Perché legare insieme Eraclito ed Einstein

Quando si mettono insieme figure così disparate e cronologicamente distanti della storia del sapere, pare venga commesso oltraggio irreparabile alla specializzazione della conoscenza: sembra cioè che mettere insieme Eraclito ed Einstein sia l’atto arbitrario di una fantasia filosofica che disprezza la fecondità e la modernità della scienza stessa.
Da questo punto di vista, è chiaro che tale tentativo si pone nel solco dell’inattualità, sia rispetto allo stato presente della teoria della conoscenza, sia perché in fondo intende radicarsi in un’origine, cioè in un qualcosa che per definizione è non attuale, che si trova sempre all’inizio, e rispetto a cui, appunto, la cosa che accompagna può anche, a un certo punto, trovare una distanza. L’inizio cui qui si allude riguarda l’origine comune di ciò che oggi si è soliti distinguere in scienza e filosofia. Tale divaricazione è però, dal punto di vista dell’epistheme, una forzatura. Se infatti ci si pone su un terreno schiettamente platonico, non è affatto scandaloso coniugare la domanda sulla scienza e quella sulla filosofia: entrambe infatti concorrono a costruire l’imponente architettura dell’epistheme in generale.
Un tale preambolo, tuttavia, non dispensa da una giustificazione rigorosa di ciò che è l’orizzonte della questione: che cosa vuol dire che il logos di Einstein risulterebbe affine a quello di Eraclito?

Il logos

La filosofia ha a lungo passato sotto silenzio la domanda sulla natura del logos: questo è il destino di tutte quelle domande filosofiche fondamentali, che in quanto tali rappresenterebbero una sorta di presupposto sul quale è in fondo anche inutile indagare, poiché se ne dovrebbe sapere da sempre qualche cosa, averne una precomprensione – il caso piú noto è naturalmente il problema dell’essere. Tuttavia, il vero atteggiamento filosofico emerge quando è soprattutto su queste domande che si continua a chiedere, quando non si teme di affrontarle e di vagare nel circolo che impongono.
In verità anche le definizioni iniziali che riguardano il logos non dicono esplicitamente cosa esso sia, ma lasciano comunque trasparire chiaramente quali siano i suoi attributi. Così in Eraclito, e forse per la prima volta, nel frammento 1 Diels-Kranz:

Di questo logos che è sempre gli uomini sono incapaci di comprensione, né prima di averne sentito parlare, né dopo averne sentito parlare la prima volta; e anche se tutte le cose divengono secondo questo logos, essi si mostrano inesperti, quando si cimentano in parole e azioni, quali quelle che io presento, distinguendo ciascuna cosa secondo la propria natura, e spiegando come essa è.

Ecco i tre aspetti che da subito centrano la questione sollevata: qui il logos non è, come poi è andato affermandosi nella tradizione, pensiero e discorso – ovvero discorso orale. Piuttosto, sono le cose, tutte le cose, che divengono «secondo il logos», e quindi il logos è anzitutto una misura, la misura entro cui appunto si dà il ritmo stesso dei tutti divenienti, avvenienti. Infine, questo carattere del logos è determinato e deve essere giudicato «secondo natura», il che significa spiegare di una cosa «come essa è».
Da queste premesse iniziali, discendono tutte le conseguenze che Eraclito non manca di trarre, in particolare quelle pertinenti a «ciò che è identico per tutte le cose»[1]:

Eraclito fr. 30 b D-K B

Questo ordine, che è identico per tutte le cose, non lo fece nessuno degli dei né degli uomini, ma era sempre, è e sarà fuoco eternamente vivo, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne[2].

Qui per la verità la parola logos non compare esplicitamente, ma è facile ritrovarsi coi conti se a kosmos si sostituisce appunto logos: il logos è entro questi termini l’esatta espressione del kosmos, ossia di una misura, di un metron, che, come si legge altrove (fr. 50 D-K), è unità del tutto e tale unità non dipende da una ragione soggettiva, bensì dal logos stesso.

Abbiamo dunque qui tracciato in breve una serie di equazioni: si tratta ora di capire se e come queste possano agire all’interno della prospettiva einsteiniana, e soprattutto in che senso il progetto di Einstein possa dirsi eracliteo in senso fondamentale.

La fisica einsteiniana

Il progetto della fisica einsteiniana può essere posto sotto il segno di una sua progressiva riduzione alla geometria. Il passaggio dalla relatività ristretta a quella generale va letto in questo senso: la generalizzazione delle leggi della fisica a tutti i sistemi di riferimento, anche a quelli non inerziali, significa la matematizzazione completa del cosmo. In questo senso, la fisica può scoprire quel principio unico e comune che detta le leggi della natura: la fisica tiene ora insieme in un unico logos gli attributi della materia e quelli della conformazione topologica dello spazio. Secondo Hermann Weyl[3] :

Il mondo è una molteplicità metrica quadri(3+1)-dimensionale; tutti i fenomeni fisici sono estrinsecazioni di questa metrica del mondo

La generale metrica quadridimensionale, quindi, rappresenta esattamente quel principio unitario dell’ordine dei «tutti divenienti» che Eraclito aveva chiamato logos: vale a dire che il logos, che la teoria della relatività utilizza e persegue, è effettivamente un logos che dice l’uno-tutto. Non è un caso allora che la destinazione peculiare della teoria della relatività si sia rivelata essere la cosmologia.
La teoria della relatività cerca quell’unico logos che è l’unità dell’intero complesso di «ciò che è fisico nello spazio»[4], e vuole esprimerlo in un linguaggio ipergeometrico, questo fino al punto da ritenere che la matematica stessa basti in qualche modo già di per sé a definire l’entità dell’ente fisico. Questo è il senso in cui si può p. e. interpretare la polemica con i fisici di Copenaghen, quando si tratta di discutere del valore oggettivo della teoria fisica: tutto ciò che nella teoria funziona deve in qualche modo corrispondere a un ente che nel mondo si comporti come predetto dalla matematica. Einstein scrive[5]:

In una teoria completa, per ogni elemento c’è un corrispondente nella realtà. Una condizione sufficiente per la realtà di una quantità fisica è la possibilità di predirla con certezza, senza disturbare il sistema […] Ogni rispettabile considerazione di una teoria fisica deve tenere in conto la distinzione fra realtà oggettiva, che è indipendente da ogni teoria, e i concetti fisici coi quali essa opera. Questi concetti presumono la corrispondenza con la realtà oggettiva, e dal significato di questi concetti noi ci raffiguriamo questa realtà.

Questa breve però formulazione deve già metterci sulla strada del capovolgimento che si determina nell’impostazione schiettamente eraclitea di Einstein: se il logos infatti dice l’uno-tutto, perché a un certo punto si pone il problema di dire che quanto asserisce la teoria ed è vero deve ritrovarsi nella natura fisica? Da dove viene questa separazione fra la verità della teoria e la realtà della natura?
Una risposta esaustiva a questa domanda può essere fornita soltanto con una genealogia della concezione della natura che ha la fisica e vale la pena, allora, fare direttamente il nome piú importante implicato in questa storia, ossia Platone.

Einstein è eracliteo fintantoché Platone gli permette di esserlo.[6]

In quella che è la prima sistemazione dell’ontologia, Platone consacra la sua epistheme al rimedio degli errori dei suoi predecessori, in particolare cercando di capire cosa rendeva paradossalmente vicini Parmenide ed Eraclito. Rispetto alla dottrina eraclitea, Platone ha perfetta consapevolezza del perenne nascere, crescere e perire delle cose, ma egli cerca al contempo di opporsi a questo primo percepire (noein) poiché in questo modo non si potrebbe mai pervenire a una verità stabile e sicura. In questo senso, allora, quel logos che nominava l’unità del tutto e che è anche l’unità di questo eterno mutare, deve essere tirato fuori dal gioco, dal suo essere semplicemente la natura, per differenziarsi in un principio di altro tipo. Già a quest’altezza, il logos comincia a trasformarsi nella ragione discorsiva e apofantica di cui la modernità sarà imbevuta, a latere certo di un tentativo che era già in atto nella sofistica, ma che nella scuola platonica è piuttosto collegato alla necessità di fondare l’epistheme proprio contro la techne phantastiche dei sofisti. Ora, poiché la fondazione dell’epistheme possa dirsi conclusa, essa deve muovere dall’idea, e questo accade quando lo stesso Platone scopre non solo che l’ousia delle idee è di rango differente dall’ousia degli enti, ma anche che, in effetti e rigorosamente, soltanto nell’ambito delle idee si può parlare di qualcosa che sia veramente essente. Si tratta del noto argomento della separazione, ossia che la distinzione fra il piano delle idee e quello delle cose e la verità, nel senso dell’epistheme, può essere costruita solo a patto di questa consapevolezza e della sua necessità. Se infatti si restasse nell’ambito degli enti, non si potrebbe mai giungere al tipo di verità ricercata dall’epistheme, appunto perché si ricadrebbe nel circolo di un’ineluttabile consunzione.

A partire da questa fondamentale scoperta, sono possibili vari assetti della teoria della conoscenza, e differenti sistemazioni e direzioni che la teoria delle idee finisce poi per seguire. Il suo nucleo centrale vede il logos respinto al di là dell’ambito degli enti sensibili: quel suo essere misura del tutto è di fatto raggiunto solamente nell’ambito di una sorta di cammino parallelo che l’idea compie rispetto ai sensibili. Ed è intorno a questa separazione che poi la filosofia e la scienza sono destinate a girare, intorno cioè alla ricerca della garanzia ultima di fondatezza dell’epistheme. È abbastanza chiaro che ora la misura della verità sia destinata a un ripiegamento, attestandosi sul livello di perfezione con cui il logos si adatterà all’ente che deve dire e cioè fino a quanto il logos stesso potrà avvicinarsi a dire ciò che deve dire esattamente per come è. Non è un caso, allora, che uno dei termini ultimi della discussione platonica sia il Timeo, dove il discorso sulla natura, attraverso la materia dianoetica, lì incarnata proprio dalla matematica, sia destinato a rivelarsi come discorso verosimile (eikos logos): se la verità vera è stata posta nell’essenza delle idee, è chiaro che ogni abbassamento delle idee al rango della sensibilità significherà un depauperamento della purezza di questa verità ideale, per quanto questo movimento abbia un suo grado di necessità.

La concezione eraclitea del logos è, in termini moderni, intuitiva, ovvero non conosce alcuna mediazione: logos è espressione immediata dell’unità del tutto, ed è la parola che dice la posizione stessa dell’uomo rispetto alla physis, posizione che è chiamata anche kosmos. In Einstein, invece, il logos dice certo l’uno-tutto, e infatti dice il campo gravitazionale e la sua misura, ossia la misura dell’universo intero, ma lo dice non in questa sua immediatezza, bensì tramite una matematica iper-potenziata e comunque ontologicamente mediante. Anche nella sistemazione platonica della Repubblica, la matematica, pur rappresentando un sapere puro, ossia non invischiato nella sensibilità, si trova esattamente a metà fra gli enti in generale e l’ideale puro in quanto tale, ossia nel regno del concetto etico (Plat. Resp. VI). In questo senso, siccome il logos einsteiniano è comunque matematico, esso ha bisogno di trascinare dietro di sé quella distinzione che agli occhi di un platonico rimane comunque sempre chiara, e che in uno dei più schietti eraclitei moderni finisce invece per assumere un carattere, se non aporetico, quantomeno problematico.



[1] cfr. Eraclito fr. 50 b D-K. Della divaricazione soltanto apparente fra Eraclito e Parmenide, può essere anche indice l’uso platonico della formula eraclitea, che viene adoperata nel Teeteto, certo in modo maggiormente fluido, proprio per gli Eleati: «E per poco non dimenticavo, Teodoro, che altri per contro hanno affermato teorie opposte a questi, sostenendo che solo per il tutto immobile è il nome essere, e altre simili concezioni che i Melissi e i Parmenidei insistono nel far valere, contrapponendosi a tutti costoro: dicono cioè che tutto è uno e che esso sta fermo in sé stesso non avendo spazio in cui muoversi» (Plat. Theaet. 180e). (NdA)
[2] A proposito fr. 2 D.-K. Di Eraclito, si era già specificato, inoltre, come questo logos avesse anzitutto il carattere dell’essere l’«uguale», ossia «ciò che è comune»; per tale motivo, il logos non può essere definito ad arbitrio, cioè, in termini moderni, dalla singola soggettività umana, bensì è appunto quello stesso che è uguale per tutti gli uomini. Nel frammento si legge: «Perciò bisogna seguire ciò che è uguale per tutti, ossia ciò che è comune; difatti, ciò che è uguale per tutti coincide con ciò che è comune. Ma anche se il logos è uguale per tutti, i più vivono come avessero un proprio intendimento». (NdA)
[3] H. Weyl, Raum-Zeit-Materie, Berlin 1919, p. 244.
[4] Si veda E. Cassirer, «Zur Einsteinschen Relativitätstheorie, Bd. 10», in Gesammelte Werke, Hamburg 2009, p. 101.
[5] Einstein-Podolsky, Rosen, «Can Quantum-Mechanical Description of Reality Be Considered Complete?», Phys. Rev, 47, 1935, pp. 777-780.
[6] Te lo concedo io, Albert. (NdE)

L’articolo è apparso sul secondo numero di Ô Metis, Fuori di sé.