Oggi è venerdì, giorno del milite ignoto e di un po’ di aneddotica antica.

Quando nel II secolo a. C., all’indomani della vittoria sui cartaginesi, alcuni filosofi greci (ellenistici, per la precisione) da Atene si recarono a Roma per il reclamo di una multa (altri tempi, amici crapuli, ma non meno critici se per togliere una multa si manda avanti l’avanguardia filosofica del tempo). Tra i filosofi spiccava Carneade (citato anche da quell’ignorante di prete di don Abbondio), il quale tenne due discorsi sulla giustizia, in due giorni differenti, portati avanti con tesi che si contraddicevano. Provate, adesso, ad immaginare questi uomini propriamente guerrieri che ascoltano un filosofo (Chi? Il male, diceva Catone il Censore) il quale parla contemporaneamente a favore e contro la giustizia. I romani, che all’epoca pensavano più a conquistare che a pensare e basta, scacciarono Carneade e gli altri che componevano la simpatica gang antitrust.

Il secolo dopo la situazione era già completamente diversa. Roma era diventata così potente da permettersi la filosofia e la grande letteratura ellenistica, insomma di effeminarsi (come avrebbe detto Catone, che in tanto era morto) per poter finalmente mettersi al passo con i greci, che per quanto vinti e sottomessi (i più sadici dicono che la sottomissione fu una vera delizia per quei greci) erano riusciti a conquistare le migliori menti romani, le cui più forti aspirazioni divennero d’improvviso sapere comporre un’orazione, piuttosto che imbracciare il gladio. Cicerone in questo senso è certamente il più notevole esempio: egli fece tutto ciò che la legge, i costumi, la necessità, il fato, il Tevere, il Campidoglio etc gli prescrivevano per diventare il più perfetto cittadino romano. E non si può dire che non lo fu, anzi lo fu a tal punto che trovatosi di fronte al dilemma della divinità (durante i suoi ozi da esule, anche l’esilio faceva parte dell’essere stati romani) formulato da Anassimandro,  egli si pone un dubbio, quello più romanamente auspicabile, ossia che contempli dentro sé anche la superstizione, quasi a confutazione del dubbio stesso.

Ecco, spulciando un libro di Giorgio Colli ho trovato una testimonianza per dire quanto ho detto sopra:

11[B 11] a (12A17 DK) Cicero, De nat. deor. 1, 10, 25 (IV 2, 13, 4.-7 C. F. W. Müller)[1]

Anaximandri autem opinio est natiuos esse dios longis interuallis orientis occidentisque, eosque innumerabilis esse mundos. sed nos deum nisi sempiternum intellegere qui possumus?

***

Pertanto l’opinione di Anassimandro è che gli dei non siano eterni – nascendo e morendo a lunghi intervalli – e che essi sono gli innumerevoli mondi. Ma noi come possiamo intendere un dio se non eterno?

(Traduzione di Luca Mignola)



[1] Giorgio Colli, La sapienza greca II,  Adelphi, Milano 1994