[Praga, 8-9 agosto 1920]
Domenica sera

C’è una cosa che mi disturba nella tua argomentazione[1], nell’ultima lettera risulta piuttosto chiaro, è indubitabilmente un errore con cui puoi metterti alla prova: quando dici (com’è vero) di amare tuo marito così tanto da non poterlo lasciare (non per amore mio, e voglio dire: sarebbe terribile per me, se tu lo facessi), io ti credo e ti do ragione. Quando dici che tu sì potresti lasciarlo, ma che lui ha intimamente bisogno di te e che non può vivere senza di te, e che anche per questo non puoi lasciarlo, pure ti credo e ti do ragione. Ma quando dici che lui non sarebbe in grado, esteriormente, di far fronte alla vita senza di te e che tu (e ciò presentato come argomento fondamentale) per questo non puoi lasciarlo, o lo dici per nascondere i motivi detti prima (non per rafforzarli, perché quei motivi non hanno bisogno di ulteriore forza) oppure è solo uno di quegli scherzi del cervello (di cui tu scrivi nella tua ultima lettera) […][2] in cui il corpo si contorce, e non solo quello.

Sul margine superiore e destro della prima pagina della lettera: Grazie per i francobolli, perlomeno così è sopportabile, ma quell’uomo non lavora più, guarda soltanto i francobolli come incantato, come faccio con le lettere, un piano più in basso, per esempio i francobolli da dieci ci sono sia su carta rigida che su carta sottile, quelli su carta sottile sono più rari, e tu oggi – brava – hai mandato quelli.

Lunedì

Volevo continuare a seguire il corso dei pensieri di ciò che ho scritto prima, allorché sono arrivate quattro lettere, non tutte insieme, prima quella in cui ti penti di avermi scritto a proposito dello svenimento; dopo un po’, quella che hai scritto subito dopo lo svenimento, insieme a quella molto bella, e poi ancora dopo un po’ la lettera che riguarda Emilie. Non riconosco l’ordine delle lettere con precisione, tu non scrivi più i giorni.
Dunque, rispondo alla domanda “strach – touha”[3], non ci riuscirò in una sola volta ma ci tornerò di nuovo in diverse lettere, forse ce la farò. Se conoscessi la mia (oltretutto brutta, inutile) lettera al padre, sarebbe una buona premessa. Magari la porto a Gmünd.
Se si isolano “strach” e “touha” come fai tu nell’ultima lettera, la domanda non è facile ma è semplice rispondere. In questo caso ho solo “strach”. Ed è così: mi ricordo della prima notte. All’epoca abitavamo nella Zeltnergasse, di fronte c’era una sartoria, una commessa se ne stava sempre sulla porta, di sopra io, circa venti anni, camminavo senza sosta in su e in giù per la stanza impegnato a studiare nervosamente cose senza senso per il primo esame di stato. Era estate, faceva caldo, specialmente in quel periodo era insopportabile, rimanevo sempre alla finestra con la storia contraddittoria del diritto romano tra i denti, e comunicavamo con segnali. Alle otto di sera dovevo andare a prenderla, ma quando di sera scesi, c’era già un altro, ora, non cambiava molto, io avevo paura del mondo intero, e quindi anche di quest’uomo; anche se non ci fosse stato, avrei avuto paura di lui. La ragazza si appiccicò a lui eppure mi fece segno di seguirli. Così andammo all’Isola dei Tiratori, dove bevemmo una birra, io seduto a un tavolino accanto, e poi ce ne andammo, io dietro, lentamente, di nuovo nell’appartamento della ragazza, da qualche parte del mercato della carne l’uomo la salutò, la ragazza corse in casa, io aspettai un pochino finché non tornò di nuovo fuori da me e poi ce ne andammo in un albergo del Piccolo Quartiere. E questo fu tutto, già davanti all’albergo, incantevole, eccitante e ripugnante, poi in albergo non ci fu nient’altro. E poi quando di mattina – c’era sempre caldo e il tempo era sempre bello – tornammo a casa attraverso Ponte Carlo, io ero comunque felice, ma questa felicità consisteva soltanto nel fatto che il mio corpo eternamente afflitto avesse finalmente pace, e soprattutto nel fatto che il tutto non fosse stato ancora più ripugnante, ancora più sporco. Poi tornai di nuovo con la ragazza, credo due notti dopo, tutto fu bello come la prima volta, ma quando poi andai in villeggiatura, lì giocai con una ragazza e non riuscii più a vedere la commessa del negozio a Praga, non le ho più detto neppure una parola, era (dal mio punto di vista) la mia peggior nemica, eppure era una ragazza gentile e benevola, continuava a seguirmi coi suoi occhi che non capivano nulla. Non voglio dire che l’unico motivo della mia ostilità (sicuro che non lo era) sia stato che la ragazza abbia fatto in albergo in tutta innocenza una minuscola oscenità (non vale la pena dire quale), abbia detto una piccola sconcezza (non vale la pena dire quale), ma il ricordo rimaneva, nello stesso istante sapevo che non l’avrei mai dimenticato e, allo stesso tempo, sapevo o credevo di sapere che questa cosa oscena e sconcia, di certo non necessaria da esternare, interiormente era connessa in modo molto necessario con il tutto e che era stata proprio questa cosa oscena e sconcia (di cui la sua piccola azione e la sua piccola parola erano stati un segno, per me) a trascinarmi con una violenza folle in quell’albergo, che altrimenti avrei evitato con ogni mia forza.
E com’è stato allora, così è stato sempre. Il mio corpo, quieto per anni, fu scosso di nuovo fino a un limite insopportabile da questa nostalgia verso una piccola oscenità molto precisa, verso qualcosa di leggermente ripugnante, imbarazzante, sporco, eppure nella migliore delle ipotesi ciò che c’era qui per me fu solo qualcosa di esso, un leggero cattivo odore, un po’ di zolfo, un po’ di inferno. Questa pulsione aveva qualcosa dell’ebreo errante, che si sposta insensatamente vagando in un mondo insensatamente sporco.
Poi ci furono momenti in cui il corpo non era quieto, in cui proprio nulla era quieto, e in cui io però non mi sentivo oppresso, era una vita buona, calma, disturbata soltanto dalla speranza (conosci un’inquietudine migliore?). In questi momenti, nella loro durata, ero sempre da solo. Per la prima volta nella mia vita adesso c’è un momento così in cui non sono solo. Per questo non solo la tua vicinanza fisica, ma tu stessa sei inquietante-rassicurante. Per questo non ho nostalgia della sporcizia (nella prima metà del periodo a Merano facevo piani giorno e notte contro la mia volontà, di come avrei potuto impossessarmi della ragazza della stanza – anche peggio –, verso la fine del periodo di Merano ebbi tra le mani una ragazza molto volenterosa, in un certo senso dovevo tradurmi le sue parole nella mia lingua per poterla capire), di fatto non vedo alcunché di sporco, non c’è nulla del genere, nulla che possa eccitare esternamente, ma tutto porta vita dall’interno, in breve, c’è qualcosa di simile all’aria che deve esserci stata in Paradiso prima della caduta nel peccato. Soltanto qualcosa di quest’aria, ecco perché manca “touha”, non tutta quell’aria, ecco perché c’è “angoscia”.  Adesso lo sai anche tu. E per questo provavo “angoscia” per una notte trascorsa a Gmünd, ma solo la solita “angoscia” (ahimé, basta la solita) che ho anche a Praga, nessuna angoscia specifica di Gmünd.
E ora raccontami di Emilie, posso ancora ricevere la lettera a Praga.

Oggi non accludo nulla, domani piuttosto. Questa lettera è davvero importante, voglio che tu la riceva senza pericolo.

Lo svenimento non è che un segno tra tanti. Per favore, vieni a Gmünd. Se domenica mattina piove, non puoi venire? […][4] In ogni caso domenica mattina sono davanti alla stazione di Gmünd. Non hai bisogno di nessun pass? Ti sei già informata? Non ti serve nulla che io possa portarti? Con il tuo parlare di Staša vuoi dire che dovrei andare da lei? Ma non è quasi mai a Praga. (Quando è a Praga, ovviamente è ancora più difficile andare da lei.) Aspetto la prossima volta che ne farai menzione, o almeno fino a Gmünd. Del resto, per quanto mi ricordo, Staša aveva detto, come se fosse una cosa del tutto ovvia, che tuo padre e tuo marito avessero parlato più volte.

L’osservazione su Laurin (che memoria! Non sono ironico, sono geloso, ma non è gelosia, è solo uno scherzo stupido) non l’hai capita bene. Ho notato che tutte le persone di cui parlava erano o “stupidi” o “imbroglioni” o “criminali”, mentre tu eri solo Milena e sempre molto rispettabile. La cosa mi faceva piacere e per questo te ne ho scritto, e non perché fosse una tua riabilitazione, bensì perché era la sua. A essere precisi, comunque, c’erano un paio di eccezioni, il suo all’epoca futuro suocero, sua cognata, suo cognato, il primo promesso sposo della sua fidanzata, erano tutte persone sinceramente “stupende”, […][5].

Sul margine sinistro e superiore dell’ultima pagina della lettera: Arrivi dopo nove ore, non farti fermare, in quanto austriaca, per il controllo alla dogana, non posso recitare per ore la frase con cui voglio salutarti.

La tua lettera di oggi è così triste e il dolore è così serrato in essa che mi sento completamente tagliato fuori. Se devo uscire dalla mia stanza, vado su per le scale, poi scendo solo per ritornare e trovare il telegramma sul tavolo: “Anch’io sabato sono a Gmünd”. Ma ancora non è arrivato.

 


[1] Tradotto da F. Kafka, Briefe an Milena, erweiterte und neu geordnete Ausgabe, herausgegeben von Jürgen Born und Michael Müller, Frankfurt am Main: Fischer Taschenbuch Verlag, 2015¹⁵.

[2]Una parola è stata resa illeggibile.

[3]“Angoscia – nostalgia”.

[4]Quattro parole sono state rese illeggibili.

[5]Circa tre parole sono state rese illeggibili.