolo atemporale, è la massa spessa filacciosa rossa e nera che rende universale il racconto. E questo spazio che si dispiega tra la falsa dicitura “diario” e l’immedesimazione forzata con Palma lo prendo come un invito a entrare nella narrazione, a sovrappormi alle sue voci. Entro dunque a piè pari: questo diario è anche il mio.

Qui racconto una storia che conduce, per sfortunato caso e allo stesso tempo inevitabile, a vivere una relazione abusiva e violenta confusa troppo a lungo con l’amore; qui, procedendo a ritroso negli episodi della mia normalissima vita, cerco gli indizi, le tracce, i sintomi di un vuoto che ci ha trascinato  – me, Palma, voi – sull’orlo dell’abisso dal quale vi parlo proprio ora. Racconto l’iscrizione in carne viva di un dolore unico e privatissimo, ed allo stesso tempo corale femminile ed universale. La racconto con vergogna, con ritrosia, davanti allo specchio che ogni autrice, ogni protagonista, ogni lettrice sostiene qui dentro per le altre, scambiandosi continuamente di posto e di prospettiva.

“Era andata a nascondersi in bagno, dove una specchiera imponente moltiplicava le smorfie e le bocche e i trucchi di creature cotonate e, a loro modo, felici.” (Domitilla Pirro, Chilografia, Firenze, 2019, p. 67)

“Allora si alzava, pigliava lo specchietto dentro al beauty-case e chiudeva a chiave la porta. Si rimetteva a sedere sul water chiuso piazzandosi lo specchietto sotto, inclinato bene […]. Non capiva, però: e non c’era niente da capire. Vedeva concrezioni arcane e ispessimenti tortuosi.”(p. 81)

“Ignorò lo specchio.” (p. 128)

È un diario sanguigno, questo. C’è l’odore del sangue[1] dappertutto, a cominciare dalla mia nascita: un’inattesa emorragia sulla moquette dell’ingresso e un’anemia quasi fatale per me e mamma. Insieme al sangue, circolano per le mie vene anche solitudini e tristezze di altre donne, felicità disertate sugli altari di un antico amore romantico o del matrimonio desolante di mia madre nel quale sono malauguratamente irrotta. C’è sangue anche nella cantina di casa di nonna; è il sangue del maiale che nonno stava sgozzando quando è morto d’infarto, lasciandomi seduta bambina sui gradini a contemplare corpi e cose, senza che nessuna di esse potesse aiutarmi a esprimere con delle parole lo sconcerto e il dolore. C’è anche il mio di sangue, in cantina, versato maldestramente in una improbabile prima volta, tutto addosso a lui che “lo ha sporcato, lo ha sciupato, ha rovinato tutto” (p. 86) mentre io docile prendevo il mio posto, sotto, facendo spazio dentro di me al diritto altrui di godere, di venire, di lasciare a me solo un altro dolore inesprimibile a parole.

Quello che manca in questo diario, paradossalmente, sono sempre le mie parole, con le quali “capire il tempo” (p. 50), comporre la storia e i significati della vita. L’angolo distorto e frammentato dal quale comincio a guardare il mondo, sin da bambina, è riempito di oggetti, depositari di sentimenti e stati d’animo, significanti tangibili di significati ancora troppo oscuri e impenetrabili. Crescendo, le spiegazioni attese tutta una vita per ricomporre il quadro di un’agognata appartenenza a una storia familiare non sono arrivate mai. Come ogni adolescente soffro per la separazione dei miei genitori, che ho dovuto intuire da una stanza che pareva devastata dai ladri e l’eyeliner che mamma piangendo mi ha lasciato sulla maglietta; vivo la crudeltà dei coetanei, le difficoltà della scuola, il mio corpo, con penosa tristezza; guardo sempre più da lontano una sorella sempre più fregna che si burla e si vergogna di me, e quando ho bisogno di parlare, di fare domande, non c’è mai. Per questa vita provinciale, banale eppure tragica nelle sue tristezze, non c’è storiografia possibile: a sfidare il silenzio, placare l’angoscia, riempire il vuoto all’altezza dell’ombelico ogni volta che l’inadeguatezza si fa insopportabile, l’incapacità di stare al mondo palese, e la voglia d’ammazzarsi irrefrenabile c’è soltanto una vorace, insaziabile chilografia.

“Ma sente un vuoto all’ombelico, quando fanno cosí. Tocca andare in cucina per forza.” (p. 54)

“Da piccola aveva il divieto assoluto di consumare monnezza davanti alla madre […] perciò ogni volta che era ospite altrove, da sola o in famiglia che fosse, si riempiva il piatto e la bocca e poi passava il pomeriggio a torcersi in bagni altrui. I genitori si scusavano. Dicevano è debole di stomaco la bambina.” (p. 69)

“…si sente anche bucata e vuota. E questa bontà e questo vuoto non sono mai stati una gran coppia, dentro [di lei] che ha sempre pensato di trattare la bontà come la cattiveria, come un incendio da soffocare con lo stesso lenzuolo identico, il lenzuolo del ripieno cresciuto. Il lenzuolo che sta ripiegato in quell’armadio di strati asfissianti che è il frigo.” (p. 88)

In testa avevo i film, i telefilm di Italia Uno. Mi guardavo dall’esterno, da lontano, sorridendo al pubblico e a me stessa, indulgente, buonissima, squisita. La tensione somma della mia esistenza era diventata romantica. Mi divertivo a sobillare il drama, nelle vite delle mie alter ego televisive e virtuali confuse con la mia. Ed è stato un dramma e una confusione, del resto, anche la mia prima relazione col fidanzato all’università. Un dramma e una confusione anche il tradimento, il primo lavoro, la magistrale da cominciare tra un mese, tra sei mesi, tra un anno, visioni di vita adulta mai afferrata, mai compresa appieno.

Quando ho conosciuto l’Angelo, ho cominciato a scrivere. Scrivere è stato il primo ponte che ci ha unito, il veicolo della nostra prima lite d’amore; scrivendo mi sono raccontata, spogliata, ho costruito un alter ego accettabile che non ha mai conosciuto la mancanza di accettazione; fidata dell’idea che, “a distanza di pochi chilometri”, c’era per me “un esemplare umano tutto sommato accettabile” (p. 111). Quando ci siamo visti, abbiamo cominciato a parlare. Angelo parlava, parlava, parlava. A poco a poco ha riempito la mia vita di parole. Le sue.

“Qualcuno finalmente si occupava di lei e decideva cos’era che le faceva bene. Angelo questo lo spiegava in modo molto chiaro. […] Lei diceva solo sì sempre sì.” (p. 98)

“Quando […] iniziava così pareva un santone, la voce grave e rilassante […]. Lei annuiva sempre. Non sapeva resistere alle sue mani e al modo che lui aveva di guardarla, di farle sentire un posto e un’appartenenza nuove, più forti di qualunque altra cosa avesse mai sentito; e poi non c’era nient’altro da fare.” (pp. 144-145)

Non c’era nient’altro da fare, nessuna appartenenza precedente o più forte da rivendicare: dopo anni di insulti, scherno, disprezzo mai celato, niente può la sorella che all’improvviso vuole, sorprendentemente, – e sospettosamente: forse la manda mamma – sapere tutto quello che fino a quel momento non aveva mai remotamente condiviso, dal loro primo incontro a come avevano sistemato la casa; né un padre messo all’uscio dopo una visita di 20 minuti, padre che non somiglia più a nessuno, né a nonno né a nonna e nemmeno più a sé stesso; e nulla infine può una madre che, esaurite le urla e i litigi, ascolta la figlia affannarsi a convincerla della propria felicità, in quelle “tre ore concesse a vicenda” di ritorno “a un tempo impossibile, il paradosso spazio-temporale di una figlitudine che pareva fattibile solo lì e ora” (p. 159).

Il ritorno a quel tempo impossibile, che va capito liberandosi delle parole, e di questa donna a sé stessa avverrà, finalmente, a casa di nonna. “Certi luoghi hanno la capacità di allungarsi e rimpicciolirsi, contrarsi e distendersi a seconda dei gradi di distacco che ci proteggono da loro” (p. 80); ma il legame con essi, infestato di ricordi, angosciante e allo stesso tempo salvifico, non si può infrangere. La cantina è coscienza, luogo delle memorie intatte e inalterate, custode di un’identità personale e familiare mai del tutto abbracciata, rinnegata quasi, ma sempre presente e in paziente attesa che questa ormai donna vinca la paura di scendere le scale malmesse e vada a guardarsi, a misurare le proprie forze, a sentire l’odore del sangue.

“La sua coscienza le suggeriva, a centinaia di chilometri di distanza, quasi magneticamente, che quanto stava facendo non era un libero e allegro gioco dell’amore, bensì un oscuro e fatale abisso in cui stava precipitando”. (G. Parise, L’odore del sangue, Milano, 2004, p. 199)

In cantina, in fondo, nel punto più basso di una discesa vertiginosa che mi ha trascinato in un abisso di automortificazione e violenza nel giro di tre anni e cento pagine, c’è uno specchio. È lo specchio che abbiamo finora sempre rifuggito, spezzato, distrutto – tutto ciò che è vetro, in questo diario, è andato in frantumi, e le schegge si sono tutte piantate nel nostro corpo. È lo specchio che fino a questo momento una di noi tre (l’autrice, la protagonista, la lettrice) ha mantenuto in piedi, di fronte a noi, tutto il tempo.

“Si vide tutta intera. Lasciò cadere i vestiti per terra e continuò a guardare.” (p.183)

Da quaggiù è difficile, molto difficile, ricostruire tutto, capire dove è cominciata. “Forse, ma soltanto forse, ancora peggio di me”[2] c’è quella che non riconosco dentro lo specchio, quella che ha detto per tutto questo tempo “solo sì sempre sì”.

Forse è cominciato tutto coi paciocchini sacrificati nel fondo della fontana dei giardinetti in cambio di una amicizia. Forse col bersi insieme allo spumante le scuse ridicole di un qualsiasi coglione, con cui ho avuto la pessima idea di perdere la verginità, che arriva in ritardo alla mia laurea senza che io dica una parola. O forse con quei quindici minuti necessari ad ingoiare un cagna in calore e sentirmi lusingata dall’accaduto: è lì che ho cominciato a imparare a ribaltare il mondo, scambiare il bene col male, l’insulto con la lusinga, la felicità col martirio? Non è semplice risalire alla causa prima, all’episodio scatenante – esiste un momento esatto in cui la mente comincia a piegare la realtà al proprio desiderio? Un momento in cui l’ansia di appartenenza e il bisogno che qualcuno abbia bisogno di te diventano più forti, più coriacei di qualsiasi verità? Quanta ostinazione in quelle scuse proferite a ogni piè sospinto, per averlo fatto urlare, per averlo fatto arrabbiare, per avergli fatto tirare oggetti in giro, per essermi fatta colpire. Quanta forza per accettare il lento, inarrestabile capovolgimento di torto e ragione, responsabile e parte lesa, vittima e carnefice; ma lui con un paio di complimenti sgrammaticati le ha insufflato l’autostima e il coraggio, e l’ha fatta bagnare, e poi “doveva ave’ patito ‘nzacco, porello” (p. 145), adesso ci penso io a questo bambino impossibile e mio, perché finalmente qualcuno ha bisogno di me, senza di me non può nulla. Allora poco importa che sia io a diventare nulla, rinunciando con ogni sì a un tassello di me – quanti più chili, tanta meno Palma, sparisce lì dentro, in quel corpo deforme, la vuota compostezza diventata una massa densa e scomposta. Everything not saved will be lost[3], dice l’altra nota in esergo a Chilografia e bisogna salvare prima di tutto questo nuovo senso di appartenenza, questo orgoglio di aver costruito qualcosa di intero e sano, questa relazione dove finalmente qualcuno ha bisogno di me. Prima di capire che sono io quella che va salvata, qua dentro, ce ne vorrà di tempo, ce ne vorrà ancora.

Dovrò prima mettere a tacere il buon senso, imparare a sorvolare sorridendo sul suo fanatismo per la caccia, la polizia e i fucili, i Rammstein, i tatuaggi imbarazzanti, le pietose bugie, l’ignoranza e la stupidità, guardando a tutto ciò come a un delizioso catalogo di tenere mancanze, come quelle del bambino che ancora non ha imparato tutto – ma tanto adesso ci penso io.

“«Perché io devo fare tutto quello che vuole lui. Almeno per ora. Poi io lo cambierò, non farà più di questi scherzi e si metterà a lavorare. E guarirà anche». «Perché tu pensi che l’amore può tutto, non è vero?». «Sì».” (L’odore del sangue, p. 225)

Poi dovrò perdere la voce: la capacità di definire il mio desiderio e le mie voglie, dire a voce alta come voglio fare sesso, dove voglio essere toccata, cosa mi fa godere e cosa no, che film mi piacciono, dove voglio andare in vacanza; e dire a me stessa che lo faccio per amore, e non per la paura che già si insinua, tentativo disperato del corpo di salvarmi, e mi fa sognare di morire, mi fa svegliare urlando e piangendo, nell’intento di spezzare il gioco al massacro nel quale la mente è impegnata.

Arriveranno gli sbalzi d’umore repentini, sempre causati dalle mie dimenticanze, le mie sbadataggini, la mia ostinazione a voler parlare e dire sempre la cosa sbagliata, i miei imperdonabili errori; poi le urla, le parole scandite, gli oggetti lanciati.

Sarà richiesta anche una certa forza fisica per sopportare la grandine di baci, i pizzicotti che non lasciano mai segni, i buffetti, i paccheri, i polsi stretti, le botte durante il sesso, fuori dal sesso, i ceffoni, le manate sulla testa, gli schiaffi, i pugni in faccia.

Alla fine, ci sarà bisogno di solitudine e silenzio: ogni parola può scatenare l’inferno, ogni rumore una crisi, meglio silenziare tutto, privarsi della compagnia del cagnolino, di quella delle amiche; del resto, una volta che hai sgarrato e sei tornata tardi a casa per esserti fermata a fare due chiacchiere, fiducia non ne meriti più. Botte, semmai. Ed è meglio anche per te, in fondo, se ti chiude a chiave in casa dalla mattina alla sera: tanto non lavori, stai a casa a fare i mestieri, amiche non ne hai più, la famiglia tu stessa l’hai allontanata, il cagnolino anche, perché lo faceva tanto arrabbiare; e la presa del computer lui non te l’avrebbe mai tolta, se tu con le tue cuffie nelle orecchie, le tue gonne da puttana, il trucco in faccia, la tua voglia di dimagrire non si sa per chi e i tuoi ritardi con le amiche non avessi dato adito al legittimo sospetto del tradimento. L’unico rumore rimasto, a ferire le orecchie, il suo modo di girare le chiavi quando rientra a casa, che fa scattare sull’attenti, a preparare la cena, sperando questa sera, almeno questa sera, di non sbagliare nulla, di non farlo arrabbiare.

“Tu a me mi stressi ‘na cifra, angelo mio, mi stressi da mori’, e mo c’ho i crampi, ‘taccitua.” (p. 191)

Finirà dove è cominciata, tra i ricordi di estati bambine, o forse in uno dei miei sogni di morte. In cantina, dove si sgozza il maiale, e senza piangere altrimenti non muore. Adesso ci vedo bene. Dosso in movimento, cataclisma naturale, elemento di paesaggio che all’improvviso comincia a sussultare da sotto, da dentro, con una carezza riempio la cantina dell’odore del sangue.

Finalmente stai zitto, angelo mio. Finalmente non sei più corpo, sei solo cosa. Fegato tosto e puzzolente, cuore polmoni fegato e milza, lingua porosa e ruvida, interiora, muso, salsicciotti. Questa lingua che tanto ha potuto distruggere e ferire me la faccio a tocchetti: con un pizzico di sale sopra va giù che è una meraviglia. È moscia: è solo un pezzo di carne moscia.

“Dominava appunto quella mollezza interna, quella debolezza, quella fragilità nervosa, brutale ed egocentrica […]. Al tempo stesso quella […] mollezza interna ed esterna della faccia diceva che [era pronto] a chiedere perdono in ginocchio come a minacciare e a ricattare, con la prepotenza e la violenza di quella [sua] stessa debolezza.” (L’odore del sangue, p. 233)

Si partorisce così. Le donne e le bestie. Spargendo sangue, rosso infinito, in remissione dei peccati di tutte le donne affamate e mai sazie d’amore e bisogno. Rinata, partorita nuovamente, finalmente carnefice e vendicata, Palma è piena e stanca e non riesce a spiegarsi. Riemerge dalla cantina e sale al tetto. A vedere il cielo, le colline, come da piccola, con la nonna.

“Altri cinque minuti di posoposìno, nonna. Altri cinque minuti, mamma.” (p. 202)

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[1] L’odore del sangue è anche il titolo del romanzo di Goffredo Parise da cui è tratta la citazione in esergo a Chilografia.
[2] G. Parise, L’odore del sangue, p. 221. Questa frase è in esergo a Chilografia.
[3] Nintendo Quit Screen Message, in esergo a Chilografia.

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Domitilla Pirro
Chilografia,
effequ, 2019
pp. 202