L’amore è un affare misterioso e ineffabile al quale il matrimonio regala una struttura, una serie di  puntelli quotidiani che, se da un lato lo fortificano, dall’altro lo ingabbiano. Un marito di Michele Vaccari è la storia di una gabbia costruita con cura e consapevolezza, una cella d’amore condivisa, difesa fino allo stremo e poi scoppiata proprio quando i protagonisti, Ferdinando e Patrizia, decidono di fare qualcosa fuori dall’ordinario.

Patrizia pensa spesso a come le sarebbe facile trasformare quella moltitudine di innocenti vecchine, le ultime superstiti di una Marassi dadaista che ha creduto nel sogno dell’edilizia come mezzo di affermazione sociale, in un esercito votato a lei, carne da macello per una guerra selvaggia, una qualsiasi guerra selvaggia; il centro della città sarebbe spostato a pochi metri dalla rosticceria, con un notevole ritorno in termini di vendite.
Quanto tema questo potere, non sa confessarlo.

La coppia di rosticcieri ha costruito all’interno del mondo un proprio mondo inaccessibile agli altri, con regole precise, doveri insindacabili e inderogabili – la “comunità degli sposi”, potremmo dire mutuando da Maurice Blanchot il famoso concetto di “comunità degli amanti” come comunità separata dalla società e in conflitto con essa che lo studioso chiama anche “comunità della prigione” (in La comunità inconfessabile, 1983). L’amore è vissuto come resistenza e ribellione, è scandito in dialoghi artefatti e declamatori; la vita, laddove è condizionata dalla necessità di preservare una tradizione, uno status emotivo e culinario e di conseguenza culturale, è una missione  che assorbe alla coppia ogni energia, ogni pensiero, ogni movimento.
Ferdinando e Partizia combattono una guerra integralista, totale in quanto quotidiana, volutamente senza una fine pianificata e auspicata, tale che un imprevisto cambiamento di strategia inevitabilmente fa precipitare gli eventi: Ferdinando, in occasione del proprio compleanno, propone a Patrizia una gita a Milano; la donna, si sgomenta, tentenna, e solo alla fine cede.

La casa, la vita domestica, il nido, il senso di una vita e dell’amore sono rese da Vaccari attraverso descrizioni tanto minuziose da risultare opprimenti, in una lingua ricercata e a tratti aulica, che risulta a tal punto scollegata da ciò che descrive da risultare inquietante, strana (weird?), ambigua.

Nel buio, era rosso.
Il riverbero della scritta lo trasformava in una torcia umana.
Gli ultimi giri di lucchetto e finalmente sarebbe entrato nelle tenebre. […] Si avviò, ed ebbe paura. Non vedeva più la luce da almeno due anni e la strada ora gli sembrava un brulicare di spasmi mortali. Le orecchie, ancora, erano spietate e ogni fruscio era come un viaggio in quel tempo che odiava. Una bicicletta che cadeva per un rantolo di maestrale, o un bimbo che rugnava e non accettava neanche il collo della madre come placebo, ogni suono lo faceva ritornare ad allora.

La sopravvivenza, l’identità, il senso della vita, per la coppia, si giocano e si definiscono attraverso una difesa dei bastioni, combattuta con tutte le armi a disposizione, e un mondo esterno che viene avvertito come alterato (da commistioni, dal tempo e dalla Storia), uniformato, industrializzato; la cultura alimentare diventa vera e propria espressione del proprio sé e manifesto orgoglioso di un modo di concepire il vivere, un manuale estetico-etico-gustativo che non accetta compromessi e che pretende dedizione assoluta: e allora le pietanze vengono schierate come militari in rassegna e il cliente viene sfidato a riconoscere il valore di quell’esercito del palato (ma non solo) disposto con tanta sapienza e studiato ordine.

Superato il confine della moschiera in ciniglia bianca e verde, la vetrina delle pietanze è una nuotata nel sangue dell’umanità. Il passo rallenta, la lingua comanda: ogni scarpa suona sulle piastrelle esagonali, lo sguardo alla teca restituisce una panoramica sul dominio delle specie, ciò che rende umani, flora e fauna sottomessi al destino di cibo che abbiamo pensato per loro. Quella presenza di viventi, esposti secondo un crescendo cromatico a tratti entusiasmante nonostante una sequenza di intingoli abbastanza monocorde, permette a chiunque di sentirsi in continuità con il compito terrestre ereditato dai padri sovrani della catena alimentare. Quella di Ferdinando e Patrizia non è chiaramente una rosticceria trovabile ovunque, più una meta per patiti dell’antiquariato gastronomico, un’enclave nell’impero della velocità mangereccia, un luogo avulso per costituzione, in cui, senza limiti, imperversa ancora quella nostalgia atavica di cui tutti almeno una volta abbiamo provato la sottomissione.

Vaccari racconta il crollo di una coppia e del suo mondo attraverso un racconto dalla struttura lineare ma densa, in cui ogni movimento, ogni accadimento, ogni personaggio diventa simbolo senza abbandonare la realtà per una dimensione allegorica. Un marito è la storia di due integralismi – la tradizione adamantina, intesa come un modo di stare al mondo senza compromessi, contro un “fuori” minaccioso perché mutevole e indefinito, infido, e instabile – che si scontrano e che, nella detonazione, lasciano un vuoto da riempire attraverso il dolore, il compromesso e la rassegnazione.
Un marito è quel genere di romanzo che tocca le corde emotive, che ha un impatto non cerebrale ma corporale: il lettore è indotto a confrontarsi con la paura, lo sconforto, l’incertezza, la mancanza di appoggi; il ritorno all’ordine suona come fasullo, coatto, sconfitto.

«Ovunque mi giro, vedo l’inferno. La rosticceria resiste ancora e, finché ce la farò, non mollo. La notizia è che da qualche giorno ho iniziato un percorso. Devi sapere che in questi due anni mi sono fatto del male, era l’unica cosa che mi dava pace. Andavo avanti e indietro dal nulla, volevo fermarmi nel vuoto. Per fortuna, come ti ho detto, i tuoi cari sono diventati i miei, e mi hanno salvato. Non potevo più farmi inquinare le giornate e l’umore in quel modo, l’ho capito tardi ma l’ho capito. Ieri mi sono domandato cosa avresti pensato di me, a vedermi come stavo certe sere. Ho sempre temuto il tuo giudizio, ma con l’amore di chi lo aspetta per sentirsi considerato. Te lo dovevo, in nome di ciò che siamo stati. Ma oggi non sono qui per celebrare il mio rimpianto o la mia resurrezione.»

Vaccari nei suoi libri tratta di opposti – tradizione contro novità, vita contro morte, pace contro guerra, serenità contro rabbia – che conflagrano e si scontrano senza trovare una sintesi, un ordine: Un marito, dopo Il tuo nemico, è un ulteriore passo nello svisceramento del tema dell’ostilità, del conflitto, e della sua inevitabilità, forse della sua necessità.

Michele Vaccari
Un marito (2018)
Milano, Rizzoli, 2018
p. 233