Robert Walser è morto. D’altra parte chi può dire dove e quando sia vissuto? Robert Walser è nato a Bienne il 15 aprile 1878 ed è morto a Herisau, il 25 dicembre 1956, il giorno di Natale.
Robert Walser è morto e della sua morte sono rimaste tracce nella neve: i suoi passi e il suo corpo, steso, con il cappello a nemmeno un metro da lui. L’hanno ritrovato così, il corpo di Robert Walser, disteso nella neve dopo una passeggiata.

D’altra parte sono stati in tanti i grandi pensatori della storia a preferire la strada agli spettri di una stanza chiusa, a partire da Socrate fino a Nietzsche. Walser inizia La passeggiata (1917) con queste parole:

Un mattino, preso dal desiderio di fare una passeggiata, mi misi il cappello in testa, lasciai il mio scrittoio o la stanza degli spiriti, e discesi in fretta le scale, diretto in strada.

Cosa si può dire della scrittura di Robert Walser a partire dalla foto che lo ritrae dopo la sua morte, disteso nella neve? Si potrebbe iniziare con il parlare dei suoi passi, lì a indicare quel camminare che è una attività di pensiero, un errare della scrittura, ma è necessario anche un contesto per arrivare a comprendere l’incedere dello stile. Il contesto bisogna definirlo in quattro brevi passaggi fondamentali, sia filosofici, sia culturali in senso più ampio. Procedendo cronologicamente:

1. Nel 1896 Henri Bergson pubblicò Matière et Mémoire, forse l’opera nella quale espresse con maggiore forza il concetto di durata e di tempo percepito.

2. Nel 1899 venne pubblicata in tedesco L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, libro che ebbe una profonda influenza sulla cultura occidentale di tutto il ‘900.

3. Nel 1900 le metafisiche muoiono per mano di Nietzsche (salvo poi risorgere).

4. Nel 1922, a Parigi, viene pubblicato l’Ulisse di James Joyce.

Uno spettro aleggiava sull’Europa centrale in quegli anni: era lo spettro di una rivoluzione basata su un’idea fondamentale che stava lentamente imponendosi, che ha avuto la miccia in Cartesio, nel suo Cogito, ma che ha trovato terreno fertile, nel quale strutturarsi e venire alla luce, proprio con Bergson: nell’essere umano c’è una crepa insanabile tra mondo esterno e mondo interno. Questa crepa non può che portare alla messa in discussione stessa dell’umanità, della sua definizione. Ma se la definizione di essere umano è e sempre sarà messa in discussione, la scrittura di Walser si è data una volta per tutte nei suoi libri.

La passeggiata come strumento letterario sembra anticipare lo stream of consciousness, e questo si può vedere innanzitutto a partire dalla calligrafia, molto particolare, di Walser. I fogli consegnati a Carl Seeling nel 1957 rappresentarono un grosso problema interpretativo perché da quella scrittura a matita – definita da alcuni studiosi Microgrammi – era quasi impossibile arrivare a una traducibilità del contenuto: Seeling decise di rinunciare e conservare i testi per una futura analisi.

La scrittura si presenta come un unico flusso, tracciato con una matita, di lettere, segnetti e punteggiatura; prodotto senza alzare quasi mai la matita dal foglio. Marco Belpoliti, in un articolo in «Doppiozero», cerca le tracce di questo stile negli aspetti biografici dell’autore.
Ed è a partire da questa ricerca che forse si può arrivare a comprendere qualcosa in più sul rapporto tra il tratto di scrittura, il romanzo La passeggiata e la foto della morte di Walser.
Scrive infatti Belpoliti parlando di ciò che Walser aveva lasciato dopo la sua morte:

Sono retri di buste, parti di lettere, fogli di recupero, coperti da una scrittura serrata, fitta, a volte su colonne strette, a volte distesa a piena pagina, come se un insetto avesse strisciato sull’intero foglio lasciando dietro di sé una striscia di grafite sottile, densa, eppure sempre leggera e impalpabile. Walser ha definito questa scrittura con la parola Bleistftgebeit, ovvero “il territorio della matita”, o “il Paese del Lapis” […] Walser aveva spiegato che il suo era “il metodo della matita”, un modo di procedere che gli permetteva, rispetto alla scrittura a penna, una maggior libertà. Lavora con il lapis, scrivendo racconti o poesie, poi trascrive a penna, a volte anche modificando, cambiando, correggendo. Una sorta di doppia scrittura, “in brutta”, si potrebbe quasi dire, e una “in bella”, che ricorda quello di alcuni dei suoi personaggi.

Il filo che lega questi tre passaggi è senza dubbio nei passi lasciati sulla neve prima che il corpo di Walser si accasciasse per terra. Tutto è connesso, persino il corpo morto diventa parte di ciò che l’ha condotto alla morte, quel peso che ha consentito a Walser di lasciare un segno, una traccia, che è la traccia continua di ciò che appare umano: la scrittura. Quella traccia lasciata con il corpo è narrazione. Per Walser tutto poteva finire all’interno di un racconto, dai suoi passi a qualsiasi altro avvenimento, esattamente come nella fotografia.
Tutto può essere fotografato, può essere raccontato e merita di non sparire nel nulla dell’esistenza. Tuttavia avviene una selezione, e su questo è fondamentale l’intervento umano come dirimente tra ciò che interessa e ciò che non è interessante. Di fatto è come se Walser con la sua scrittura si fosse opposto alla gravità che lo avrebbe fatto cadere nella neve, all’idea che tra una parola e l’altra ci sia bisogno di uno spazio, che in quello spazio non si sa cosa avvenga, come se in quello spazio, in definitiva, ci fosse il tempo: è come se Walser, ne La passeggiata, si fosse opposto al tempo, lasciando, persino in chi lo ritrovò, il desiderio di tenere traccia di quel decesso attraverso una foto, una foto che in un certo senso è il compimento di quel percorso, di quel girovagare, che non poteva che concludersi attraverso un segno, un rimando ad altro, un continuare a girovagare: un passeggiare.