1.

Quando pensa a Walt Disney, di solito Remo se lo immagina dall’alto, nella sua cabina pressurizzata, a sorridere a sua moglie Lilly mentre col dito indicava Lake Buenavista, una palude dove allora non c’era niente. Se lo immagina così, Walt: ben vestito, profumato di dopobarba, mentre decideva che i tempi fossero maturi, e l’umanità svezzata; mentre decideva che l’eden, il posto più felice della terra, non avrebbe mai più dovuto attendere una particolare contingenza politica, o un’etica rinsecchita, per venire alla luce, ma sarebbe nato da una solida, massiccia e crudele strategia imprenditoriale. La sua.
Remo ci pensa spesso, e più che mai ci pensa questa mattina immerso nel silenzio della Lilly Belle Parlor Car, prima che il trenino parta sferragliando dalla stazione di Main Street, U.S.A. Dall’ultima carrozza, l’unica coperta, può sentire le famiglie ridere e sistemarsi negli scomodi vagoni all’aperto. Respira l’odore di legno laccato e lascia strisciare lo sguardo sull’arredamento liberty e sulle poltroncine di raso.
Appena la voce dagli altoparlanti inizia a spiegare le norme di sicurezza, la ragazza tira fuori il cazzo di Remo dai pantaloni del costume. Lui appoggia la mano al finestrino e guarda fuori: l’impero gli si staglia davanti in tutta la sua ammorbante bellezza. Dopo il ponticello, il treno attraversa Adventurland: Remo può vedere le vetture della sua montagna russa preferita piroettare sul giro della morte e i merli posati sul castello nella luce mattutina. La ragazza aumenta il ritmo e accompagna il pompino con un gioco di mano. Potrà avere al massimo sedici anni, tanto bella che Remo, rivoltandola sui sedili e iniziando a fotterla, non riesce a trattenersi dal sussurrarle a denti stretti, forse per stupire, o forse spinto da un insano romanticismo:
«Questa carrozza è dedicata alla moglie di Walt Disney».

Il giorno in cui progettò il Treno, Walt decise di dedicare la carrozza più sfarzosa a Lillian Disney. Lillian: fu lei a inventare il nome Mickey Mouse, arginando la pessima predisposizione del marito a usare nomi tremendi da burini del sud (per Topolino lui aveva scelto il nome Mortimer Mouse). Remo prova un’affezione particolare per la figura di Lillian: per la sua gentilezza, il suo essere compagna e consigliera. Solo dopo ripensa alla faccia tosta di lei, al secondo matrimonio dopo la morte di Walt, a tutti i soldi che un’inchiostratrice era riuscita a ottenere dall’impero del marito.

Remo lascia i fianchi della ragazza poco prima che il treno raggiunga Mickey’s Toontown. Deve andare a lavorare. Si sistema il testone della maschera, spropositatamente grande, e con la voce che rimbomba le chiede:
«Quanto ti fermi con la famiglia?»
«Solo oggi».
«Ti è piaciuto il parco?»
«Mi piaci tu. Come ti chiami?»
Pincopanco solleva la cerniera dei pantaloni con una mano, con l’altra apre la porta della carrozza in lento movimento.
«Mortimer, e tu?»
La ragazza sta per rispondere, ma Pincopanco è già saltato giù. Il treno prosegue.
Il parco è un grosso sorriso che gli riempie l’animo di un radioso amore per la menzogna.

2.

Loris si è svegliato tardi, ma non se ne preoccupa. Dopo tanti anni ha imparato che il ritmo circadiano dei dipendenti del Posto più Felice della Terra si assesta sugli orari di lavoro, e anche se questa mattina si sente in dovere di raccogliere di fretta i pezzi del suo costume, sa di non essere mai davvero in ritardo. Accanto a lui, il letto di Remo è vuoto e perfettamente rifatto, forse perché dopo immagina di portarci la canadese adescata ieri. Questo mese sono quindici a dieci per Remo. Deve recuperare.
Si infila il costume tutto intero, davanti allo specchio, ed esce con il testone sottobraccio mentre Disneyland inizia appena a stendere il proprio manto incantato sulla giornata estiva. Guarda il posto in cui vive, nel retro dell’All Star Movies Resort, con lo stesso stupore di quasi dieci anni prima.
Nonostante il caldo decide di accelerare il passo. Sente la consueta fitta al petto aumentare esponenzialmente mano a mano che si avvicina a Fantasyland, regno gerarchico e perfettamente strutturato su un magico equilibrio di padroni e servi, direttori dello spettacolo e facchini, elettricisti, macchinisti, cuochi, ballerini, addetti ai biglietti, hostess, maschere maggiori e minori, paninari, gelatai e coordinatori che quella mattina sembrano cercare con lo sguardo proprio lui. Arrivato davanti alla porticina seminascosta si guarda intorno, poi prende le scale che conducono all’intrico di tunnel sotterranei per i dipendenti: un calco perfetto, e segreto, delle vie in superficie.
È solo nel momento in cui si trova lì, con la luce del neon che calma la retina e i suoni dell’esterno filtrati e lontani, che può sentire il cellulare vibrare.

«Cristina!»
«Indovina dove sono!»
Loris ha un leggero cedimento delle gambe.
Stacca il telefono dal viso per non far sentire il respiro che affanna.
«Sono al parco. Ho bisogno di vederti. Quanti anni sono passati?»

3.

La giostra di Dumbo – un’attrazione per bambini che strillano di terrore mentre planano lenti nell’aria estiva, in orbita ellittica, su piccoli elefantini sospesi, dove non va quasi più nessuno – è stata la postazione lavorativa di Pincopanco e Pancopinco negli ultimi otto anni.
Pincopanco si massaggia il cazzo dolcemente, seduto sulla sedia di plastica, accanto alla regina di cuori che, già in piedi, mastodontica nel suo costume, lo protegge dal sole. Guarda l’orologio e alza la testa appena in tempo per vedere l’amico arrivare. È in ritardo. Non succede mai. «Scusate» dice Pancopinco con la voce ovattata dalla maschera, mentre una bambina gli si attacca alla gamba.
Dopo pochi secondi sono già al lavoro, uno a destra e uno a sinistra della regina di cuori, ad agitare i guantoni e improvvisare balletti. La regina di cuori gioca e scherza coi bambini. Non può parlare, ovviamente, come non possono loro. Il range di emozioni concesse è ristretto. Allegria, per lo più. Tristezza, e un pianto simulato, nel caso i bambini si dimostrino spaventati o timidi (il metodo standard insegnato alle prove rimane sempre quello di stringere le mani a pugno e sistemarle appena sotto gli occhi, roteando i polsi avanti e indietro).
Alla fine del turno, come tutti i giorni, Pincopanco e Pancopinco si insinuano in un corridoio transennato, dietro alla giostra di Peter Pan, e si cambiano in un magazzino, in mezzo a scatoloni e arti di plastica.

«Ieri ho incontrato Thompson» fa Pincopanco «Dice che stiamo lavorando bene, che noi italiani siamo nati per fare quel che facciamo, e che ci sono un Paperino e un Pippo che si liberano. Tra poco, forse…»
Loris sistema le cose nella borsa. Si è tolto tutto il costume, ma non la testa. Un Pancopinco a metà.
«Ce lo dicono ogni anno che si libera un Pippo, ma Ramon non molla. Avrà quarant’anni. Non molla. E siamo entrambi troppo alti per fare Paperino».
Pincopanco attende qualche secondo. Per dire ciò che vuole dire, per dirlo bene, si toglie la maschera.
«Walt ha iniziato a disegnare quando non aveva niente, nella sua fattoria del Missouri. Lo sapevi? Non aveva niente. Usava i cavalli del vicino come modelli per i disegni» dice Remo.
«E che cazzo significa?»
«Significa coraggio, Loris. Il coraggio di diventare ciò che si è» poi prende un bel respiro, e sussurra piano, melodioso: «I sogni son desideeeri».
Loris tace. Il Testone punta verso il pavimento.
«Lo’, qualcosa non va?»
Remo lo chiede nel modo più neutro possibile, come se ormai non vivesse solo delle proprie percezioni, e della simbiosi gemellare di chi cresce con qualcuno per tanto tempo. Un tempo infinito.
«No» risponde Loris. Tiene occupate le mani, mentre lo dice. E si guarda i piedi. «Niente».
Remo risponde con un sorriso esagerato. Sente la pelle tendersi fino ai lati degli occhi.
«Ok». Poi, lentamente, si rimette il costume.
«Che fai?»
«Ma come? È giovedì. Turno finito. Voglio scopare. La caccia. Andiamo?»
Fa pochi passi verso l’uscita, ma non sente quelli dell’amico. Quando Loris lo chiama, non si volta nemmeno. Però si ferma e ascolta la voce dell’altro domandare, esitante:
«Te la ricordi Cristina?»

4.

Loris cerca un accendino, nella semioscurità, sulla scrivania di Santino. Con la punta delle dita sfiora centinaia di oggetti, pezzi di merchandising rotto che Santino ripara e poi spedisce in Italia ai nipotini.
Trovato l’accendino, Loris si avvicina al letto di Santino, gli accende una sigaretta, e lo osserva di nascosto. A settantasette anni, è l’italiano più anziano del parco. Addetto ai guasti elettrici e agli impianti idrici. È stato il primo ad accogliere lui e Remo quando ancora erano due sedicenti attori pronti ad accettare un lavoro a Disney World solo per pochi mesi, in attesa del loro turno a Hollywood. È stato anche il primo a insegnargli che, a differenza di ciò che sembra, Disney World è un posto perfetto per scopare.
Santino dà un tiro alla sigaretta, lunghissimo. Espira il fumo in direzione di Loris. Di proposito.
«Non capisco qual è il punto. La ragazza è tornata. Se ne starà per qualche giorno, e poi se ne andrà via».
«Il punto è che io non ci posso più restare, qui. Lei è la chiave, Santino. È tornata a prendermi».
Loris si siede al lato del letto, poi si rialza. Santino respira profondo e piano, come il vecchio saggio che è.
«Remo cosa ne pensa?»
Loris ignora la domanda. Guarda le spire accumulate sul soffitto. Socchiude gli occhi.
«Non vedo il mare da anni… Ogni volta che torno per le ferie sto al paese, con la mamma che mi parla del suo figlio adottivo del cazzo. Ha riempito la casa con le foto di quel negro, nelle cornici d’argento. Mangio a casa tre volte al giorno e sento parlare delle lettere che gli scrive il negro. Poi esco, scendo al bar o in città, e sai chi incontro?»
«Stupiscimi».
«Remo, Cristo! Torniamo insieme, ogni natale, ogni pasqua. Va agli stessi bar dove vado io, ha la stessa compagnia. Passo un anno intero a lavorare con quel figlio di puttana sognando di tornare a casa, e quando sono a casa sogno di tornare qui».
Santino allunga il braccio; prende la mano di Loris nella sua: una mano callosa che ricorda come si possa vivere a Disney World per sempre, senza morire.
«Sei rimasto uguale a come ti ho conosciuto» gli dice.
«Sì, anche tu».
«Ma per te non è un bene. Tu non hai capito il potere di luoghi come questo. Tu sei miracolato. E pure l’amico tuo, e tutti qui dentro» stringe la presa. Fa quasi male.
«Costruite i sogni per i ragazzini di tutto il mondo, e poi soffrite come le bestie appena cala il sole. Ne ho visti migliaia, a piangere negli spogliatoi. Potrei dirti ogni posto dove qualche coglione succhiacazzi si è impiccato, e sai perché? Perché erano stupidi. Al lavoro sognavano casa, a casa sognavano il lavoro» gli lascia la mano e prende dal letto un cappellino con il muso di Pippo e il paraorecchie. Mentre se lo mette, con la voce roca del fumatore conclude:
«Ma qui tu puoi stare a Disney World, e la notte sognare di essere a Disney World, e quando sei via puoi sognare di tornare a Disney World. Capisci? Capisci che cosa voleva Walt? Fottitene del mare. Il mare puzza di merda, qui invece puzza di tacchino al forno. Se capisci questo, capirai che sto solo cercando di tenerti il collo lontano dal cappio. Fine della storia».

5.

La luce che si irradia dal fondo della piscina risale verso l’alto e si spande nella notte. Nei paraggi, le ombre lunghe delle sdraio, degli ombrelloni chiusi, di ogni singolo filo d’erba, si allungano quasi a ricordare come a Disney World, per definizione, non possa mai essere buio per davvero, così come non è possibile che gli altoparlanti smettano di far suonare la musica. Può essere bassa, possiamo non sentirla, ma lei c’è. Il piacere è un algoritmo, l’ideale è sempre e solo matematico.
La probabilità che Remo possa iniziare a stufarsi di tutto questo è remota e invisibile; un lontano baluginare nel fondo dell’anima. Come uno qualsiasi degli antagonisti bidimensionali dei suoi cartoni animati preferiti, Remo ha smesso di pensare molto tempo fa, e lo sa bene, così come sa che l’unico, vero modo per ringraziare di essere nel Posto più Felice della Terra sia succhiarne ogni singolo pezzo, ogni singola goccia di sapienza.
Il fatto che il sesso sia una parte di questa riappropriazione non ha granché significato, si dice mentre osserva questa tedesca sovrappeso sguazzare a mollo nella piscina vuota dell’Hall Star Movies Resort e si prepara a godere dell’ultima fase della caccia. La caccia, il gioco; il primo vero ricordo che ha del rapporto col suo gemello, con il suo migliore amico.
La cicciona inizia ad accarezzargli il pisello con due mani, in ammollo nell’acqua. Intorno a loro il silenzio sembra totale; ma Remo lo sa che non è così.

«Quanti anni hai?» chiede Pincopanco.
«Quintici» sghignazza la cicciona, col suo pessimo inglese dall’accento tedesco, «e tu?»
«Ventinove. Ma vivo come se fosse l’ultimo giorno ogni giorno».

La tedesca sghignazza ancora, poi prende fiato e s’immerge. Remo la guarda deformata mentre, in apnea, ingoia il suo cazzo fino alla base e fa lavorare la lingua.
Dieci minuti dopo, la testa del costume è appoggiata vicino all’acqua. Si riflette nella piscina, calma e muta. I due si sono accomodati sulle sdraio, prendono la luna. La tedesca ha il trucco sbavato sulle guance, fin sotto al mento bombato.

«Ti trucchi molto bene» le dice Remo.
«Eh?»
«Ti trucchi molto bene».
«Ah, crazie».
«Tu sei mai stata innamorata, tedeschina?»
«Io? Be’, un ragazzo tella mia classe…»
«Pensi che sia meglio l’amore, l’amicizia, o la felicità?» la interrompe.
«Che cosa stai ticento? È offio che la felicità fiene prima ti tutto».
Remo guarda il cielo. Annuisce.
«C’è questo mio amico… Credo sia innamorato, da anni. Ma questo amore non lo rende felice, capisci? Io credo… che in qualche modo si possa imparare ad accettare il dolore, a truccarlo, come fai tu con la tua faccia. A rendere l’illusione, come i maghi».
La tedesca tace.
«Quelli come me, sai, le sanno certe cose. Sanno che la felicità si costruisce, si studia, si deve prendere. Mentre altri si fanno guidare dagli istinti. Io anche ero così, prima di venire qua. Ma tutto questo mi ha insegnato che la felicità è uno schema che può diventare nostro. Anche a patto di fare del male. No, tedeschina?»
La tedesca non sa cosa dire. Si è voltata dall’altra parte, mostrando un pezzo di sedere grasso.
«No, tedeschina?»

Quando Remo le si scaglia addosso, lei squittisce e si dimena per qualche secondo. Si mette a urlare solo quando lui la penetra da dietro, con violenza, finché le stringe sulla faccia l’asciugamano bagnato. Nell’aria aleggia un odore sintetico di lavanda, molto piacevole.

6.

«Cazzo, ma avete una camera doppia! È una fortuna!»
Due giorni dopo, una Ariel e una Biancaneve stanno toccando tutti gli oggetti possibili, e si muovono piroettando nello spazio della camera come fosse una suite.
«Noi siamo in una camerata da quattro» dice Biancaneve avvicinandosi a Loris e abbracciandolo.
«È perché non siete qui da molto» dice Remo, stappando una bottiglia di birra americana e porgendola ad Ariel.
«Da quanto siete i Gemelli di Alice?» chiede Biancaneve, dimostrando di avere introiettato perfettamente la regola che ordina ai dipendenti di non dirsi “interpreti di” ma di “essere” il personaggio.
«Dieci anni» risponde Remo, sorridendo. Le ragazze si congratulano.

Loris guarda il cellulare sperando in un messaggio di Cristina. Niente. Si starà divertendo nel parco. È giusto così.
Le ragazze lasciano la camera dopo un paio d’ore e qualche botta. Ariel viene denominata Ariel Fetish; Biancaneve, invece, si è dimostrata timida, guardava e si toccava mentre Remo e Loris si facevano Ariel davanti e dietro.
Remo è venuto, Loris no. Si aggira irrequieto per la stanza col cazzo all’aria e il telefono in mano. Remo è steso sul suo letto, a non fare niente. Lo segue con lo sguardo.

«Ti ha scritto?»
«No, sto aspettando».
«Scrivile».
«No, mi scriverà lei, non voglio… esagerare, capisci? Questa potrebbe essere la volta buona».
«Per cosa?»
«Per andare, Remo. Sai, oggi tornavo dal lavoro. Avevo il costume. Prima di infilarmi nel tunnel ho incontrato Thompson. Pensava che fossi te. Mi ha detto che il Pippo non si libera più, ma che è molto contento, che stiamo facendo un buon lavoro. Italiani attori nati, ha detto».
Remo schiocca la lingua. Non stacca gli occhi dal soffitto.
«Certo che stiamo facendo un buon lavoro» poi lo guarda, dritto negli occhi: «Siamo uno squadrone, io e te».
Loris annuisce, appoggia il cellulare sul tavolino accanto alla TV e a una scatola di preservativi vuota.
«Hai visto che bel tramonto, oggi?»
Remo ha chiuso gli occhi. Sorride.
«Sì. Pazzesco. Ora vai a farti la doccia. Puzzi di marcio».

7.

La mattina del giorno successivo, un caldo africano ha calato il colpo di grazia sul Posto più Felice della Terra. I dipendenti sono preoccupati. Come in tutti i giorni di temperature estreme scatta il regolamento d’allarme: le maschere devono alternarsi in turni di venti minuti per non finire come Joey Robinson, che nel 1972, in un turno sotto al sole, si afflosciò nel suo costume da Paperino e non riemerse più. Ma stamattina, ancor meno delle altre, Pincopanco non se ne preoccupa, e si dirige ad ampie falcate verso l’entrata del tunnel. Venti minuti sono più che sufficienti.
È un po’ agitato. L’interno del costume è una vasca di sudore. Si domanda se abbia fatto qualche errore ma no, si dice, tutto ok. Ripensa a quella puttana di Cristina, a come sia stato semplice, la notte prima, una volta raccolto il telefono dell’amico dal comodino, convincerla a darsi un appuntamento. Loris dormiva profondamente. Chissà cosa sognava.
“Disney World non sarà mai completata”, ha detto una volta Walt Disney.
«Ci vediamo domani mattina alle otto, dove ci siamo visti l’ultima volta» ha scritto lui. Perché se lo ricorda, dove il suo amico e la puttana si erano visti, più di tre anni fa. Se lo ricorda perché lui ascolta, e vede, e provvede.
Ed è proprio mentre cerca di ricordarsi qualche altra frase di Walt, e mentre cerca di domandarsi se sia diventato una persona migliore, in tutti questi anni, che la vede. È appoggiata vicino al corrimano che porta a uno dei tunnel sotterranei, e osserva con l’ingenuità di una principessa il cielo candido e cristallino sopra il Posto più Felice della Terra, lo stesso cielo dove, tanti anni prima, Walt Disney volò e da dove guardò in basso immaginando tutto questo, e anche di più, tenendo la mano di Lilly, la cara Lilly; la stessa Lilly che si risposò, ricca e felice, qualche anno dopo la morte del marito, forse sperando di convincersi che la felicità avesse diverse sfumature, che fosse sempre in mutazione, e che la felicità che Walt aveva disegnato per noi, densa e patinata, non fosse l’unica possibile. La stessa Lilly che rinsavì, qualche anno dopo, scrivendo nel testamento di farsi seppellire, per la gioia del nuovo compagno John L. Truyens, nella stessa tomba di Walt.
Mano a mano che si avvicina a lei, le cose diventano più semplici. È Pincopanco, non Remo, ad agire; è lui a prenderle la mano, senza parlare, e a trascinarla giù, per le scale del tunnel, dove la luce del sole diventa luce al neon e poi buio; ed è sempre lui che la strattona e che le copre la bocca e gli occhi con la sua mano gigantesca nel momento in cui la ragazza inizia ad accorgersi che qualcosa non va, che qualcosa non torna. Che il pupazzo non parla.

8.

Loris è nella stanza di Santino. È stanco, sudato. Ha aiutato nelle ricerche, tutto il giorno.

«La ragazza non si trova, ma non mi hanno detto molto» dice Santino, che ha sempre molte informazioni dai direttori. «Tutti credono che sia solo scappata, che abbia piantato il ragazzo e che abbia preso un autobus, o qualcosa del genere».
«Mh» mugugna Loris, sovrappensiero. Stringe i pugni e fissa il tramonto dalla finestra, segue la lentissima parabola del sole.
«E se fosse stato Remo?»
Loris si volta verso il vecchio. Cerca di capire che cosa possa sapere.
«Certo che è stato lui».
Santino ride, si mette il suo cappello di Pippo e alza le mani in segno di resa. Loris si domanda se abbia mai visto i nipotini di cui parla ogni tanto. Se abbiano mai trovato i soldi per venire qui, loro, a trovare il nonno che li riempie di regali. A loro piacerebbe il parco. Gli piacerebbe certo più di qualunque provincia, o città, o pianeta nel quale vivono.
«Sai, quando morirò,» dice il vecchio, tossendo «perché succederà, vorrei che veniste a vivere in questo appartamento. La vista non è male».
Una volta trovato il coraggio di abbassare lo sguardo, Loris quasi si commuove.
Allenta i pugni e si lascia riempire dal luccicare delle strutture del parco, dall’acciaio colorato, beandosi di tutto ciò che l’ingegno può fare per i sentimenti umani.
Resta in piedi così, al crepuscolo di un altro giorno nel Posto più Felice della Terra.

*****

Immagine di copertina: Walt Disney World Resort – Entrance Sign., di danimaroo.