Vogliamo fare due conti con la tradizione. E vogliamo fare fede alla nostra esperienza soltanto.

Siamo prima di tutto nicciani – questo vuol dire qualcosa. Uno non può temere i passi – uno a uno, sudati o contati – i traguardi della propria esperienza. Anche quando questi insinuano strane cose all’orecchio – siamo mitomani, facciamocene pure una ragione.

Io mi sono scoperto leggendo Una stagione all’inferno. Di colpo, tutta una genealogia s’è fatta presente, s’è imposta. C’è stato un momento in cui regalavo ai miei amici Van Gogh, il suicidato della società di Artaud, perchè il suo tema era quella genealogia. Ne fai parte anche tu? Sei con me o contro di me? – era la domanda implicita, fin quando io stesso non ho scoperto di essere contro di me. Contro di quella genealogia, voglio dire.
Quella genealogia percorre la linea continua dei poeti alienati. I poeti alienati sono gli ultimi baluardi dell’umanismo sulla terra.

Siamo nicciani per un unico motivo. Il pensiero – quell’insieme di punture nervose e collettive – è un’arma puntata alle tempie di chi lo pensa. Fendere l’aria non basta, bisogna colpire i tessuti.

Uno strano senso di compiutezza viene dal seppellire l’umanismo, come risalire da una lunga febbre. Uno riprende le forze, si mette in piedi. L’occhio vede, e non deve giustificare a qualcuno cosa vede. Uno si alza e sente la macchina da sopravvivenza funzionare come deve.
E allora proprio i prodotti più sofisticati del pensiero diventano i più putrefatti – “il posto puzza” scriveva lo stesso Artaud. In questo senso, il più putrefatto di tutti è il soggetto, quel luogo privilegiato del pensiero che a lungo ha evitato di puntarsi la lama sui lobi. Ha giocato a scansarsi, noi lo abbiamo colpito bene in faccia. Premendo da sopra coi pollici veniva fuori qualcosa dal naso, grumi di materia vischiosa. “Quello è il cervello, non altro – nemmeno fritto ti piace?”
Non che ci interessasse sostituire una finzione con un’altra più adatta ai tempi. Dovevamo però togliergli il podio da sotto, al soggetto, umiliarlo. Soprattutto sottrargli quel tono aulico di cui tanto si sentiva in diritto, manco fosse il ricettacolo indivisibile di qualcosa.

Togliendo la lirica di mezzo – l’idillio senza fine del soggetto – abbiamo tolto l’uomo di mezzo. Dal podio, voglio dire, da quel quel luogo in cui si sentiva in diritto di dire io. Io un cazzo. La parola un cazzo. Così abbiamo rimesso l’uomo al suo posto, a giocare tra gli altri pezzi – animali, vegetali e minerali.

Ecco, allora, quella linea genealogica. La genealogia dell’io – così sopravvivente, ancora oggi – noi non ci sentiamo diversi da quella, noi ci sentiamo migliori. Per questo, oggi, dobbiamo reinventarci tutto un sistema di segni e una voce (non un grado zero, un grado “c’è sempre un più fondo”) per potere anche solo dire qualcosa. Andare indietro nel tempo fin dove io svolgeva mere funzioni pronominali – il discorso, non chi lo dice – e in avanti di nuovo.
E soprattutto, compiuto il fatto, il seppellimento – fingere di non sapere, dissimulare. Fare finta di niente, fino al momento opportuno.

Così adesso ci troviamo quasi senza voce, quasi senza cose da dire perchè queste già al venire a galla sfiorano il limite dell’intellegibile – vogliono tornare sotto. Solo la musica ci viene incontro. La musica – quell’insieme di segni ad alto impatto fisiologico senza-io – ci dice continuamente che questo è possibile.