Guido ha diciassette anni ed è figlio unico. Non c’è stato giorno in cui sua madre Antonia non gli abbia detto che è diverso dagli altri; lei è la sostanza nella sua vita fatta di mani che gli raddrizzano le spalle, di pantaloni bagnati di pipì e torme di pensieri. Suo padre non lo ricorda: si chiamava Claudio, era maestro d’arte all’Istituto comprensivo di Porto Viro ed è morto in un incidente d’auto quando Guido aveva un anno. Antonia non gli ha mai perdonato quella distrazione alla guida che ha reso lei l’unico appiglio per suo figlio.
Antonia ogni sabato va a fare visita a sua sorella Tilde e lascia Guido a casa perché a lui non piacciono i treni e tutte quelle persone veloci che sanno dove andare. Gli lascia un piatto di pasta e si avvia alla fermata della metropolitana.
Guido se ne sta in mutande davanti all’anta a specchio dell’armadio nella stanza di Antonia, si guarda, si trova strano, ma non riesce a capire fino in fondo cosa non vada in lui; i capelli sono castani e lisci, gli formano sulla fronte una diagonale che va dalla tempia sinistra all’orecchio destro, infliggendo alla sua testa piccola l’evidenza di una misura. Si specchia, la figura che vede riflessa è molle e la sua pelle bianca ricorda la cera sciolta.
Sulla parete del letto alle sue spalle, c’è la stampa del Tote Mutter di Schiele, apparteneva a suo padre. Gli piace quel dipinto, il bambino che lo fissa ha gli occhi chiari e le mani grandi come le sue. Spalanca del tutto l’anta per continuare a specchiarsi al centro della camera dove c’è più spazio e comincia a improvvisare dei passi di danza; si dice che forse non ha ancora trovato la posizione perfetta che gli permetterebbe di sentirsi bello, quella che vorrebbe usare nelle occasioni speciali come il giorno di Natale a casa di zia Tilde o la domenica a messa quando tutti recitano in piedi il Padre nostro. Antonia gli dice che la bellezza non serve a niente, che non deve preoccuparsi d’essere brutto, piuttosto del fatto che il suo cervello è difettoso perché fa fatica a ricordare le cose, perché non riesce a fare a meno di muovere le gambe sotto il tavolo a tempo con la testa, perché guarda a lungo il cielo senza un motivo.

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I giorni sono monotoni, ogni cosa intorno cambia, avanza nella propria direzione e nel tempo, le uniche cose che restano ferme, sempre uguali, sono lui e Antonia.
Lei gli dice che la vita è difficile, glielo sussurra all’orecchio quando guarda la televisione; Guido annuisce con gli occhi vacui, come se ascoltasse una canzone in un’altra lingua, della quale ha imparato a riconoscere il suono di certe parole, ma non sa cosa vogliano dire. Annuisce, come vuole Antonia, e continua a convivere con questa riduzione di vita che gli resta.
A volte si mette in poltrona e sfoglia il numero 5 della collana dei Quindici, il volume sugli animali, mentre Antonia si aggira per casa lasciando posare ovunque il suo profumo aspro. Guido incrocia di rado il suo sguardo, fanno pochi discorsi, perlopiù Antonia parla e lui le fissa la bocca. Gli racconta qualcosa mentre fa le pulizie, ma Guido è attirato soprattutto dal suo abbassare e alzare la voce quando si sposta da una stanza all’altra; gli viene da ridere di fronte a questo adattamento del volume, sua madre se ne risente e spesso smette di parlargli e si limita a guardarlo di tanto in tanto con commiserazione. In questi sguardi risiedono i momenti in cui Guido sente la sua condizione: è solo un attimo, una visione che non è riuscito a mettere a fuoco.

A volte annusa con insistenza il palmo delle sue mani per sentirne bene l’odore; lo cerca da un po’, si accorge del suo corpo che si trasforma nell’aspetto e nella fragranza, ma non dice niente a sua madre, coglie inconsciamente la sua rigidità nei confronti di tutto quello che riguarda la fisicità.
In uno dei suoi pomeriggi davanti allo specchio, si stende sul tappeto, sudato e stanco; con la testa di lato osserva dalla finestra le nuvole lente oltre i palazzi di fronte e gli occhi gli si addormentano.
Così lo trova Antonia, per terra, in mutande e comincia a gridare il suo nome. Guido si sveglia, non è capace di articolare un suono né un gesto, si accovaccia. Antonia gli urla che è uno schifoso, una bestia nuda e lui emette un lamento a ogni offesa, liberando per la prima volta il suono del suo essere. Sua madre, china su di lui, continua a insultarlo a pochi centimetri dalla testa, Guido può sentire la sua saliva sulle mani. Dopo un breve silenzio, Antonia gli sputa addosso per due volte.
Qualcosa nella mente di Guido non sopporta quel gesto, qualcosa gli fa alzare il braccio di cera e spingere lontano sua madre con tutta la forza che gli riesce. Antonia vacilla e cade tra il letto e la cassettiera battendo la nuca. Resta immobile.
Guido respira velocemente, guarda sua madre con occhi esausti e se ne sta sul letto per il resto del pomeriggio. La sera sopraggiunge incurante, Guido accende il lume sul comodino e si sporge poggiandosi su un gomito: le gambe di Antonia sono rimaste ferme, inchiodate al pavimento come assi, i piedi nelle scarpe col tacco comodo sbucano oltre la lunghezza del letto. Anche l’anta dell’armadio è ancora lì, spalancata, e riflette la stanza e il Tote Mutter che pende sulla testa di Guido. Il suo Cristo bambino ha il viso talmente bianco nello scialle scuro, che sembra una fiaccola.

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Egon Schiele, Tote Mutter, 1910.