Il tre, il cinque, il sette e l’otto. La faceva diventare una gara. Di quelle a perdere, di quelle a perdersi, che qui al traguardo era meglio non arrivarci. A volte passava una mano, un braccio, un uomo corpulento ad afferrarla o una donna in difficoltà nel tirarla giù dalla pista, ma se nessuno rivendicava la proprietà del manufatto allora toccava a lui contare i tre giri, gustarsi la corsa, aspettare e acchiappare il malcapitato.

E oggi, per inciso, sembrava toccare alla otto, sproporzionato borsone nero di quelli che neppure entrano, in aeroporto, arrivato sul circuito in ritardo rispetto ai contendenti e in evidente difficoltà nella gestione del percorso: mancanza di grip e scarsa aderenza, evidenti difficoltà di bilanciamento rispetto alle moderne valigie corazzato-carbonizzate e pronunciate – e già citate – dimensioni della monoposto sembravano segnare chiaramente l’epilogo della prova, senza incertezze ed emozioni del sorpasso, senza necessaria attesa dell’ultimo giro, che lui tuttavia aveva aspettato perché le regole sono regole e chi non le rispetta è un criminale.

E queste regole, nello specifico, gliele aveva insegnate sua madre, una mattina di ottobre del ’97 in cui la pioggia cadeva e le lacrime pure, giacché tra un baraccato di merda, un tre in inglese e una battuta del docente Porrini – «che dici Malindo, hai domande da Porci?» risate generali, sganascio generale, gambe che cedono, pugno sul banco, urla contro il docente, fuga dalla classe – ci voleva proprio la mamma a Malindo per riprendersi, con tutte le sue spiegazioni, con tutti i suoi motivi precisi che avrebbero annullato le paure, le rabbie, le incertezze sulla strada che separava la scuola dall’aeroporto.

Malindo, Malindo mio, tu non ti devi arrabbiare, devi avere fede in Cristo, che quello ci dà e quello ci toglie.

(Occhi gonfi, pugni serrati, saliva tra le gengive, che se Cristo esistesse col cazzo che vivremmo nello scantinato di un aeroporto e un papà io ce l’avrei e non saresti costretta e venderti a un pilota a due inservienti a tre guardie per farci stare qui e non finire sullo stradone che porta a Grindisi, soli e in mezzo ai cani, che il primo camion che passa ci stira e la finiamo lì.)

Hai capito, Malindo mio? Che tu tieni il mio cognome ed è cognome d’animali, ma Porci noi non siamo e non siamo mai stati e vedrai la Provvidenza…

Un pacchetto di noccioline per terra. Di quelle imbustate, sottovuoto, salate. Di quelle che quando le mangi ti si secca la gola e se non hai l’acqua a portata di mano è un problema, ti giuro è un problema e ti trovi di colpo nel deserto senza sabbia e senza cammelli ma con un’arsura, ti giuro un’arsura che poi devi gestirla, così tanta sete.

Brillano gli occhi brillano, ma le mani non hanno il coraggio e le gambe non aprono il compasso a sufficienza per gettarsi sul bottino.

Hai visto Malindo mio? Che ti dicevo? ‘E nocelle stanno, ‘e nocelle! Quelle lo so che ti piacciono assai! Che poi domani non è il tuo compleanno, ‘a mamma? Non è il tuo compleanno? Eccolo, il regalo, ci ha pensato la Provvidenza.

No, non era il suo compleanno, ma le nocelle, come le chiamava mamma, erano comunque regalo gradito e una corsa era partita e l’incarto era a pochi metri e un braccio bloccava il bambino desiderante seti e deserti.

Malindoooo che fai??? – E stavolta la voce era arrabbiata. Che devono dire, che stiamo rubando? Aspetta, rispettiamo la regola del tre.

E mica la sapeva, Malindo, la regola del tre.

Vedi? Devono passare tre persone, tre, come Padre e Figlio e Spirito Santo, se nessuno lo prende vuol dire che è nostro.

1. Un incravattato correva in stivali e computer verso l’uscita vicina.
2. Una bambina – rivale ostica – strizzava la mano alla madre emozionata per il primo volo.
3. Un insaccato arancione con carrello tritarifiuti puntava all’imballo di plastica per tralasciarlo clamorosamente in bestemmiante raccolta di cicche di Marlboro.

Il pacco era suo.

Così era stata la prima volta, tra madre, imballaggi e Trinità.

Peccato però che nei diciassette anni successivi di noccioline non se ne fossero più viste, di madri men che meno (fuga con pilota tedesco in prepensionamento) e di Padri, figli e Spiriti neanche a parlarne.

Era rimasta soltanto, rimodulata, la regola del tre, nella semplice interpretazione accolta dal reietto: al ritiro bagagli si stava in lontananza, ad aspettare. Ad aspettare che ciascuno prendesse ciò che era proprio, ciò che era dovuto, ciò che era stato trasportato con sé durante il volo in attesa di ricongiungimento.

Qualcosa. Restava puntualmente e statisticamente qualcosa. Uno, due, tre bagagli. A volte anche quattro o cinque, nelle giornate più confuse e temerarie. Il Porci, in appostamento, attendeva. E al disperdersi della marmaglia prelevante, al correre perpetuo delle valigie orfane sul nastro (in vantaggio alcune, più avanti, in pole position, per così dire), il paziente iniziava a contare: primo giro, secondo giro, terzo giro. La regola del tre. L’ultima arrivata era sua. Nessun furto, nessuna sottrazione, nessun imbroglio: un’attesa ferrea e disciplinata, un ritiro della monoposto sconfitta a scapito delle favorite e delle desiderate, con tutto ciò che la faccenda potesse comportare e, soprattutto, contenere.

Solo in base a questi precisi criteri si prelevava l’ultima della corsa, sottraendola al perenne moto del nastro trasportante, al suo cigolio lampeggiante, all’illusione tremenda di un proprietario riacquistante e all’accelerazione gracchiante delle rimaste in sospeso.

Di tutto, si trovava di tutto: pettini a nastro, pettini a strappo, pettini a coda; croci a uncino, croci a incastro, croci alla moda; pezzi di cane, pezzi gatto, pezzi di coda; reti da imbarco, reti da sbarco, reti da voga. Vestiti, grugniti, proibiti; pastrani, mondani, esibiti; amanti, contanti, mariti. Molte di queste cose non si trovavano mica, ma a lui piacevano rime e stornelli e il gruppo delle guardie aeroportuali in qualche modo andava intrattenuto per farsi perdonare, per fare chiudere un occhio su quella pesca da formichina e su quell’affitto a canone zero nello scantinato del Gate B.

Scantinato pieno di vestiti di varie misure e generi, di libri dal valore e dal prezzo discutibile, di supporti digitali accatastati nel meticoloso e necessario ordine richiesto da un appartamento di otto metri quadri, di filmetti spinti che aspettavano di essere infilati in uno di quei supporti sopracitati per essere goduti nella loro pienezza artistica. Di nocelle, come detto, nessuna traccia. C’erano delle piume di pavone nella stanza, e dei gioielli. Ma le nocelle, quelle, no di certo.

E che eccitazione, che fremito, nel tifare per un bagaglio blu e per un borsone rosso, nel gustare il sorpasso di un trolley ai danni di una ventiquattr’ore, nello sperare che una borsa di cuoio non faccia un fuoripista squalificandosi automaticamente. Che rabbia, che delusione, che disdetta nel vedere un ritardatario cronico avvicinarsi sottraendo alla gara uno dei contendenti. Che gioia, che meraviglia nel vedere la monoposto favorita restare indietro. Che piacere nel prenderla, nello scortarla ai box, nell’esaminarla.

Che vita, in questo rubare le Dimenticanze.

Questa, nello specifico, dalle dimensioni fluttuanti e dal peso scivolante, quasi morto, quasi a piombo, che stimolava non poco la curiosa scoperta del vincitore pieno, ecco, per intenderci, di domande da Porsi, giacché un contenitore così sproporzionato non sarebbe stato accolto da alcuna compagnia aerea, neppure in sovrattassa – a furia di incamerare recipienti, l’esperienza su misure e quantitativo non era dissimile e lontana da quella di volanti, appaltanti e agenzie. Ma trascuriamolo il peso, e trascuriamo la forma. A Malindo stonavano i tempi, tardivi, d’inserimento del bagaglio, entrato a gara in corso e incapace di sfruttare il vantaggio. Vomitato, dall’esterno, dalla bocca enorme che sputava i gareggianti sul nero della pista. Da chi e perché e come mai? Con quali autorizzazioni, poi? Con quale regolarità? Con che rischio di falsare la regola del tre?

Domande, domande su domande.

Domande alle quali avrebbe fatto volentieri a meno di trovare risposta, col senno di poi, giacché in vent’anni di gare e ricerche era capitato di tutto nelle valigie e tra le mani e di tutto era sfuggito sui podi dei rulli di passaggio, ma mai, dico mai, la scoperta era stata così dolorosa, così fredda, così annacquata, come gli occhi che si ritrovava Malindo in faccia nel vedere il pallore del viso, le gambette rannicchiate, le labbra grigie, serrate in sofferenza, il collo annerito e i segni di violenza.

Malina Milenkovă lui l’aveva vista alla televisione. Televisione, sia chiaro, si fa per dire, se per televisione vogliamo intendere lo schermo del Gate 25 che trasmette le notizie dei quotidiani nazionali tra uno sbarco e un ritardo. Bella era bella, come le dive della tivù, come le signore incipriate che corrono all’ingresso prioritario con cani e profumi, come le signorine stampate sui cartelloni pubblicitari al meno due. Ma lei non era una conduttrice, non era incipriata e non stava partendo. Anzi, a essere precisi, lei aveva fatto la prostituta – così recitavano le notizie –, era scomparsa da giorni e ora se ne stava tutta rannicchiata lì, in quel borsone inesatto che non era mica un buon posto per stare e che era anche peggio degli otto metri quadri di bunker antiatomico occupati dal Porci. L’aveva vista lui sul monitor, e mica gli sembrava vero, adesso, di avercela tra le mani – lui che pure ne aveva avute di cose belle tra le mani, e di preziose e di rare – ma mai di così belle, di così preziose, di così rare e di così addormentate.

Si svegli, Malina, si svegli.

(Speriamo non si agiti nel sentirsi chiamata per nome. Lo saprà, mannaggia mannaggia, che la cercano tutti al telegiornale.)

Si svegli, che le porto dell’orzo solubile, del decaffeinato in polvere o una barretta.

(Altro non teniamo qua, che attacchi per la cucina non ce ne sono e si campa a macchinette e fortuna in questo aeroporto.)

Si svegli, signorina Malina, non finga di dormire, le prometto che nessuno qui le fa niente. Si svegli, le dico, non c’è bisogno di nascondersi nel sonno: se sullo stradone non vuole tornarci io mica ce la porto di forza. Qui abbiamo otto metri quadrati e quattro a testa sono più che sufficienti e fa certamente più caldo qui che sulla strada, con le macchine che passano di notte e la notte che corre e i fari che ti puntano e le macchine che si fermano e ti raccolgono, come faccio io con le Dimenticanze. Si svegli, la prego, che io non le faccio nulla e se vorrà potrà restare e se non vorrà potrà andarsene che non importa cosa ha fatto o chi era o se voleva o se era costretta, che in questa stanza ricomincia tutto daccapo, con tutte le cose che non sono state più prese da nessuno, con me che sono una di queste e con mia mamma che son diciassette anni che deve venire a riprendermi e con lei ora, signorina, che si è infilata in questa borsa perché forse non voleva più vedere nessuno. Si vesta, tenga, ho dei vestiti di varie taglie e misure che aspettavano qualcuno a indossarli, ho delle piume di pavone per acconciarsi e anche dei gioielli.

E propone il cercatore e propone, ma un cadavere non ti risponde e quel corpo è così pieno di freddo che tutte le piume del mondo non potrebbero mai fare un degno solletico… Ricordava Malindo ricordava, o meglio, aveva appena ricordato, una filastrocca o chessò, una canzoncina che la mamma usava per svegliarlo al mattino, prima di percorrere i pochi chilometri di camminata che collegavano aeroporto e istituto scolastico mediante tangenziale. Si poteva, questa canzoncina, persino adattare, perché il nome della Malenkovă permetteva un arrangiamento. E magari un accorgimento tale avrebbe potuto galvanizzare il corpicino rannicchiato.

Così, sommessamente, partiva la voce:
Malina, Malina, Malina, ti voglio al più presto sposar…

E così via, una due tre volte, ma senza alcun risultato di rilievo.
Malina, Malina, Malina, ti voglio al più presto sposar…

Nulla, nulla e ancora nulla.

Delle gambe che corrono sullo slavato bianco del pavimento, una corsa inciampata dal peso della bara plastificata, nessun braccio questa volta, a trattenere Malindo.

Direzione dogana, direzione polizia aeroportuale: quella che si evitava sempre, quella del nulla da dichiarare e del sorriso colpevole, speranzoso che bottini ottenuti e mancati affitti non fossero contestati in alcun modo. Ad aprire, sconcertato, l’Albertozzi, che aveva guardato con preoccupazione la corsa impacciata del simpatico Porci – un poveretto, un senza Cristo, abbandonato dalla madre e alloggiato in aeroporto: questo il suo pensiero sul corridore – in direzione di un porto sempre evitato dalla sua lampara.

Malindo, che succede? – recita il militare.

Cadavere gettato sull’enorme scrivania in insacco di nylon, cerniera aperta e mistero svelato e stupore comune e ufficiali e che si ammassano e Malindo, un bambino mai cresciuto che aveva frequentato le scuole abbandonando prima dell’obbligo per rintanarsi in un aeroporto dedicandosi ad una speciale attività a metà tra pesca e gare automobilistiche che chiede:

Non si sveglia signore, come faccio a svegliarla?

E Albertozzi che urla e si mette le mani alla bocca e porta che si chiude alle spalle e vetri che vengono oscurati da tapparelle e ferro freddo che stretto si stringe attorno ai polsi. E sconcerto comune, e dolore, e qualcuno che urla e Albertozzi che per poco non piange che Malindo era un così bravo ragazzo e qualche furtarello al massimo, ma di bagagli dimenticati, di Dimenticanze ecco, e come si può pensare che sia stato lui a strangolare la Malenkovă e a occultare un cadavere?

E Malindo che non capisce e non capisce davvero, che la sua sola sfortuna è stata quella di raccogliere il perdente sbagliato e di volerlo svegliare, che la parola morta che continua a urlare l’Albertozzi lui non la conosce mica, che la mamma gli aveva detto che le persone a un certo punto prendono un aereo e vanno in alto in alto su nel cielo con Padre Figlio e Spirito, mica che muoiono.

E così, mentre tutto si confonde e tanto si urla, mentre il telefono impazzisce e si affollano i curiosi, mentre arrivano le volanti e i servizi funebri, le ambulanze e i superiori, mentre c’è un cadavere sull’enorme scrivania e Albertozzi pensa di essere nel più brutto giorno della sua vita, mentre il ferro stringe ai polsi e nulla è chiaro, un uomo, uno scarto albergante nello scantinato del Gate B, cerca di svegliare una principessa bionda coi segni sul collo che si è nascosta in un borsone certamente per stanchezza.

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In copertina, “Boxing Helena” (1993)