Ciò che scrivo non è frutto di fantasia. Cosa altri hanno detto della realtà, che io conosco per averla vissuta in prima persona, mi è del tutto indifferente. Probabilmente della mia versione qualcosa è trapelato, una volta o persino molte, ma questa discussione mi interessa meno rispetto all’accuratezza con cui, dopo tanti anni, ho cercato di ricostruire gli eventi. So che le mie affermazioni sembreranno assurdità, ma il mio proposito non è certo sorprendere chicchessia, né cancellare le falsità che finora sono state tramandate dai governanti succedutisi fino a oggi.
La mia impresa, un sassolino nel mare documentale fiorito in seguito alla costituzione dell’Impero Celeste, apparirà persa in partenza, pertanto mi limiterò a tentare un’esposizione la più oggettiva possibile e invitare il lettore a compiere una scelta tra due possibilità: considerare questo testo un mero esercizio stilistico, oppure accettarlo totalmente o solo in parte, laddove individuasse nella storia ufficiale qualcosa che scricchiola, un’incongruenza, e, a quel punto, lasciare che si disveli tutto l’apparato dogmatico a lui trasmesso e per la cui accettazione gli è stata richiesta cieca professione di fede.
Ora io non farò altro che narrare ciò che mi restituisce il ricordo, e in questo dichiaro preventiva ammissione di colpa per quanto potrà sfuggirmi, dimenticanze dovute in parte alla connaturata fallacia della memoria umana, in parte all’azione dei summenzionati documenti, in particolare de Il Libro del Sommo Profeta o Libro di Buzi nelle sue varianti, ovvero: il Manoscritto di Chebar, L’Arca dell’Alleanza, La Nuova Dottrina, La Legge dei Giusti. Altresì, avviso il lettore che, probabilmente, di quanto mi accingo a raccontare non troverà riscontri nei resoconti ufficiali, dato che i soli a conoscere la verità – verità coperta da segreto di Stato – sono i congiurati di cui io feci parte, cui è stato fatto esplicito divieto, pena la morte, di svelare e le modalità effettive con cui si svolse la guerra e l’esistenza dei poteri occulti che da allora tengono in mano le sorti della Nazione. Tutto avvenne esattamente nei termini che io descriverò, come io lo esperii con i miei organi di senso, pertanto reputo inaccettabili e del tutto contrarie alla ragione, al buonsenso e alla coerenza storica le mistificazioni successive generate dai sontuosi quanto fasulli racconti di visioni mistiche e agenti spirituali.
La rivoluzione scoppiò nel mio trentesimo anno. Allora non c’era alcun timore che il governo instaurato con la forza dai nostri nemici potesse vacillare. Io mi trovavo relegato sulla sponda reietta del fiume Chebar, oltre il confine, assieme agli altri deportati, sfortunati discendenti della nobile stirpe del re deposto, Ioiachin. Con noi c’era il grande sacerdote Buzi, che già officiava il culto dei Signori Celesti. Ci predisponevamo all’attacco confidando in un’arma segreta di cui nessuno, eccetto Buzi, conosceva il funzionamento: un carro della potenza di un intero esercito, veloce come mille cavalli, capace di sorvolare i cieli e scagliare fulmini e saette.
I Signori Celesti, a dire di Buzi – l’unico ammesso al loro cospetto –, invitarono una piccola delegazione di noi esiliati a visitare la macchina, laggiù, nella spianata che sorgeva dal letto del fiume prosciugato. Ci fu detto che si trattava di accogliere l’intervento divino che, per motivi imperscrutabili, ci giungeva come un dono munifico. Tuttora ritengo che se le nostre menti non fossero state ottenebrate da credenze irrazionali e sciocche superstizioni, forse avremmo potuto acquisire le conoscenze necessarie alla piena comprensione e applicazione di una nuova tecnica dalla quale derivare grandi benefici per l’intera umanità. Immagino la reticenza nella divulgazione di tali conoscenze legata a motivi di ordine sociale: i Signori Celesti, fin dall’inizio tesi a prevenire le spinte libertarie che sarebbero potute sbocciare in seno al popolo, temevano le conseguenze che gli utilizzi scellerati di un’arma così potente avrebbero potuto causare, e in questo bisogna riconoscere del vero, non avendo torto chi afferma che lo spirito di Caino aleggia sul mondo. In effetti, alla sola idea della guerra i nostri cuori, dapprima pavidi, divennero intrepidi ed eccitati. Eppure, quel giorno, di fronte alla rinnovata speranza di vittoria, mi parve di palpare nell’aria una forza vibratile sconosciuta, una tensione virile potentissima. Il brillio nei miei occhi si rifrangeva in quello dei miei compagni; ci muovevamo come un unico organismo, un branco feroce in un mare agitato dove l’aggressione è l’unica forma di convivenza immaginabile, senza possibilità di pace duratura, benevolenza o amicizia tra simili, dove tutto è lotta. Tali sensazioni posso descriverle precisamente ora, ma, allora, l’unica cosa di cui avevo piena consapevolezza era il vento tempestoso che mi feriva gli occhi e mi scompigliava le vesti. Ricordo che, a un certo punto, fummo avvolti da una grande massa di nuvole e nugoli di sabbia: il deserto ci strinse in una cappa aurea. Ed ecco che finalmente il cielo fu attraversato da un fuoco saettante al cui centro sorgeva una figura maestosa che, a poco a poco, si levava dalla massa polverosa: un carro gigantesco rimaneva sospeso a mezz’aria senza fare ricorso a battiti d’ali o moti di pinne. L’impressione che la visione produsse in noi fu straordinaria, non riuscivamo a staccare gli occhi dai congegni rilucenti.
La struttura centrale della macchina riportava impresse, dipinte oppure scolpite, le immagini semoventi di esseri viventi – né uomini e neppure animali, mostri forse, ignote figure mitologiche o ancora angeli – ognuno con quattro facce e quattro ali rette, a loro volta, da arti simili a mani d’uomo. Tutte queste ali (o pale) si muovevano in due sole direzioni, avanti o indietro, non congiungendosi mai e restando immobili durante il volo, cosicché la macchina sembrava un ampio nembo fluttuante nell’atmosfera. Su ogni ala risaltavano decorazioni animalesche in bassorilievo fatte di una materia infuocata di lampo o di tizzone ardente; potei scorgere un toro, un leone, un’aquila, un elefante. Non mi accorsi subito delle gigantesche ruote di rame forbito che vorticavano senza mai toccare terra, né dei cerchi, dell’altezza di un palazzo a tre piani, costellati di pulsanti in crisolito. Sovrastato da tanta magnificenza, sollevai la testa verso la sommità del carro: su una vasta superficie di ghiaccio levigato svettava un magnifico trono color zaffiro su cui sedeva un uomo di cui non riuscivo a intravedere il volto.
Nonostante il suono emesso dai dispositivi meccanici, simile allo scroscio del mare in tempesta o al tumulto prodotto da un esercito, riuscii a udire la voce del nostro capo spirituale.
«Ascoltate», urlava «oggi riceverete le prescrizioni dei Signori Celesti». Nello stesso istante in cui le ruote del carro toccarono terra, cessò lo stridore. Poi dalla vetta del trono si aprì una cortina trasparente. Mi accorsi che la faccia del condottiero era occultata da un cappuccio argenteo. Rivoltosi con aria deferente in sua direzione, Buzi continuò: «Con quest’arma assoggetteremo i nemici e restaureremo il regno del re Ioiachin. Dovrete radunare i soldati e poi attraversare il fiume Chebar. Delle modalità di quest’operazione non dovrete preoccuparvi, avrete l’ausilio e la protezione dei Signori Celesti. Condurrete con voi armi e bestiami, prenderete anche frumento, orzo, fave, lenticchie e spelta con cui preparare il pane di cui nutrirvi; non mangerete corpi di animali già morti o sbranati e berrete solo acqua. Una volta raggiunta la pianura e poi la valle, lì porrete accampamenti a ridosso delle mura della città di Al-Quds. Durante questo tempo vi fingerete pastori nomadi. Al settimo giorno sferrerete l’attacco. Riceverete precise istruzioni circa tutte le operazioni. Come vi ho già detto, il carro sarà l’arma segreta».
Fui pervaso in quel momento da grande audacia e non mi parve privo di rispetto interrogare la nostra guida circa una questione che da tempo mi era sorta in cuore. Pertanto, chiesi: «Ci è dato conoscere i Signori Celesti?»
Il sacerdote mostrò al cielo la verga che impugnava con la destra e urlò: «Voi non sapete pensare e volete conoscere».
Mi feci più ardito, insistetti: «E tu insegnaci a farlo».
«Ebbene», continuò lui «i tempi non sono ancora giunti. Affinché voi possiate conoscere la natura di chi è destinato a governarci, dovrete prima comprendere le leggi che governano l’universo, ma non siete pronti: il vostro pensiero è primitivo, troppo semplice il linguaggio. Vi basti sapere che quanto discende dai Signori Celesti è buono e giusto: questo mondo proviene da loro, ne è la piena emanazione».
Altre voci si univano alla mia: «Vogliamo la verità», dicevano.
Buzi ci assecondò: «La nostra cultura non è pronta ad acquisire la suprema sapienza. Servirà un grosso sforzo e bisognerà essere consci dei limiti della coscienza umana, attualmente al suo stadio più basso. La realtà ultima che soggiace a tutte le cose è unica e indivisibile e, sebbene l’esperienza ordinaria non ci renda consapevoli delle implicazioni di una tale rivelazione, arriverà presto un tempo in cui vedremo chiaramente ciò che adesso ci sembra incomprensibile. Noi dividiamo le cose per poterle governare, c’è buonsenso in questo: gli eventi appaiono separati; il tempo stesso, per sua natura infinito, è scandito in piccole unità misurabili. Questa, però, è una grande illusione che costruisce il misero intelletto avvezzo a scindere, classificare, distinguere là dove c’è solo unità perfetta, assoluta armonia. Nell’universo non c’è divisione, solo nell’esperienza mistica è possibile intravedere la reale, autentica essenza della materia, che è fisica ed eterea a un tempo. Più si penetra a fondo nelle cose, più ci si rende conto delle particelle di cui si compongono. L’idea fondamentale che devono accettare i sapienti è che esiste un’interconnessione intima tra ogni elemento; non c’è distinzione tra struttura fisica e verbale, spirito e sostanza; la pace stessa deriva dalla guerra: azione e verbo coincidono esattamente».
Quelle parole furono per noi un balsamo benefico: ci sentivamo invincibili; presto tutte le nazioni si sarebbero prostrate ai nostri piedi e avremmo cacciato gli usurpatori. Per sedare il subbuglio che da lì a poco sorse, Buzi agitò in aria il bastone e lo conficcò a terra. Poi afferrò per un polso uno dei congiurati, sguainò la spada e la passò sulla testa ricciuta: ora la folta capigliatura tremolava nelle mani del sacerdote come un piccolo animale sacrificale. All’improvviso, dalla grande macchina partì una saetta che deflagrò a terra generando una fiamma. Allora il sacerdote gettò la chioma nel fuoco e ordinò: «Impugnate le lame e fate lo stesso!». Ci conformammo senza protestare. Buzi (l’unico a rimanere intonso) si occupò personalmente della rasatura del Re: terminata l’operazione, poggiò sul capo regale un cappello adorno di fili variopinti. Poi, la faccia rivolta ai monti, preconizzò: «La fine verrà nelle quattro estremità del Paese, chi ha disobbedito pagherà. Adesso siete pronti».
Nei giorni seguenti la nostra guida spirituale ci comunicò come avremmo dovuto formare e addestrare i nuclei d’assalto; dopodiché ci indicò il luogo esatto alle porte di Al-Quds, presso le quali ci saremmo accampati; da lì avremmo sferrato l’attacco finale. Prima di tutto, però, bisognava attraversare il fiume: non ci fu detto come.
Il giorno convenuto ci trovammo sull’argine del Chebar, sulla linea di confine. Era quasi l’alba e un vapore denso come il fumo di una fornace saliva dalla terra. Mi guardai attorno e vidi che l’intera pianura lambita dal fiume non offriva ripari: sarebbe stato impossibile passare inosservati a occhio umano. Non scorsi nessuna imbarcazione.
Una torcia annunciò l’arrivo di Buzi: avanzava verso est seguito dal Re. Arrivato a un piccolo promontorio, s’inginocchiò e, con il viso a terra, disse: «Stringetevi attorno a me e formate un cerchio». Ubbidimmo.
«Adesso, per volere dei nostri Signori Celesti, senza sforzo, compiremo la traversata. Chiudete gli occhi e non apriteli fino al mio prossimo ordine».
Me ne stavo placido – il tepore del sole nascente mi sfiorava la pelle –, quando sentii un fragore assordante, come il boato prodotto da un tuono. Fu solo un attimo, poi avvertii una spinta verso l’alto. Queste percezioni scemarono in fretta; infine provai una sensazione nuova: era come se la terra sotto i miei piedi ondeggiasse lievemente. Sollevato, sospirai, aprii gli occhi e allora vidi: al di sopra delle nostre teste si dischiudeva una coltre metallica sotto la quale non esisteva più cielo, né fiume, né acqua, né terra, una volta argentea cosparsa di occhi cerulei e bottoni d’oro: eravamo all’interno della grande macchina. Fu una voce a distogliermi dalla visione: «Come osi tu alzare lo sguardo?». Mi voltai e mi accorsi della presenza tremenda che si accompagnava a Buzi: un essere altissimo, dalla pelle diafana e completamente glabra, con il cranio allungato, mi scrutava coi suoi grandi occhi giallognoli. Guardai oltre il sacerdote e ne vidi un altro, gigantesco, del tutto simile al primo, poi un altro e un altro ancora. «Abbassa la testa», mi ammonì il sacerdote puntandomi la verga contro il petto, «il nostro Signore, che è uno e molti, ama ma non avvampa, è geloso ma non si turba, si adira e resta calmo, muta l’opera ma non il progetto. Oggi però ti è concesso il perdono e con ciò ti si dà più del dovuto, affinché tu divenga debitore; ma dimmi: c’è qualcuno che possegga qualcosa che non sia già di qualcun altro? Adesso va’ e taci».
Serrai le palpebre e le riaprii solo quando ricevetti l’ordine di farlo. Ero prostrato, confuso e inerme, eppure perfettamente incolume, misteriosamente approdato sulla sponda opposta del fiume. Non potevo far altro che celebrare la gloria dei Signori Celesti di cui ora avevo visto il volto. Mi accampai assieme ai compagni nella piccola vallata alle porte di Al-Quds. Alcune guardie vennero a farci domande: offrimmo loro monete d’argento e agnelli.
Al tempo stabilito, al suono mattutino della tromba, si alzò dall’orizzonte un vento tremendo: dapprima fummo accecati dalla gran quantità di sabbia e polvere, poi di nuovo ci trovammo al cospetto della Gloria Celeste. Raccolti in file ordinate, cominciammo ad avanzare verso Al-Quds, il Re e Buzi nelle retrovie; la strategia era semplice: rimanere compatti dietro il carro alato.
La porta principale della città fu spazzata via dai colpi sferzanti delle saette infuocate; ci lanciammo furiosi sui nemici, astuti come linci e insidiosi come serpenti. La conquista fu facile e immediata. Per mezzo dei suoi strali micidiali la macchina distrusse granai, pozzi, uffici pubblici; poi fu la volta delle case, del bestiame, dei raccolti. Di fronte alla nostra avanzata, cessò l’orgoglio dei vecchi usurpatori: in molti perirono a causa della grave carestia che di lì a poco arrivò; chi aveva salva la vita, o si alleava o era fatto prigioniero. In breve, la città di Al-Quds divenne un luogo di biasimo, tutto il Paese un’immensa landa desolata; a nulla valsero le profferte di pace: i Signori Celesti volevano tutto. Il nostro Profeta riportava visioni gloriose del futuro, intanto che le città vicine, in preda a grande angoscia, cadevano una dopo l’altra. Prima di essere deposti, i vecchi regnanti gettarono oro e argento nel fiume. Allora Buzi diede ordine di demolire i santuari, distruggere altari, rompere incensieri, profanare i vecchi idoli e mettere al loro posto le ossa dei morti. Ioiachin fu restaurato sul trono, però morì entro pochi giorni a causa di una ferita letale al costato. Al posto della monarchia fu istituito il Governo dei Saggi dell’Impero Celeste, presieduto dal profeta Buzi. Anch’io ne feci parte, assieme agli altri congiurati.
Fu allora che ebbe inizio la grande mistificazione: rifacendosi all’antico Codice di Mitzvò, testo sacro dedicato al dio Thevèr-El e precedente alla formazione dell’Impero, si redasse il Libro del Sommo Profeta o Libro di Buzi nella sua prima versione, ovvero il Manoscritto di Chebar, che la tradizione esegetica di Perim vuole scritto da un imprecisato ministro divino e miracolosamente ritrovato sulle sponde del Chebar dallo stesso Buzi. Con esso si stabilì la nuova legge.
Fu fatto esplicito divieto di nominare i Signori Celesti, se non durante le dovute orazioni pubbliche e solo in termini di presenze spirituali; vi era un unico Signore, invisibile, onnipotente, che per mezzo del suo popolo eletto e del suo unico Profeta aveva fondato in terra il proprio regno. Si costruì per ognuno dei congiurati una divina ascendenza in base alla quale legittimare l’oligarchia teocratica appena instaurata. Non fu più lecito adorare le divinità preesistenti – il cui culto era invece stato garantito dai governi precedenti –, pena l’esilio al di là del fiume Chebar, nella colonia penale istituita come luogo di espiazione per gli oppositori del regime. Fu proibito ogni riferimento alla grande macchina: finita la guerra, la macchina, Gloria del Signore, fu condotta al santuario dell’Unico Dio Indivisibile e lì venerata come sacra reliquia, divenendo il simbolo fondante dell’Impero. Quelli a seguire furono anni di grave oppressione: i governanti inasprirono le tasse e molte delle risorse un tempo destinate a strade, ponti e opere pubbliche furono impiegate per la costruzione di templi maestosi, eretti al prezzo di innumerevoli vite. Ovunque nel Paese sopraggiunsero povertà e sofferenza. Fu ben presto chiaro che non di liberazione si trattò, quanto di assoggettamento a nuovi, spietati padroni.
Ho conservato finora il mio segreto, piegato dal giogo di paventate ritorsioni su innocenti a me cari. Adesso che non ho più nessuno e ho sconfitto la paura della morte, voglio consegnare al popolo l’unica testimonianza che attesti la veridicità circa le origini di questo scellerato Impero e non le menzogne che gli esegeti prezzolati hanno diffuso per ottenere cieca paura, terrore mistico e muto asservimento. Dopo aver fatto questo potrò andarmene serenamente.
Invito a leggere il testo nell’unico senso possibile, ovvero quello letterale, e mi oppongo fin d’ora a eventuali interpretazioni fuorvianti; rigetto i fingimenti messi in atto – col ricorso a miti e archetipi – da sedicenti storici al soldo di occulti padroni al fine di costruire una mitologia imperiale. Questo è un governo terreno voluto da un’oscura stirpe che all’ombra di suoi falsi profeti ci governa per mezzo di sopruso, circonvenzione e menzogna. Non esiste altra verità. Parola di Ezechiele.

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In copertina: 2001: Odissea nello spazio (1968), Stanley Kubrick