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C’è una immagine in dagherrotipo[1] del 1842 che ritrae Honoré de Balzac in una posa decisamente inusuale per l’epoca: con una maglia sbottonata, senza cappello, una mano sul cuore. Si tratta di un manifesto letterario, ma per capirlo è necessario chiedersi: che cosa succede con questa foto?
Bisogna tornare a quegli anni, capire cosa stava succedendo nel campo della fotografia, che intenzioni aveva l’autore (o almeno colui che se ne è appropriato), che idea di fotografia aveva. Questa foto compare nel libro Quando ero fotografo di Nadar ma è stata realizzata da Louis Auguste-Bisson. Nadar vi conferiva una particolare importanza: rappresentare Balzac non equivaleva semplicemente a fotografare una persona o un grande scrittore, ma poneva in contatto diretto con il materiale artistico-letterario, portava a comprenderne la forma attraverso l’immagine fotografica. Nadar sentiva di essere, più che un artista, il testimone del cambiamento epocale che la fotografia stava apportando alla storia culturale umana.
Balzac, infatti, aveva esposto più volte le sue teorie sulla neonata arte fotografica, teorie che sarebbero state basilari per alcuni suoi testi e per altri autori in futuro. Susan Sontag[2] ne riporta il pensiero in questi termini:

Nello stato naturale ognuno era composto di una serie di immagini spettrali a strati sovrapposti sino all’infinito, avvolte in membrane infinitesimali… Poiché l’uomo non è mai stato capace di creare, cioè di trarre qualcosa di immateriale da un’apparizione, da qualcosa d’impalpabile, o di fabbricare dal nulla un oggetto – ogni operazione dagherriana avrebbe di conseguenza agguantato, staccato e consumato una delle membrane del corpo sul quale puntava.

Cosa vogliono dire queste parole? Come è possibile avere a che fare con la letteratura o con la fotografia, se, come scrive Sontag su Balzac, l’uomo non è mai stato capace di creare dei prodotti artistici di qualsiasi tipo partendo direttamente da essi? Ed ecco che il legame tra Nadar e Balzac diventa ancora più stringente, e la produzione fotografica diventa quasi sovrapponibile alla produzione letteraria: entrambi cercano di catturare i fantasmi del reale.
Per capirlo bisogna ricordare che Nadar non realizzava, se non eccezionalmente (come nel caso di Victor Hugo), fotografie di morti su commissione. I fotografi all’epoca guadagnavano per lo più ritraendo morti sul letto o in pose con i familiari attorno. I ricchi ritenevano, e lo pensava anche Balzac, che realizzando una fotografia si potesse riuscire a salvare l’ultimo afflato di vita dal deceduto. Ci si illudeva di poter immortalare qualcosa in più della semplice immagine. Ma cosa hanno i morti, da dare, se non un fantasma?

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Nadar era un uomo di scienza, non credeva in questa possibilità, eppure non smentì mai apertamente questa teoria, e non lo fece perché questa teoria forse, pur non avendo basi scientifiche, si prestava a questioni di poetica. Balzac si fece ritrarre in quello stato, decisamente al di fuori dei canoni dell’epoca, perché volle farsi strappare via una membrana che fosse il più vicino possibile all’idea di artista, al di fuori degli schemi sociali e all’interno di una determinata idea di narrazione che corrispondesse alla sua idea di letteratura.

Gli spettri rappresentano non solo il passato, ciò che non è più vivo e al contempo permanente nel mondo dei vivi, ma una vera e propria presenza dell’assente. L’opera titanica di Balzac vorrebbe arrivare alla realtà, ma riesce a comprenderne al più una piccola immagine, di per sé sempre insoddisfacente. Con essa Balzac si avvicinava al reale constatandone, nell’atto narrativo, la distanza: un approssimarsi del distante. Ed è, questo, esattamente il modo in cui veniva vista la fotografia in quegli anni: strappare membrane dal corpo significava non riuscire a raggiungere il corpo stesso ma, al contrario, darne solo una rappresentazione, che certamente con quel corpo aveva qualcosa a che fare. Il legame tra il corpo e la rappresentazione, scritta o fotografica, risulta sempre insoddisfacente, sia per Balzac, sia per Nadar.

Ed ecco che si torna alla domanda: che cosa succede con questa foto? Forse l’idea di Nadar di voler costruire una poetica, prima di tutto letteraria, rientra tra le possibili risposte, ma è una risposta che non basta a sé, è una risposta che richiede ancora una passo indietro, ed è un passo che bisogna fare, appunto, verso Balzac, ribaltando la domanda: cosa succede con i romanzi di Balzac?

Per comprenderlo va affrontato il discorso del tempo nella creazione artistica. Nel dagherrotipo il tempo richiamava una visione di eternità, di stabilità della creazione artistica, distante, secondo Balzac, dal tempo umano da cui l’opera prendeva vita. Come conciliare il tempo della creazione con il tempo umano? Forse siamo di nuovo nella stessa impasse che Nadar e Balzac registravano nel rapporto tra la loro opera e la realtà. Rappresentare fotograficamente un soggetto significava estrarre il soggetto (o il suo fantasma) dal tempo. Ma era un estrarre per restituirlo al tempo stesso nel quale l’opera si sarebbe collocata.
Noi oggi siamo qui che osserviamo la foto che ritrae Balzac e non possiamo esimerci dall’essere nel tempo. Esattamente nello stesso modo con il quale leggiamo un suo libro. Tutto ciò che questa fotografia ci consegna è una serie di domande: che tipo di rapporto abbiamo con l’opera d’arte noi spettatori? E che rapporto aveva Balzac con i libri che scriveva e con le opere d’arte che guardava?


[1] Il dagherrotipo si ottiene utilizzando una lastra di rame su cui è stato applicato elettroliticamente uno strato d’argento sensibilizzato alla luce con vapori di iodio. La lastra deve essere esposta entro un’ora e per un periodo variabile tra i 10 e i 15 minuti.
Lo sviluppo avviene mediante vapori di mercurio a circa 60 °C che rendono biancastre le zone precedentemente esposte alla luce. Il fissaggio conclusivo si ottiene con una soluzione di tiosolfato di sodio, che elimina gli ultimi residui di ioduro d’argento.
L’immagine ottenuta, il dagherrotipo, non è riproducibile e deve essere osservata sotto un angolo particolare per riflettere la luce in modo opportuno.

[2] Scrive Sontag: «La conseguenza più grandiosa della fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come antologia di immagini. Collezionare fotografie è collezionare il mondo». In tal modo porta l’immagine fotografica a una distanza dal reale molto diversa rispetto a Balzac, molto più vicina alla concezione di fotografia contemporanea derivata dai social. Per approfondire le teorie di Sontag si consulti Sulla fotografia, Einaudi, 2004.