C’era una pioggia senza senso, e l’uomo sul viale sterrato era l’unico a non preoccuparsene. Ballava da un piede all’altro, senza espressione in volto.
Il dottor Sinari, che lo osservava dal patio del suo villino, pensava ai fegatelli del giovedì. Perché era proprio giovedì, e mangiare quello spregevole pezzo di maiale era la sua imposizione settimanale. Guardando l’uomo bagnato fradicio Sinari si appoggiò alla porta a vetri che dava sulla cucina, accarezzò l’intonaco ocra e si concentrò sulla strana sensazione di fortuna che gli colorava il volto.
«Cerca qualcuno?» gridò oltre la pioggia.
L’uomo continuò a rimbalzare da un piede all’altro, incerto, o forse sordo. Sinari pensò che se l’uomo fosse stato un paziente lo avrebbe fatto ricoverare senza accertamenti. Ma erano solo loro due, e l’uomo sarebbe potuto svanire così come era arrivato.
«Ohi!» riprovò. «Che ci fa quassù?»
«Io? Niente, guardavo».
«Guardava che? Ci sono solo casa mia e quella del dottor Valle».
«Lo so!» disse l’uomo. «È sempre la forestale che pota il bosco?»
«Come?»
«Il bosco. Se ne occupa ancora la forestale?»
«No! Io e Valle paghiamo un boscaiolo».
L’uomo ora se ne stava ben piantato a terra, gli occhi nella stessa direzione di quelli di Sinari, verso le querce dall’età indefinita che si inerpicavano sul dorso della collina.
«Vuole entrare? Così si scalda!»
Sinari aveva urlato l’ultima gentilezza, poi si sarebbe ritirato dentro casa e avrebbe controllato al computer i turni dei prossimi tre mesi. Attese, e mentre smetteva di credere alla casualità di quell’incontro si chiese se l’uomo fosse chi pensava. Poi si maledisse per essere stato così alla mano.
Quell’invito glielo aveva suggerito l’angolo del cervello che usava per indagare i pazienti al momento delle dimissioni. Le signore depresse, i ragazzini bulimici e violenti, le trentenni eccezionalmente arrapate, tutti i suoi casi erano così ingenui da lasciarsi scoprire proprio da ciò che Sinari odiava di sé: l’impulsività. Li spingeva al limite. Toccava le cosce delle ninfomani, irritava i ragazzini, sconvolgeva i sociopatici.
L’uomo annuì, e la pioggia sul volto gli disegnò la costa del naso.
Sinari era già alla porta quando seppe con certezza di aver commesso un errore incalcolabile.
«Com’è da queste parti?» chiese all’uomo.
Un deodorante con rilevamento di presenza posto sul mobile delle scarpe spruzzò un arido odore di sandalo.
«Mi scusi. Roba da donne. Non mi occupo io di queste cose».
«Tranquillo» disse l’altro. «A casa ne ho uno uguale».
«Moglie? O la donna delle pulizie?»
«Macché, io».
«Vive da solo?»
L’uomo annuì mentre poggiava la giacca sulla poltrona e vi si sedeva sopra. Era fradicio, ma non sembrava farci caso; era invece incuriosito dal villino come lo era stato dal bosco.
Sinari non si innervosì per lo stato dello sconosciuto. Probabilmente, si disse, la sua tolleranza veniva dallo stupido insegnamento cristiano sull’amore per il nemico.
Camminò fino al bagno, prese un asciugamano e tornò di là. Con sua enorme sorpresa si ritrovò a pensare che avrebbe dovuto cambiarsi.
«E lei?», disse l’uomo passandosi l’asciugamano in volto. «Vive da solo?»
Sinari ci mise un po’ per rispondere. Dilatò la consapevolezza più profonda di sé fin quando non riuscì a inglobare anche l’immagine che si era assegnato.
«No, ho una moglie. Adesso è all’estero».
Era una mezza verità, una delle migliori che avesse mai formulato in tutta la sua vita. La frase corrispondeva al vero, ma la parola estero non rappresentava alcuna entità fisico-politica differente dal suolo italiano. Giuliana infatti, ovunque fosse, non era all’estero. Era a scopare, e lo stava facendo senza remore, senza i tremori che l’attraversavano quando era con lui.
«Mi farebbe un caffè?» chiese l’uomo. «Avete figli?»
No, rispose Sinari alzandosi per andare in cucina. Lui e Giuliana non ne avevano voluti. Stavano bene insieme e soli, e nessuno dei due aveva le capacità adeguate a occuparsi di un bambino. Si erano bastati per tantissimo tempo, e anche quando lui, l’egregio dottor Sinari, era diventato molto più irrequieto di quanto lo era stato da giovane, avevano continuato a scopare come quando si erano appena conosciuti. Godevano, ognuno per sé, per la felicità dell’altro.
Tre mesi prima però Giuliana gli aveva detto una cosa che già sapeva: aveva un amante, e voleva frequentarlo. Sinari le aveva chiesto se l’uomo avesse dei figli, e lei aveva annuito.
«Cos’è che non ti piace più?» le aveva domandato senza rabbia.
«Il sesso. Mi inchiodi alle lenzuola».
«Ti inchiodo
«Sì. Fai sesso come se volessi tenermi ferma in questo posto fatto su misura per noi due». Aveva sospirato. «Solo per noi due».
Per Sinari, dunque, dire che la moglie si trovava all’estero era come dire la verità. Ed era proprio la verità a preoccuparlo, consapevole che se l’uomo fosse chi pensava non si sarebbe lasciato sfuggire l’opportunità di urlaglielo in faccia.
«Mi scusi» disse il dottore poggiando il caffè sul tavolino. «Come si chiama?»
«Non gliel’ho ancora detto? Massimo Belli, piacere».
Tese la mano a Sinari, che stringendola provò la sensazione di scoprire qualcuno per chi era. Con Giuliana non gli era mai successo.
«E che fai? Ti do del tu, mi sembra il minimo. Io sono psichiatra».
«Ah, lavori tanto?»
«Quanto basta».
«Io recupero cose».
Proseguirono su quella linea per un bel po’. Si scambiarono informazioni formali e fredde, alla maniera degli adulti ben educati, ma Sinari sentiva l’impulso irrefrenabile di interrompere l’inutile chiacchiera a favore della verità. Erano due uomini adulti e soli in un villino lontano dalla città, in collina. In qualche modo la questione si sarebbe risolta lì, in quel salotto.
Belli disse due cose importanti: indicò la cicatrice sulla guancia e spiegò a Sinari che se l’era fatta da ragazzino, a mo’ di prova di forza con gli amici. La seconda riguardava la sua famiglia, che l’aveva abbandonato un paio d’anni prima. Tutti, moglie e figli, lo consideravano un uomo noioso, e così se n’erano andati a stare per conto loro.
«Un uomo noioso» ridacchiò Sinari. «Uno che si affetta metà faccia per dimostrare quanto vale».
Belli passò ad altro. Disse che da allora cercava di recuperare quello che aveva perso, e no, non i familiari, ma le mancanze che l’avevano spinto a diventare noioso.
«Una volta sono entrato in un ristorante kebab. C’era una puzza orrenda, da cappottare lo stomaco. Avevo fame ma non volevo cucinare, sicché mi sono infilato là dentro. Dovevi vedere, hai mai mangiato un kebab?»
Sinari disse di no, curioso e con la lingua frenata. Voleva aspettare ancora un po’ prima di parlare della verità su sua moglie.
«Insomma mi portano il kebab, chiuso nella stagnola, e mi metto a mangiarlo là dentro. C’erano due neri, due ragazzini e una vecchia. Alle casse sparavano rap francese e all’improvviso ho deciso che tanto valeva andare a vedere una banlieue di Parigi».
«E ci sei andato?»
«Voglia! Ho abitato in venti metri quadrati per tre mesi. Lavoravo a nero come facchino, se te lo stessi chiedendo».
Il dottor Sinari, che odiava la sudicia casa di campagna dov’era cresciuto, fu costretto a deglutire la propria saliva. Si concentrò sulle mura del villino, un acquisto deciso di comune accordo con Giuliana, con tanto di piscina e camera per gli ospiti. Era stata una delle ultime questioni affrontate insieme, due anni prima. Prezzo ribassato, ottimo stato, zona tranquilla e privilegiata. L’agente gli aveva detto che i proprietari volevano vendere in fretta. E adesso quell’uomo, oltre a prendersi gioco della sua verità, aveva poggiato il culo da una banlieue fino al suo divano Cassina. Chiese scusa, si alzò e disse che andava a farsi un panino al salame.
Belli disse che ne avrebbe voluto uno anche lui, poi si mise bello comodo sul divano e attese. Cercò di calcolare i propri movimenti in quello spazio ormai diverso. Si pensò vicino al termosifone, accanto alla finestra, poi sbronzo su quello stesso divano con la testa dell’ex moglie fra le gambe, poi intento a giocare con la figlia sul tappeto. Ormai non li chiamava neppure per nome, ma per il ruolo che avevano avuto. Belli si sentì molto più felice che in passato, soprattutto per l’idea che avrebbe avuto un’altra possibilità per essere diverso, meno se stesso. In cucina indovinò la presenza del dottore che armeggiava col coltello, scartava il salame, lo poggiava sul tagliere. Belle immagini, ma niente in confronto alla sua silenziosa fuga verso il piano ribassato del villino.
Se ricordava bene dalla zona giorno a quella notte c’erano due gradini discendenti in parquet trattato per essere meno scivoloso. Proseguì. La metratura e la suddivisione degli ambienti era rimasta praticamente identica a come l’aveva pianificata lui.
«Ci metto un po’ di maionese come piace a me. Va bene?» urlò Sinari dalla cucina.
La camera del figlio era diventata uno studio. Due librerie sui lati lunghi, una scrivania sotto la finestra e una poltroncina ingombra di fotocopie accanto alla porta. Belli vi sovrappose l’immagine di suo figlio intento a studiare abbandonato sul letto con il braccio destro, quello rotto in quarta elementare, sotto lo stomaco. Per sicurezza guardò anche dentro la stanza opposta. Un’altra camera da letto, con un futon matrimoniale e le lenzuola sfatte. Annusò l’odore del corpo sonnolento, anzi, di due corpi, e ebbe un dubbio: uno dei due odori stava svanendo.
Tornato in camera del figlio, Belli si chiese come Sinari potesse vivere circondato dalle debolezze altrui. Quanta gente avrebbe potuto riconoscere in quei fogli? Poca, lo sapeva, e nessuna di quelle esistenze lo avrebbe mai toccato quanto la certezza di essere stato un uomo noioso, e che la noia veniva dalla sua debolezza, dalla straordinaria capacità di essersi accettato per quello che era, e che nessuno amava.
Girò la manopola della finestra proprio quando Sinari lo chiamò dalla cucina, annunciando il suo arrivo e una confessione. Fuori aveva smesso di piovere. Sotto, il dislivello con il pendio della collina era di quasi tre metri.
Belli pensò a quella volta che aveva bloccato il figlio quando aveva annunciato che se non avesse potuto fare tardi il sabato si sarebbe buttato dalla finestra. L’aveva fatto davvero? Non se lo ricordava, ma doveva recuperarlo.
Sinari entrò nello studio poco dopo. Trovò la finestra aperta, ma non cercò Belli. Sapeva dov’era finito, e sapeva anche che non aveva rubato nulla. Pensò di chiamare la moglie, raccontarle cos’era successo mettendoci dentro tutta la verità del mondo, ma stavolta senza tante altre visioni. L’avrebbe convinta a tornare promettendole che quel luogo ora non era più soltanto loro, ma anche di un estraneo, di un uomo sconosciuto che aveva trattato il villino come se gli fosse sempre appartenuto, come un luogo da riattraversare.
Si sedette sul divano, sopra i fogli, e mangiucchiò il panino. Era concentrato sul telefono quando il vento invase la stanza e arrivò in quella di fronte, dove il futon era rimasto come il giorno in cui Giuliana se n’era andata. Dall’altra stanza Sinari sentì un odore forte e uno debole, che gli fecero scordare tutto. Strinse il telefono e si sforzò a lungo, ma non li riconobbe.

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In copertina: Edward Hopper, “Night Windows” (1928).