Il mio primo pensiero, subito dopo aver finito Bull Mountain, è stato che Brian Panowich ci ha regalato un ottimo esordio, addirittura splendido se il romanzo si fosse concluso a pagina 278. Il fatto è che le ultime sedici pagine, di primo acchito, mi sono sembrate rassicuranti, con i villains puniti per il loro misfatti e un’atmosfera da “e vissero felici e contenti” che, per quanto affrontata con asprezza, eleganza e sobrietà, ho trovato un po’ eterea, stonata rispetto  alla feroce e viscerale faida narrata fino ad allora. Ma poi mi è tornato in mente quel capolavoro, altrettanto feroce e viscerale, anche se diversissimo, che è Mezzogiorno di fuoco di Fred Zinnemann.

In Mezzogiorno di fuoco  uno sceriffo, Willy Kane, deve affrontare un gruppo di fuorilegge e  per questo viene abbandonato da tutti. Kane sa che andrà incontro a morte certa, ma quel che è giusto è giusto, e in nome di questa giustizia rifiuta ogni ancora di salvezza, anche la proposta della moglie quacchera Amy, contraria per motivi religiosi a ogni tipo di violenza, che lo implora di lasciare la città con lei.
Kane si ritrova solo, dal punto di vista numerico e soprattutto morale; ma a questo punto arriva Amy, che uccide uno dei banditi e dà il via alla sparatoria conclusiva del film; e il suo uomo, vinto il duello, viene circondato dalla folla festante di coloro che prima lo avevano rinnegato. Allora, disgustato, butta la sua stella di sceriffo per terra e abbandona la città.

Come Amy, Kate, la moglie del protagonista del libro (anch’egli sceriffo) Clayton Burroughs, per tutta la vicenda cerca di ficcare in testa al marito che c’è un modo altro di fare le cose, che non è obbligato a sottostare alla legge familiare e che il mondo da lui conosciuto non è l’unico esistente. Il problema è che Clayton questo mondo ce l’ha nell’anima, ed è un mondo nel quale ogni dolore esige la sua vendetta e che si nutre di conflitti che devono essere lavati con il sangue; e come Amy, Kate impara che non può allontanare da sé quello che non conosce, che il rifiuto netto non porta da nessuna parte, che non si può eludere la violenza, che la brutalità fa parte dell’ordine naturale e che non ci si può emancipare da uno stato di cose se prima non vi si è coinvolti.

Entrambi avevano guardato nel profondo di loro stessi, trovando qualcosa di disgustoso che non poteva essere ricacciato dentro a forza.

Nella guerra fratricida che coinvolge i fratelli Burroughs, Kate non mette mai in discussione nulla, ma prima rifiuta e poi comprende quella che è una tara familiare estirpabile solo dopo esservi entrata dentro in prima persona, a dispetto dei suoi principi e delle sue credenze; e, come in Mezzogiorno di fuoco, la situazione si risolve dopo l’intervento della donna: solo allora, dopo che lei si è sporcata, il marito Clayton si predispone ad affrontare i cambiamenti che lei gli propone.
In questa prospettiva, le ultime sedici pagine che mi avevano lasciata perplessa diventano una perfetta chiusura del cerchio; ed è bello che al freddo e necessario omicidio che dà il via alla vicenda corrisponda infine un omicidio altrettanto necessario, ma stavolta carico di passione, e che alla degenerazione del primo omicida corrisponda la robustezza della seconda. Quelle sedici pagine sono il fragile requiem di una costruzione magnifica destinata a crollare su se stessa fin dalle prime, di rituali che diventano privi di senso e di una spietatezza che non può essere contrastata ma solo esaurirsi in se stessa, e poi autodistruggersi.
E finalmente evolvere in una nuova vita.

 

Brian Panowich
Bull Mountain (2015)
Trad. it. di Nescio Nomen
NN editore, 2017
pp. 304