Io lo conosco Alonso Quijano, ci ho fumato insieme. E soprattutto, quando era o faceva l’albatros in mezzo agli storti, io l’ho pubblicato. Allora, a capo della mia Editori Riuniti Muniti di Stampante – allora c’erano ancora le stampanti –  io sono stato suo editore. Certe cose non si dimenticano.

Alonso Quijano ha vagato per la scrittura con la stessa irridente disperazione con cui oggi sbeffeggia l’uomo e la Juve. È entrato nelle case della filosofia e della prosa per sputarci dentro. Si è tolto la pelle di dosso per farsene un’altra, simile alla prima ma più doppia. E adesso vuole tornare a casa.

La poesia è casa sua. All’inizio era una casa carnevale. Poi è venuto Dioniso – non so di preciso cosa gli abbia fatto, come lo abbia preso di forza o se invece si sia fatto prendere. L’ha preso e l’ha messo di colpo, appeso per i piedi, in un buco – un deserto o un labirinto. Le cose là dentro si muovono lente e inspiegabili. Per seguirle con gli occhi, per imparare a non dirle, Alonso ha appreso il dolore e la privazione. Poi ha raccolto i piedi da sopra ed è fuggito.

Allora ha preso a vagare. Forte di una corazza addosso – una corazza conquista – Alonso è divenuto Quijano. Ha vagato per aprirsi strade davanti. Ha pisciato più volte nel piatto dove ha mangiato. Ed è tornato. La poesia è casa sua.

Sul ciglio della strada  è la prima stanza di Scirocco, un poema di Alonso Quijano.

Colonna sonora su Radio Flangan: Prima dell’arsura

Scirocco

1. Sul ciglio della strada

L’assetato, camminando nell’ombra, disse: “Dentro i ricordi come tra cespugli,
come le ossa, come il vuoto tra le parti, come il fuoco e tutto ciò che è bello
– perché ogni stronzo ha il proprio culo che lo ammira che si tuffa!
Non va mai bene un significato perché c’è qualcosa di nascosto
e di profondo nella mente o non c’è la mente ma un buco indefinito
e squamato e ciò che vi entra, se ritorna, è sbudellato e gonfio?
Sono ossessionato, è chiaro: ho sete, questo è il terzo giorno.”
“Non hai rispetto!” squittì l’ermafrodita, che era sbucata da un buco
sul marciapiede, e a vederla sembrava identica all’assetato.
“E tu chi sei?” disse l’assetato, distanti qualche passo l’uno dall’altra.
“Io sono quella pasta che sta dentro i ricordi, nelle ossa, nel vuoto,
che è senza scampo. La tua noia assetata, che ti disidrata.”
“Dimmi l’età che ti porti addosso.” – l’assetato non voleva cedere la parola.
“Movimento, movimento – che me ne faccio del tempo –
a me piace fottere, come a te!” Eruppe l’ermafrodita, a voce distorta stiracchiandosi.
L’assetato si voltò di spalle e si mise a pensare. Poi esclamò,
coprendosi la bocca con la mano, come se stesse per vomitare:
“Non ricordo più come si fa. Dentro. Una schiuma acida è il resto
– e ristagna, e dentro quelle goccioline i ricordi… fino a qui, fino a un residuo.”

Shurhùq! Shurhùq!

“Un giorno” continuò l’assetato “ero seduto sulla mia immaginazione,
contemplando l’eleganza del pensiero che atterrisce.
Ero solo – anche se c’erano due pietre vicine ai miei piedi.
Ne raccolsi una. Attendevo qualcuno per l’altra pietra.
Allora saremmo due uomini con due pensieri. – pensai! –
chi sorteggerà il monolite tremendo e cieco?”
“Ah! Basta con queste parole mosce!” Ululò l’ermafrodita, da dietro,
mentre lo seguiva a qualche passo di distanza. Era prima dell’alba.
Lo raggiunse, e iniziò a mugolare: “Tu non parli mai di fiche sugose?
Amico mio, e di che parli oggi? Mi fai ridere, mentre cammini,
con tutte quelle arie e quei versi che fai – sta attento, però, da dove li fai uscire!
Ah! Basta. A te ci vuole responsabilità di giudizio, cognizione di cause ed effetti,
nozioni di geometria: profondità, lunghezza, circolarità, tridimensionalità
e umidità, la prima cosa tra le prime cose, prima di me addirittura!
E il sugo, amico, deve scorrere a fiumi, e tutti si devono tuffare
nel tuo sugo e abbeverarsi e chiederne ancora.
Dagli un po’ di nausea quotidiana, amico, e ricicla tutto
– la parola prima delle parole e soprattutto, anche queste, prima di me.”

Shurhùq! Shurhùq!