«Ebbene, eccolo!» disse loro il vecchio, scarmigliato, il volto acceso da un’eccitazione sovrannaturale, gli occhi sfavillanti e affannato come un giovane ebbro d’amore. «Ah! – gridò – Non vi aspettavate tanta perfezione! Siete di fronte ad una donna e cercate un quadro. C’è tanta profondità in questa tela, è così vera la sua atmosfera che non potete più distinguerla da quella che ci circonda. Dov’è l’arte? Perduta, scomparsa! Ecco le forme autentiche d’una giovinetta: non ne ho forse completamente fermato il colore, la nettezza del contorno che par delimitarne il corpo? Non è lo stesso fenomeno per cui gli oggetti che vediamo sono immersi nell’atmosfera come pesci nell’acqua? Ammirate come i contorni si staccano dal fondo! Non vi sembra di poter passare la mano su questo dorso? Così, per sette anni, ho studiato gli effetti del combinarsi della luce e degli oggetti. E questi capelli, non sono inondati di luce?… Ma lei ha respirato, mi pare!… questo seno, vedete!… Ah, chi non vorrebbe adorarlo in ginocchio? Le carni palpitano; ella sta per alzarsi, aspettate!»
«Vedete qualcosa, voi?» domandò Pussin a Porbus.
«No… E voi?».
«Niente».

Nel 1831 viene pubblicato un piccolo libretto intitolato Le Chef-d’œuvre inconnu, tradotto in italiano con Il capolavoro sconosciuto; l’autore è Honoré de Balzac. Questo libricino ha una sorte particolare: da subito si pone la questione sul perché Balzac abbia voluto scrivere un racconto su un artista che, dopo aver lavorato molti anni sulla sua opera, si decide a mostrarla offrendo in essa un soggetto ritratto che, per quanto da lui amato, non viene nemmeno riconosciuto. A posteriori ci si deve chiedere, poi, come mai esso abbia avuto tanto successo nel mondo dell’arte.

Il capolavoro sconosciuto è stato un testo molto amato dai pittori; la figura di Frenhofer, l’autore del quadro incompreso, addirittura riuscì a far sussultare Cézanne durante una cena così descritta da Émile Bernard:

Una sera che gli parlavo del Capolavoro Sconosciuto e di Frenhofer, l’eroe del romanzo di Balzac, si alzò dalla tavola, mi si piantò davanti, e battendosi l’indice sul petto, si accusò ripetutamente con quel gesto, come a dire che Frenhofer era lui. Si commosse al punto che le lacrime gli riempivano gli occhi. E invece era ben lontano dal genio impotente di Frenhofer, e dall’impotente natura di quel Claude Lantier, con cui Zola aveva voluto rappresentarlo. Così quattro anni dopo, nel 1904, scrissi di Cézanne nel numero di luglio dell’“Occident”, misi in apertura questa frase che mi pare lo riassuma abbastanza bene, identificandolo nel personaggio di Balzac: “Frenhofer è un uomo appassionato della nostra arte. Egli vede più in alto e più lontano di tutti gli altri pittori.

Émile Bernard sovrappone, con alcune riserve, la figura di Cézanne e quella di Frenhofer. Frenhofer torna in altri pittori e scrittori. Uno tra questi è Calvino, che nelle lezioni americane, e in particolare nella lezione dedicata alla visibilità, scrive:

Forse il primo testo in cui tutti questi problemi sono presenti allo stesso tempo, è Le Chef-d’œuvre inconnu di Balzac. E non è un caso che una comprensione che possiamo dire profetica sia venuta da Balzac, situato in un punto nodale della storia della letteratura […]. Le Chef-d’œuvre inconnu è stato commentato molte volte come una parabola sullo sviluppo dell’arte moderna. Leggendo l’ultimo di questi studi, quello di Humbert Damisch ho capito che il racconto può anche essere letto come una parabola sulla letteratura, sul divario incolmabile tra espressione linguistica e esperienza sensibile, sulla inafferrabilità dell’immaginazione visiva.

In questo modo Calvino si pone in continuità con il lavoro letterario di Balzac, ma anche con le influenze provenienti dalla pittura e dalle arti figurative, perché dopo Cézanne c’è stata un’altra rottura che ha tratto forza proprio da Le Chef-d’œuvre inconnu ovvero la pittura di Picasso, autore nel 1927 di 13 acqueforti e dei 67 disegni incisi su legno per illustrare il capolavoro di Balzac.

picasso

Picasso riteneva, come Cézanne, ma anche come Matisse, che in quel libro ci fosse qualcosa e che in un certo senso stesse parlando di lui.

Il filo che lega questo racconto con la pittura e la letteratura si slega (o si lega) dai fantasmi della fotografia e dalla rappresentazione dell’irrappresentabile e ammette la capacità (o incapacità) dell’artista di arrivare all’oggetto rappresentato. L’incapacità che aveva Balzac è la stessa di Cézanne che non riusciva a cogliere gli oggetti nell’attimo in cui si davano a vedere, ed è la stessa di Picasso nel momento in cui cercò di aprire le figure per guardarci dentro, per rompere per sempre con la rappresentazione. Lo stesso problema lo ha avuto Calvino nel momento in cui ha abbracciato il postmoderno per sfuggire al dovere di dar conto di qualcosa che è lì fuori e che nonostante appaia così com’è agli occhi dell’artista, non si riesce a cogliere.

L’intento di questi racconti attorno alla fotografia letteraria è di mostrare il rapporto che da sempre esiste tra fotografia e letteratura partendo dalle immagini. Tuttavia scegliere un’immagine dalla quale partire o alla quale arrivare, in questo caso, è impossibile nella misura in cui si voglia parlare di fotografia, semplicemente perché Balzac, Cézanne, Picasso e Calvino, e con loro tanti altri, hanno insegnato che è impossibile scrivere di qualcosa: si può solo scrivere qualcosa di un qualche argomento che viene meno nel momento stesso in cui se ne parla. Parlare di fotografia è anche ammettere il fallimento dovuto all’impossibilità di parlare di immagini. Per questo non si può far altro che rimanere come Pussin e Porbus davanti al capolavoro di Frenhofer.

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Immagine: Pablo Picasso, disegno per Honoré de Balzac, Le Chef-d’œuvre inconnu, Ambroise Vollard, 1931.