Io, da bambino, ero un jordaniano assoluto – ero anche un fottuto idealista!
In quegli anni Air era imbattibile. Era già leggenda, ogni suo punto aggiungeva più gloria alla gloria già conquistata. Io pensavo che non ci sarebbe stato mai nessuno come lui. Sognavo.
Poi un giorno (avevo quattordici anni) ho visto un ragazzo appena giunto nella NBA dalla high school, cresciuto in Italia – si legga: fondamentali più allenati rispetto agli americani – che a diciotto anni osava sfidare il più forte di sempre – O tempora! O dream-shake! –
Se Jordan rappresentava per me la determinazione perfetta, quel ragazzo mi mise in difficoltà, mi fece per alcuni momenti, dubitare di Air. Lo seguiva come un ombra e Jordan gliele dava senza pietà (come nel ’92 a Barcelona all’amico Toni Kucoc!). Il ragazzo veniva battuto, ma non mollava. Era la promessa (oggi The King ha vinto: il motivo attuale, moderno di questo post). Quel giorno non pensai che Jordan – promessa o no – potesse mai essere battuto, ma neppure che quel ragazzino gli aveva lanciato una sfida – d’altronde se si vuole diventare il più forte bisogna confrontarsi con chi lo è già. Quindi, non fu solo un azzardo – un’avventura.
Ora che seguo Kobe Bryant, che ne ho apprezzato meglio le qualità, mi sono accorto di un particolare, che riguarda l’avversario, l’altro. Chi è l’avversario di Jordan? mi sono chiesto. Joe Dumars – il rivale par exellence. Se la sono giocata per anni ai punti, agli insulti. Poi mi sono chiesto la stessa cosa per Kobe. E non ne ricordavo qualcuno di preciso – forse Divac, ho ipotizzato, forse Pierce, si e no.
Allora mi sono fatto un excursus – da fanatismo purissimo – e ogni volta notavo che l’unica differenza, quella più importante, ma forse meno evidente, era proprio l’avversario. Ecco. Infine c’è stata l’intuizione. Kobe è l’avversario di Kobe…

All’improvviso ho preso l’interpretazione traversa – quanto mi piace! – e me ne sono andato per la tangente del simbolismo e mi sono detto: è un gioco, uno sport – e molti oggi storcono il naso, perché i milioni di dollari per tirare una palla dentro a una rete, perché i diritti televisivi contro i diritti umani (magari) – ma in fondo il gioco è conoscenza e sfogo, e quando va ben oltre la soglia del piacere, entra in quella più alta, lo stile sublime – fade away – incipit tragoedia.[1]


[1] Pare che lo spirito tragico derivi proprio da un gioco finito male.