E se uno cominciasse dai dettagli?

[Borges, da qualche parte, suggerisce che il racconto (la forma breve) è essenzialmente la situazione, la trama; ed invece il romanzo (la forma estesa) i personaggi, i caratteri, dramatis personae. Chekov inoltre ci dice: mai mettere un cappio là dentro se poi qualcuno non ci si impicca. Tenere a mente.]

[Primavera 2006. Alla prima de Il caimano al cinema Modernissimo di Napoli, la persona di Nanni Moretti fa dono della sua abbottonata presenza al pubblico pagante. Dopo il film il dibattito (“No! Il dibattito no!” cit.). Una volta sul palco, Nanni, sfoggiando un calzino in filo di scozia bordeaux, apre le danze: “Ma come, Paolo, ti presenti alla prima del mio film in tuta?” Superfluo dire che a un anno e mezzo da Le conseguenze dell’amore, Paolo Sorrentino è gia cineasta di culto.]

Se questo è il luogo. Dopo tre film ad alta densità di trama Sorrentino viene (o torna: alcuni elementi di This must be the place riportano indietro a L’uomo in più) ad una forma decisamente più ibrida e soprattuto ad un ritmo più lento. Se il grottesco è strategia retorica fondante in ognuno dei suoi film, qui si produce in modo inedito, come un dato assoluto. Fino all’annuncio dell’evento motore (la morte del padre di Cheyenne) tale grottesco, infatti, semplicemente sta, galleggia nell’aria come un’evidenza (campeggia in cucina nella scritta CUISINE) – tra non-sense e tautologia. Ogni cosa (il ciuffo laccato di Cheyenne come la piscina vuota adibita a campo di squash) è caricatura di sè stessa.

Tale vuoto del significato (un vuoto voluto, una scelta retorica) è costantemente riempito dal significante: la forma (l’immagine, il suono) è più che fluida, è onnipotente. Se già altrove le nozze del suono e dell’immagine si consumavano nelle opere di Sorrentino con estrema goduria del pubblico pagante, in This must be the place queste raggiungono vette sconosciute – per larga parte del film, sono esse stesse il significato.

Quando infine qualcosa si muove, quando il passato comincia la lunga risalita verso il presente e si manifesta come motore o motivo (l’origine: la famiglia ebrea, il conflitto irrisolto con il padre. E non solo: l’inutilità della carriera artistica di Cheyenne, posa o menzogna; e la colpa trascinata per il suicidio di due suoi fans adolescenti) il cambio di marcia avviene e non avviene. Così, il road movie che ne deriva è anch’esso impacciato, caricaturale. Invece di aprirsi ad un presto ritmico rimane claudicante come le gambe sfondate dall’eroina di Cheyenne. Ed il tema schiacciante (morale, come ha scritto Alonso Quijano) dell’olocausto (e della vendetta) fa il suo ingresso in sordina (mai nessuna opera d’arte o di scienza, nè tantomeno negazionista, ha trattatola Shoah con tanta strafottente distrazione ed incuria – sia detto questo anche in onore degli sceneggiatori). L’unico cambio che avviene – il finale –, invece, è un errore. E torniamo a Borges.

È chiaro che il cinema abbia le sue proprie esigenze narratologiche; questo però non ci impedisce l’analogia. Questo film, che è un tentativo di capolavoro, ha nella sceneggiatura il suo punto debole. È pieno di cavi sciolti (di cappi orfani di colli e d’impiccati: la ragazzina dark e la madre di quella; la moglie di Cheyenne, la relazione tra i due; tutto un’apparato ironico di situazioni e scambi verbali che sta là più per fare tempo che per creare un mondo a sè stante); non è detto che tutti i cavi debbano venire al pettine, ma non è neppure detto che li si debba lasciar galleggiare come insetti nella piscina (vuota).

Ancora, il cambio che si produce in Cheyenne nelle ultime scene, dalla sigaretta al taglio di capelli alla Pat Riley 1987 (“Next year, I promise, we’ll do it again”), a differenza di tutto il resto, avviene con una simbologia ed un ritmo precisi, puntuali. Di colpo l’intera struttura grottesca, ambigua, crolla, si nega, si mutila, per lasciare spazio ad un finale di una banalità disarmante. (Un mio grande amico suggerisce al riguardo che, in un mondo ideale, il film avrebbe dovuto chiudersi sul consumo della vendetta; che il ritorno di Cheyenne casual in Irlanda potrebbe essere un modo per Sorrentino di dire “non ho fatto un film sul’olocausto ma sul cambiamento”. Aperta discussione al riguardo.)

In loco. Quando Alonso Quijano dice che il “romanzo” di formazione ha contro di sè un’intera tradizione letteraria, non vuol dire che non si possano più fare romanzi di formazione. Vuol dire piuttosto che un progetto artistico tanto ambizioso, in cui il linguaggio formale proprio del cinema si affina e supera sè stesso, non può disconoscere la tradizione – l’insieme dei processi che, soprattutto in ambito letterario, hanno portato allo stravolgimento ed inversione del genere a cui This must be the place si riferisce. O se lo disconosce si espone, volente o meno, ad un tribunale impietoso. L’arte, a questi livelli, non ammette ignoranza.