Fu allora che si domandarono in cosa consiste con esattezza lo stile. E, grazie a studi che aveva loro suggerito Dumouchel, appresero il segreto di tutti i suoi generi. Come si ottiene lo stile solenne, quello temperato, l’ingenuo, le frasi nobili, le parole basse. Cani sale di tono con voraci. Vomitare deve essere usato solo in senso figurato. Febbre è un attributo delle passioni. Valore sta bene in versi.

«E se componessimo dei versi?», disse Pécuchet.

«Dopo! Per il momento occupiamoci della prosa».

È formalmente raccomandato di scegliersi un classico che faccia da modello, ma tutti comportano dei pericoli, e non solo perché presentano difetti di stile, ma anche di lingua. Questa affermazione sconcertò Bouvard e Pécuchet, che iniziarono a studiare la grammatica. Nella nostra lingua ci sono, come in latino, articoli [sic] definiti e indefiniti? Alcuni pensano di sì, altri di no. Non se la sentirono di decidere.

Il verbo deve sempre accordarsi col soggetto, salvo nei casi in cui non si accorda. Un tempo non si distingueva tra gerundio e participio presente, ma per l’Accademia una differenza c’è, anche se non facile da capire. Furono molto contenti di apprendere che il pronome loro è riferito sia alle persone che alle cose, mentre in cui e ne si riferiscono a cose e solo qualche volta alle persone.

È meglio dire «una donna di aspetto buono» o «buona di aspetto»? «un ceppo di legno secco» o «di legna secca»; «non lasciare di» o «che»; «sopraggiunse una banda di ladri» o «sopraggiunsero»?

Altre difficoltà: «Intorno» e «all’intorno», di cui Racine e Boileau non vedevano la differenza; «imporre» o «inculcare», che Massillon e Voltaire usano come sinonimi; «gracchiare» e «gracidare», che La Fontaine confonde, pur sapendo distinguere un corvo da una rana. I grammatici, è vero, sono in disaccordo; gli uni vedono un preziosismo dove gli altri scoprono un errore. Fissano principi di cui respingono le conseguenze, accettano conseguenze rifiutandone i principi, si appoggiano alla tradizione, respingono i maestri, e hanno delle strane sottigliezze. Ménage si fa sostenitore di lentiche e zuchero al posto di lenticchie e zucchero. Bouhours scrive ierarchia al posto di gerarchia, e Chapsal gli occhi della minestra.

Pécuchet rimase colpito soprattutto da Génin. Come! Magiuolini andrebbe meglio di magiolini, fagiuoli di fagioli? E sotto Luigi XIV si pronunciava Ruma invece di Roma, e Signor de Liune invece di Lione! Littré poi diede loro il colpo di grazia affermando che mai ci fu un’ortografia sicura, e mai ci sarebbe stata.

Ne conclusero che la sintassi è una chimera e la grammatica un’illusione.

Proprio allora si stava affermando una nuova moda retorica che sosteneva la necessità di scrivere come si parla, e che tutto va bene purché sia frutto di sentimento e osservazione. Sentimenti ne avevano, e non mancava loro l’osservazione, perciò si giudicarono in grado di scrivere. È difficile scrivere commedie per la rigidità dell’impianto; nel romanzo c’è più libertà. Per farne uno ricorsero ai loro ricordi.

Pécuchet si ricordò di uno dei suoi capiufficio, un uomo spregevole, e pensò di vendicarsene con un libro.

Bouvard aveva conosciuto all’osteria un vecchio insegnante di calligrafia, ubriaco e ridotto in miseria. Un personaggio unico e divertente.

In capo a una settimana erano arrivati a fondere i due soggetti in uno solo; non andarono oltre, in compenso ne ipotizzarono altri: una donna che è causa delle disgrazie della famiglia; una donna, il marito e l’amante; una donna virtuosa per mancanza di fisico, un ambizioso, un prete malvagio.

Cercavano di mescolare queste idee confuse con fatti suggeriti dalla memoria, toglievano, aggiungevano. Pécuchet era tutto sentimento e ideali, Bouvard immagini e colori; iniziarono a non intendersi più, e ciascuno si stupiva che l’altro fosse così limitato.

Forse la scienza estetica avrebbe potuto dirimere le loro dispute. Un amico di Dumouchel, professore di filosofia, inviò loro un elenco di opere attinenti alla materia.

Lavorarono separatamente, comunicandosi poi le impressioni. Prima di tutto, cos’è il Bello?

Per Schelling è l’infinito che si manifesta nel finito, per Reid una qualità occulta, per Jouffroy qualcosa di non analizzabile, per De Maistre ciò che piace alla virtù, per padre André ciò che conviene alla ragione.

Esistono vari generi di bello: un bello scientifico, la geometria è bella; un bello morale, non si può negare che la morte di Socrate sia bella. Un bello nel regno animale.

Nel cane la bellezza consiste nel suo odorato. Un maiale, invece, non potrebbe essere bello, viste le sue abitudini immonde; e neppure un serpente, perché suscita in noi idee di bassezza. Fiori, farfalle, uccelli possono essere belli. Ma la condizione prima del bello è l’unità nella varietà, ecco il vero principio.

«Tuttavia», disse Bouvard, «due occhi strabici sono più vari di due occhi normali, ma l’effetto è inferiore, di solito».

Affrontarono il problema del sublime. Ci sono realtà di per sé sublimi, il frastuono di un torrente, le tenebre profonde, un albero abbattuto dalla tempesta. Il temperamento di un uomo è bello nel trionfo, sublime nella lotta.

«Ho capito», disse Bouvard, «il bello è bello, mentre il sublime è bellissimo».

Ma come distinguerli?

«È questione di sensibilità», rispose Pécuchet.

«E questa sensibilità da dove viene?».

«Dal gusto!».

«E il gusto cos’è?».

È una capacità particolare di discernimento, un giudizio rapido, la superiorità nel cogliere certi nessi.

«Insomma il gusto è il gusto, e comunque non si sa come fare ad averne».

Ci sono norme da osservare; ma le norme variano; e per quanto un’opera sia perfetta, non sarà mai irreprensibile. Eppure c’è un bello indistruttibile, di cui ignoriamo le leggi, perché la sua origine è misteriosa.

Dal momento che un’idea non può assumere qualsiasi forma, dobbiamo ammettere limiti tra un’arte e l’altra, e diversi generi all’interno di ognuna. Ma si danno circostanze in cui lo stile di una trapasserà nell’altra, se vuole raggiungere lo scopo, rimanere nella verità.

L’applicazione troppo puntigliosa del vero nuoce alla bellezza, e preoccuparsi del bello intralcia il vero. Comunque, senza ideale non c’è vero; ecco perché la realtà dei modelli ideali è più costante di un semplice ritratto. L’arte si occupa solo della verosimiglianza, ma la verosimiglianza dipende dall’osservatore, e dunque è una cosa relativa, passeggera.

Si perdevano così nei ragionamenti. Bouvard credeva sempre meno nell’estetica.

«Se non è una sciocchezza, il suo rigore risulterà da esempi concreti. Adesso, ascolta». E lesse un appunto, che gli era costato molte ricerche.

«Bouhours accusa Tacito di non possedere quella semplicità che richiederebbe la storia. Il professor Droz rimprovera Shakespeare per la sua mescolanza di serio e faceto; un altro professore, Nisard, trova che Andrea Chénier, come poeta, sia inferiore al XVII secolo; Blair, un inglese, deplora la scena delle arpie in Virgilio. Marmontel geme sulle licenze di Omero. Lamotte non ammette l’immoralità dei suoi eroi, Vida è indignato per i suoi paragoni. Per concludere, tutti gli esperti di retorica, di poetica e di estetica mi sembrano degli imbecilli!».

«Stai esagerando!», disse Pécuchet.

Era in preda a dubbi, perché se i mediocri (come vuole Longino) sono incapaci di errori, e questi sono tipici dei maestri, dovremmo ammirarli? Questo è troppo! Ma i maestri sono i maestri! Avrebbe voluto conciliare le teorie con le opere, i critici con i poeti, cogliere l’essenza del bello; s’impegnò a tal punto in questi problemi da rovinarsi il fegato.

Ci guadagnò un’itterizia.[1]


[1] Fonte: www.writingshome.com