[Praga, 7 agosto 1920]
Sabato

Caro e paziente, lo sono?[1] Davvero, non lo so, so soltanto che un simile telegramma mi fa stare bene praticamente in tutto il corpo, ed è soltanto un telegramma, non una mano tesa.
Ma detta così, dal mio letto di malato, sembra anche una cosa triste, stanca. Ed è triste, in effetti, e neanche oggi ho ricevuto alcuna lettera, un altro giorno senza lettere, devi stare molto male. Chi mi garantisce che il telegramma lo hai spedito tu stessa e che non stai tutto il giorno a letto, nella stanza di sopra in cui sono più vivo che nella mia propria stanza?
Stanotte ho ucciso per causa tua, in un sogno selvaggio, una notte brutta, brutta. Non so dirti altro di più preciso.

La lettera è arrivata adesso. È chiara. Le altre non erano meno chiare, però non osavo inoltrarmi nella loro chiarezza. Del resto, come potresti mentire, tu, la tua non è una fronte che sappia mentire.
Non do la colpa a Max. Certo, qualsiasi cosa ci fosse nella sua lettera, lui non è stato corretto, niente, neanche la persona migliore, deve mischiarsi tra noi due. Anche per questo stanotte ho ucciso. Qualcuno, un parente, diceva nel corso di una discussione, di cui non mi ricordo ma che comunque aveva senso, che questo e quel tizio non erano capaci di portare a termine qualcosa, un parente diceva ironico alla fine: “Ma allora forse Milena.” Al che lo uccidevo in qualche modo, poi tornavo a casa agitato, mia madre mi correva sempre dietro, era in corso una discussione simile, e poi alla fine gridavo pieno di rabbia: “Se qualcuno parla male di Milena, per esempio il padre (mio padre), uccido anche lui o me!” Poi mi sono svegliato, anche se non c’erano stati alcun sonno e alcun risveglio.
Torno alle lettere precedenti, esse erano fondamentalmente simili a qualsiasi altra lettera per la ragazza[2]. E le lettere della sera non erano altro che dolore per le lettere del mattino. E – una volta di sera mi scrivesti che tutto è possibile ma che è impossibile che io ti perda – bastava solo una leggera pressione e anche l’impossibile sarebbe accaduto. E forse quella pressione c’è stata, forse è accaduto.
In ogni caso, questa lettera è un toccasana, ero stato sepolto vivo dalle precedenti e credevo di dover rimanere lì in silenzio, perché forse ero morto davvero.

Tutto questo non mi ha veramente sorpreso, me l’aspettavo, mi sono preparato al meglio che potevo per sopportarlo; adesso che arriva, ovviamente non sono abbastanza preparato, mi sconvolge lo stesso. Invece, quel che scrivi sulla tua solita condizione e sulla tua salute è assolutamente spaventoso e molto grave. Ne parleremo quando tornerai dal viaggio, forse lì accadrà il miracolo, perlomeno il miracolo fisico che aspetti, del resto da questo punto di vista mi fido così tanto di te che non voglio avere alcun miracolo, che affido te, natura meravigliosa, violata, inviolabile, tranquillamente al bosco, al lago e al cibo, se solo non ci fosse tutto il resto.
Se ripenso alla tua lettera – l’ho letta appena una volta – quel che scrivi sul tuo presente e sul tuo futuro, su tuo padre, su di me, emerge con estrema chiarezza ciò che già una volta ho detto, cioè che io sono la tua vera sfortuna, io, nessun altro, ma mi limito: sono la tua sfortuna esteriore, perché, se io non ci fossi, forse te ne saresti andata da Vienna già tre mesi fa, o comunque adesso di sicuro. Non vuoi andartene da Vienna, lo so, non vorresti andartene neanche se io non ci fossi, ma proprio per questo si potrebbe dire – certo da una prospettiva pari al volo di un uccello – che tra l’altro il significato dei miei sentimenti per te consiste nel permetterti di restare a Vienna.
Ma non c’è bisogno di andare così in profondità tra dettagli difficili, basta la riflessione ovvia che tu hai già lasciato tuo marito una volta senza problemi e, sotto una pressione molto più estrema, potresti lasciarlo di nuovo, ma solo perché vorresti lasciarlo, non per un altro.
Ma tutte queste riflessioni servono solo a esser sinceri.

Due richieste, Milena, una piccola e una grande. La piccola: smettila con lo spreco di francobolli, anche se continui a mandarmene, non li darò più a quell’uomo. Ho sottolineato questa richiesta in blu e in rosso, così puoi ricordarti anche dopo l’enorme severità con cui la esprimo.
La grande richiesta: interrompi la corrispondenza con Max, io non posso chiederglielo. In una clinica va bene che, durante una visita, si chieda al medico di competenza come sta “il nostro paziente”. Ma probabilmente persino in clinica il malato digrigna i denti contro la porta.
Ovviamente, le cose te le procuro con gioia. Ma credo che sarebbe meglio comprare la maglia a Vienna, perché ci sarà bisogno di un permesso di esportazione (ultimamente in un ufficio postale non mi hanno accettato neppure i libri senza permesso di esportazione, mentre in un altro me li hanno accettati senza problemi), ma magari sanno darti un consiglio in ufficio. Accluderò sempre un po’ di soldi nelle lettere. Quando dirai “basta”, smetterò subito.
Grazie per il permesso di leggere la “Tribuna”. Domenica scorsa ho visto una ragazza che comprava la “Tribuna” a Piazza San Venceslao, si vedeva che era solo per gli articoli di moda. Non era vestita particolarmente bene, non ancora. Peccato che non l’abbia guardata bene e che non possa seguire la sua evoluzione. No, sbagli a sottovalutare i tuoi articoli di moda. Io ti sono grato di poterli leggere adesso senza nascondermi (di nascosto li ho letti più volte, in modo furbesco).

 


[1] Tradotto da F. Kafka, Briefe an Milena, erweiterte und neu geordnete Ausgabe, herausgegeben von Jürgen Born und Michael Müller, Frankfurt am Main: Fischer Taschenbuch Verlag, 2015¹⁵.

[2]Lettere di Milena a Julie Wohryzek, che Kafka reputava troppo severa e dura.