Questo dialogo è parte del ciclo Conversazioni con gli Sciamaniqui il primo passo con Agnese Grieco.

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Andrea Cafarella: Chiunque abbia incontrato Sara di persona, o abbia letto il suo libro d’esordio Maestoso è l’abbandono (Hacca edizioni, 2018), concorderà nel pensare a quanto sia sensata la sua presenza in questa rubrica d’interviste. Perché Sara è prima di tutto una donna, una persona che riesce a toccarti delle corde, dentro, con la sua autenticità. Una persona spirituale, a modo suo, si vede subito. Un po’ come Maria, la protagonista del suo romanzo. Per entrambe il contatto con la magia, come quello con la psicologia, sembrano essere stati fondamentali. Sara, infatti, dopo la laurea in Lettere ha iniziato un percorso di studi in Psicologia interrotto «a pochi esami dalla seconda laurea dopo aver capito che non credeva a niente di quello che studiava e che non avrebbe mai fatto la psicoanalista, sua iniziale vocazione.», recita la striminzita biografia che mi ha mandato. Ha lavorato in alcune strutture psichiatriche, ha valutato manoscritti, ha insegnato in una scuola steineriana e ha lavorato anche con un gruppo di musicoterapia per pazienti psichiatrici che si chiama «La Stravaganza». Non poteva avere nome più appropriato. Sì, perché Sara è stravagante: scrive il suo primo libro alla soglia dei cinquant’anni, con un linguaggio che tutti definiscono poetico, lirico, e similmente ne elogiano la forma evocativa e la grande tecnica. Tutto vero, eppure io, invece, lo definirei «ascetico» più che lirico. Leggere Maestoso è l’abbandono ci da la possibilità di scoprire un altrove sognato, «il mondo sottile», quello che io chiamo mondo immateriale. Di fare un’esperienza. Somiglia più a un percorso spirituale, di meditazione, di scoperta di sé, che a un romanzo.

La prima domanda che ti pongo, Sara, è una questione rituale che pongo a tutti, ma nel tuo caso credo che sarai particolarmente felice di potervi rispondere a freddo, facendo un discorso più ponderato che prescinda dal tuo romanzo. Ed è la seguente: le tue letture, i tuoi studi, soprattutto le tue esperienze, che idea hanno generato dentro di te, negli anni, lungo il tuo percorso di vita, riguardo all’altrove, a quanto ha ispirato artisti e pensatori di ogni tempo fin dai primordi della Storia e della Preistoria? Vorrei che c’illustrassi la tua visione, personale e soggettiva, di ciò che è quest’universo invisibile e impalpabile che sta dietro la parete della realtà, oltre i confini del mondo tangibile.

Sara Gamberini: L’altrove è qui, non c’è separazione tra quello che noi chiamiamo reale e l’invisibile, ogni cosa coesiste, le entità magiche sono ovunque. Per invisibile intendo tutto ciò che è sottile, indicibile, inafferrabile, ma di cui l’uomo fa esperienza continuamente. Qualcosa colto poco prima che diventi sacro, mistico o divino. Una sorta di incanto, una piccola estasi. I bambini la chiamerebbero magia, e io con loro. Ma potremmo anche chiamarlo Bu, Ma, o inventarci un nuovo nome. La propensione all’invisibile è un atto di fede, anche se chi ne fa esperienza ne sente tutta la concretezza, come se quelle scintille si potessero davvero vedere e non solo percepire. Sono molti i limiti che si incontrano volendo parlare o scrivere di questo tipo di incanto, tutto il mio romanzo a dire il vero si misura con un limite e tenta di superarlo. Da un po’ di tempo mi piace fare un esperimento, un rito: togliere i nomi alle cose e provare a rinominarle. Nel passaggio dall’assenza di nomi al nuovo battesimo che, nel mio caso, è quasi solo poetico, scopro sempre, come si trattasse di una conferma, che tutto è semplice o non c’è. Un’altra percezione inequivocabile, anche se pertiene all’aspetto immateriale della realtà, è la possibilità che ci è data di cogliere le virtù magiche delle cose e della natura, e allora un oggetto non è più solo un oggetto, un albero non è più solo un albero e lo stesso vale per le persone. A volte crediamo che si tratti d’amore, chi non ha troppa dimestichezza con l’invisibile pensa di continuo di essere innamorato; ci hanno raccontato che è possibile accedere alle questioni sottili solo nella condizione d’innamoramento assoluto. Possiamo “perdere la ragione” se è per amore. Eppure quando ci innamoriamo tutti abbiamo accesso alle connessioni sottili, usiamo una comunicazione che somiglia alla telepatia e riconosciamo il destino e la predestinazione. Entriamo e usciamo con disinvoltura da due dimensioni che per me in realtà non sono divise e non sono nemmeno due. Credo anche che una certa diffidenza verso l’invisibile sia dovuta alla sua presenza intermittente, misteriosa. Non si rivela sempre. In sua assenza molti temono di aver preso un abbaglio perché l’insensatezza e l’imprevedibilità del mondo a volte ci sopraffanno, abbiamo un continuo bisogno di conforto e di certezze. Ma non è detto che il senso di una accadimento sia l’aspetto più importante di quell’accadimento. La certezza che un uomo o una donna siano l’uomo o la donna della nostra vita, ad esempio, in che luogo riposa prima di rivelarsi a noi? Così è per l’amore. E così è per l’invisibile. L’amore e l’invisibile sono la stessa cosa. Gli scopi, le mete, le intenzioni, i meccanismi di causa e effetto, le ragioni, sono sospesi. Si dileguano.

AC: In questi giorni mi è capitato di riprendere in mano un libro che sta alla base di tutto il ragionamento che vorrei si sviluppasse durante la compilazione di queste conversazioni. Il testo in questione si chiama Sciamani (TEA, 2009) di Graham Hancock. E ci sono diverse cose che hai detto che mi hanno ricordato dei passi importanti di questo volume. A un certo punto, per esempio, Hancock riporta dal suo taccuino un estratto dei suoi appunti nel quale scrive: «Materia e spirito. Sopra come sotto. La scienza ci insegna a credere che il mondo materiale sia la sola ed essenziale realtà. […] Quello che chiamiamo mondo materiale, la nostra «realtà consensuale», è solamente una parte del disegno, e probabilmente neanche quella più importante». Hancock ha un approccio scientifico all’idea del mondo immateriale: i suoi studi partono dalle più antiche testimonianze espressive dell’uomo, che vengono messe in relazione all’uso di sostanze psicotrope (come i funghi allucinogeni o l’ayauhasca) per trascendere e raggiungere uno stato alterato della coscienza in grado di mostrarci, effettivamente, un mondo altro e, di riflesso, noi stessi. Hancock prova a ipotizzare, in breve, che l’uso inconsapevole di sostanze e di altre tecniche di ascesi (più o meno forzate dalle condizioni), sia stato il fulcro della nascita dell’autocoscienza nel cammino evoluzionistico dell’homo sapiens sapiens.

Scrivo queste parole dopo una breve seduta di meditazione che, per me, rappresenta un esercizio di astrazione ormai essenziale lungo il percorso quotidiano dei miei giorni. Una delle pratiche che consentono di soprassedere a questo mondo, con esercizio costante, e raggiungere l’altrove nella vita di tutti i giorni. Mi sembra quasi ovvio sottolineare come anche i testi riguardanti lo zen, lo yoga e, in generale, diverse pratiche spirituali – soprattutto quelle orientali ­– puntino sempre l’attenzione sull’idea che, come dici tu stessa: non esiste un sopra e un sotto, un visibile e un’invisibile, ma dovremmo parlare di un tutt’uno indivisibile. Basti pensare al leggendario dualismo occidentale tra corpo e anima, anch’esso, secondo me, profondamente fuorviante.

Vorrei chiederti cosa ne pensi di questo genere di pratiche. Lo sciamanismo, la magia, la meditazione, l’uso di sostanze psicotrope in termini rituali o quei metodi di analisi dell’inconscio sviluppati da una certa psicoterapia. Soprattutto: quali sono le tecniche – compresa la scrittura, visto che nella tua esperienza mi sembra evidente l’uso ascetico che ne scaturisce – che tu abbracci, o che hai semplicemente sperimentato, nel tempo, per fare esercizio di trascendenza. Esattamente come il «ri-nominare le cose» di cui hai già accennato, e i tanti – sospetto – piccoli rituali che compi nella tua pratica giornaliera per accedere all’altro mondo: al mondo sottile.

SG: Nelle mie intenzioni non c’è mai il desiderio di andare oltre  questo mondo, ma di percepirlo nella sua interezza. Cerco un’intuizione il più possibile pura, non complicata, essenziale. Un po’ come il linguaggio dei bambini molto piccoli o del mio cane. Joko Beck, una maestra zen, nel suo libro Zen quotidiano scrive: Il mio cane non si chiede il significato della vita. Può darsi che si preoccupi se la colazione è in ritardo, ma non sta lì seduta (è una femmina) a domandarsi se sarà realizzata, liberata o illuminata. Cibo e carezze le bastano.

Medito da anni, a mio modo, pratico una sorta di meditazione dadaista. All’inizio e per molto tempo invece di stare sul respiro o di osservare i pensieri, come insegnano i maestri, mi capitava di contattare un luogo inusuale, misterioso, che senz’altro doveva trovarsi dentro di me, o forse fuori, ma di cui non sapevo nulla, un luogo di assoluta calma, a me sconosciuto. Mi ha stupito molto scoprire di custodire un paesaggio tanto gentile. Penso che il mio romanzo sia nato da questa sorpresa. Un’altra cosa che mi accade quando medito è di avere delle piccole visioni. Le prendo sempre come una conferma che quello che si nasconde tra le pieghe del reale è lì, vicino, ed è forse l’unico aspetto del reale davvero determinante, insieme all’amore. Ricevo sempre grande conforto dalle mie meditazioni animiste e dadaiste. Un monito a restare nelle cose minuscole, delicate, cristalline. Ma senza usare troppa enfasi, senza dover stringere per forza un patto di fede con il sacro. Un’esortazione ad agire secondo quello che c’è, nulla di assoluto, quindi, se mai qualcosa di continuamente mutevole. Poi ci sono alcuni riti che amo fare. Sono riti insensati i miei, quando osservo il cielo o accendo una candela non mi riprometto di avvicinare o di allontanare qualcosa. Mi appassionano alcuni rituali perché richiedono raccoglimento, credo che il mio vero rito sia questo, stare raccolta. Uso molto il fuoco, ma per fare cosa, chissà. E poi c’è il rito dei fili di lana, quelli che appendo sugli alberi nel bosco. Cosa chiedo in quel momento? Non chiedo niente. Ma c’è silenzio, si può stare raccolti, si può sentirsi al riparo. È un po’ come fare ritorno dopo una lunga o breve assenza.

AC: In un prezioso saggio dal carattere rivelatorio, dal titolo Le porte regali (Marsilio, 2018), Pavel Florenskij, con una lucidità illuminata, simile a quella di certi pensatori orientali dell’antichità (come indica lo stesso Elémire Zolla nella sua appassionata prefazione all’opera) ricerca nel gesto dei maestri dell’icona russi (Andrej Rublëv su tutti) una possibilità, virtuosa, di accesso all’invisibile. Un salto di fede che consenta di guardare la Verità del sovrasensibile nella sua fulgida interezza. Essi furono, ci dice: «visibili testimoni del mondo invisibile» e per ciò considerati santi. Tutto questo può avvenire, secondo Florenskij, solo attraverso un’attenzione spietata e imprescindibile verso la disciplina assoluta, per arrivare alla composizione di un’opera che sia capace di scuotere e svelare i misteri della fede nell’illuminazione.

«Ogni icona è una rivelazione», ci dice, però «Se il pittore non ha saputo vivere dentro di sé ciò che ha raffigurato […] non potrà che riprodurre l’originale in modo confuso e impreciso», e altrove aggiunge: «l’artista autentico esige da sé solo l’oggettivamente bello, cioè la configurazione secondo l’arte della verità delle cose e in genere non si cura della questione meschina e vanitosa, se lui è il primo o il centesimo a parlare della verità. Basta che la verità ci sia, e il valore dell’opera è garantito».

Ci sono diversi aspetti di questo ragionamento che mi trovano in completo accordo, e di cui mi piacerebbe parlare ma, in questa sede, desidero soffermarmi sull’idea – da sindrome di Stendhal – per la quale l’opera d’arte possa fungere da portale di passaggio per la trascendenza e il raggiungimento di un diverso stato di coscienza, un contatto che possa provocare una vera e propria illuminazione in chi guarda. Colpisce, per esempio, il fatto che Florenskij cominci il suo saggio – sulle icone sacre, ricordiamolo – con una ricognizione sul funzionamento del sogno come «segno del trapasso dall’una all’altra sfera» e la condizione essenziale per procedere attraverso il valico tra i due mondi è, appunto: avere fede, credere. E la fede è anche studio, disciplina, preparazione, ragionamento e contemplazione – in un rapporto di reciprocità tra l’osservatore e l’opera, quindi l’artista.

Ora, sono sicuro che ci siano state esperienze di questo tipo nella tua vita. Sono certo che aver visto o letto o sentito certe opere, ti abbia portato a fare quel passo in avanti, leggermente sporta oltre la siepe, a scrutare furtivamente quell’altrove infinito dove si nasconde l’inesplicabile. Mi piacerebbe, quindi, sapere quali sono stati per te alcuni di questi momenti e da cosa sono stati provocati: dipinti, libri, accadimenti, canzoni, insomma: qualsiasi cosa abbia significato per te: chiave; il segno visibile, il simbolo che dischiude la possibilità del trapasso dall’una all’altra sfera, fino al mondo invisibile e all’occasione illuminante di poterlo vedere.

SG: Smettere di affidarmi ai pensieri, alle congetture razionali, è stato forse il più grande sollievo che io abbia provato. Non ho in dono la logica, certi processi di pensiero lineari, non ho mai avuto la fortuna di poter provare come si sta con i piedi per terra. La mancanza di base negli anni si è trasformata in una spinta verso l’ineffabile. Inizialmente faticavo ad assecondare questo slancio, essendo una persona tenace per molti anni ho allora cercato di imparare a ragionare così come credevo si dovesse fare per essere persone rette, equilibrate. Ne usciva sempre qualcosa di buffo, di posticcio. Ho trascorso parte della mia vita a credere che mi mancasse qualcosa e a cercare con grande sforzo di raggiungerla. Ovviamente questo pregiudizio che nutrivo nei miei confronti era alimentato dai familiari, dagli insegnanti, dagli amici, dai fidanzati. La mia evanescenza era considerata come un aspetto poco adattivo, poco affidabile. Ho sempre avvertito però che c’era qualcosa di più profondo dell’inconscio, dei pensieri, qualcosa che era inafferrabile, indicibile. Ci sono persone che hanno in destino un inizio di vita difficile. Si possono riconoscere in molti modi, ad esempio si commuovono sempre e sono a loro volta commoventi. Queste persone per un periodo più o meno lungo della loro vita sono frastornate da un vuoto, da una mancanza e provano a colmare il vuoto che però è per sua natura incolmabile. Si svuota di continuo. Fino a quando comprendono, finalmente, che un vuoto è un vuoto e possiede una sua sacralità. Può capitare che queste persone facciano esperienza di uno stato d’amore sublime e assecondino un senso più alto.

L’insensato, quello che sta sotto le promesse, gli ideali, appena sopra i buoni propositi e le raccomandazioni di coerenza e linearità che continuamente ci ripetiamo, l’insensato che compare quando amiamo qualcuno che non fa per noi, quando abbiamo una passione per una canzonetta sciocca, se riusciamo ad addormentarci solo guardando i cartoni animati, quando sbadigliamo durante la presentazione di un nostro libro, se crediamo fermamente che un sasso, una collana, un bacio, ci proteggeranno, è stato il primo incoraggiamento a compiere quel passo oltre la siepe a cui hai accennato. L’insensatezza, adorata, è il primo segno dell’invisibile che ho ricevuto. Ho così imparato che l’alto e il basso devono stare insieme, sempre. E poi c’è stato un incontro determinante, potente, un’iniziazione. Conoscevo da tempo la persona che mi ha consentito con generosità di accedere al mondo sottile ma non mi aveva mai permesso di andare così in profondità nel suo sentire. Poi un giorno, dal nulla, è accaduto, ed è stato come per un orfano incontrare i genitori, come quando scopri di essere stato mancino da piccolo o di essere portato per la musica. Questa persona non è un maestro, un guru, non è un mago (e certo lo è), non è un religioso, né un mistico. È una persona illuminata, senza però tutta quell’enfasi metafisica e magica che circonda i falsi maestri. Ed è semplicemente un amico, un incontro banale, normale, un incontro del destino. Il basso e l’alto, insieme. Da quel giorno, per molto tempo, quasi senza parlare, con poche indicazioni, come se per dialogare usassimo un alfabeto alieno, io ho potuto fare ritorno lentamente al luogo da cui venivo e ho potuto scrutare quell’altrove infinito di cui parli. L’anno magico, così mi piace chiamarlo, è stato pieno di incanto, un continuo di lucine sulla neve, di fili d’erba e di pioggia, di candele accese e fuori il buio e di pienezza, di grazia, ho avuto forse in dono una certezza e non ne avevo mai posseduta una prima d’allora.