L’idea di avviare una breve indagine sull’epistemologia di Howard Philip Lovecraft, se essa sia esistita in modo sistematico nonostante l’autore si occupasse quasi esclusivamente di fiction letteraria, nasce dalla lettura di due passi rappresentativi della sua opera. Il primo è tratto da uno dei suoi più celebri racconti del Ciclo di Cthulhu. Nell’incipit de Il richiamo di Cthulhu (1926), Lovecraft infatti scrive:

“Ritengo che la cosa più misericordiosa al mondo sia l’incapacità della mente umana di mettere in correlazione tutti i suoi molti contenuti. Viviamo su una placida isola di ignoranza nel mezzo del nero mare dell’infinito, e non era previsto che navigassimo lontano. Le scienze, ciascuna tesa nella propria direzione, ci hanno finora nuociuto ben poco: ma, un giorno, la connessione di conoscenze disgiunte aprirà visioni talmente terrificanti della realtà, e della nostra  spaventosa posizione in essa che, o diventeremo pazzi per la rivelazione, o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di un nuovo Medioevo[1]”.

Il secondo passo si trova invece alla fine del romanzo Le montagne della follia (1936):

“È assolutamente necessario, per la pace e la salvezza dell’umanità, che quegli angoli oscuri e morti della terra e quelle profondità inesplorate vengano lasciati tranquilli. Questo per evitare che quelle anormalità dormienti si risveglino a nuova vita, e che incubi blasfemi, ancora oggi sopravvissuti, si contorcano e striscino al di fuori delle loro nere tane verso conquiste nuove e più vaste[2]”.

Non ho potuto fare a meno di notare come l’oscuro autore di Providence, seppure non all’interno di un sistema filosofico tout court, reputi una maledizione quella che Auguste Comte, meno di un secolo prima, aveva considerato invece come l’obiettivo a cui l’uomo e la società avrebbero dovuto tendere: un rapporto di mutuo scambio tra le scienze per il raggiungimento di una conoscenza più profonda della realtà e per il conseguimento di un equilibrio sociale.
Di qui l’idea di mettere in relazione il positivismo classico, la corrente filosofica ed epistemologica del XIX secolo, con l’opera di Lovecraft e con la sua figura artistica nella sua interezza.
Il positivismo nasce all’inizio del XIX secolo grazie al contributo del filosofo francese Henri de Saint-Simon, e si diffonde soprattutto èsoprattutto grazie all’opera del suo allievo, Comte.
Tralasciando le derive sociologiche che la filosofia comtiana ha assunto nella sua specificità, possiamo ammettere che la posizione del filosofo francese intorno alle scienze sia vicina a quella  dello scrittore di Providence.
Per Comte infatti la scienza, speculativa e niente affatto pratica, ha il compito di dirigere la preminenza dell’uomo sulla natura:

“Solo la conoscenza dei fenomeni, il cui risultato costante è di farceli prevedere, può evidentemente condurci nella vita attiva a modificarli a nostro vantaggio. […] Insomma, scienza, donde previsione; previsione, donde azione: tale è la formula semplicissima che esprime in modo esatto la relazione generale tra la scienza e l’arte, prendendo questi due termini nella loro accezione totale[3]”.

Affine tra i due è anche l’idea del raggiungimento di quello che il ricercatore nel Richiamo chiama “connessione di conoscenze disgiunte”, che in Comte può essere scovata nella preminenza della speculazione razionale a scapito dei fatti empirici osservabili.

“Noi abbiamo riconosciuto che la vera scienza, apprezzata secondo quella previsione razionale che caratterizza la sua principale superiorità nei confronti della pura erudizione, consiste essenzialmente di leggi e non già di fatti, sebbene questi siano indispensabili al loro stabilirsi e alla loro sanzione. […] Lo spirito positivo, senza misconoscere mai la preponderanza necessaria della realtà direttamente constatata, tende sempre ad aumentare il più possibile il dominio razionale a spese del dominio sperimentale, sostituendo sempre più la previsione dei fenomeni alla loro esplorazione immediata[4]”.

Da una parte, quindi, il terrore dei personaggi di Lovecraft nei confronti dell’abisso sul quale la “rivelazione” scientifica potrà un giorno condurci. Dall’altra, queste “visioni”, o meglio “previsioni” non sono per Comte terrificanti, non sono “anormalità dormienti” né “incubi blasfemi”, ma anzi sono avvolte da una lucida e rigorosa razionalità.
Michel Houellebecq, nel suo H.P. Lovecraft: Contro il mondo, contro la vita, commenta lo scetticismo di Lovecraft riguardo agli incubi che creava all’interno della sua letteratura.

“Ricordo che la prima cosa che mi stupì quando scoprii Lovecraft fu il suo materialismo assoluto: contrariamente a molti suoi ammiratori, epigoni e studiosi, Lovecraft non ha mai considerato i suoi miti, le sue teogonie, le sue “antiche razze” altrimenti che come mero frutto dell’immaginazione[5]”.

Lovecraft non solo si considerava un materialista e uno scettico, ma sin da bambino provò un appassionato interesse verso le materie empiriche e scientifiche. Sono le sue stesse parole a confermarlo nello scritto autobiografico dal titolo Annotazioni su un uomo inutile.

“All’incirca all’età di otto anni, acquisii un forte interesse per le scienze, che fu suscitato, senza dubbio, dalle illustrazioni misteriose della tabella Strumenti scientifici e filosofici inserita alla fine dell’Unabridged Dictionary di Webster. La chimica arrivò per prima, e ben presto ebbi un piccolo laboratorio, molto grazioso, nella cantina della mia casa. Seguì la geografia, il cui fascino magico era incentrato sul continente antartico e su diversi altri reami inesplorati di remote meraviglie. Infine, mi illuminò l’astronomia: il fascino di altri mondi e di spazi cosmici incommensurabili eclissò tutti gli altri miei interessi per un lungo periodo dopo il mio dodicesimo compleanno. Iniziai le pubblicazioni di un piccolo foglio ciclostilato, che si chiamava The Rhode Island Journal of Astronomy, e infine – a sedici anni – debuttai nei giornali veri con articoli di divulgazione astronomica. Contribuivo mensilmente con brevi scritti su fenomeni astronomici correnti ad un quotidiano locale, e sommergevo le riviste settimanali della provincia con una miscellanea più estesa.
Fu quando ero alla scuola superiore – che fui in grado di frequentare con una certa regolarità – che creai per la prima volta dei racconti soprannaturali che avessero un certo grado di coerenza. Erano in gran parte delle sciocchezze, e ne distrussi la maggioranza quando ebbi diciotto anni, ma, probabilmente, un paio arrivava al livello medio dei pulp magazines. Di tutti quei racconti ho conservato solo The Beast in the Cave (1905) e The Alchemist (1908). In quella fase, la maggior parte della mia attività di scrittore era dedicata a testi scientifici e classici, mentre la letteratura soprannaturale occupava un posto relativamente minore. La scienza aveva eliminato la mia fede nel soprannaturale, e in quel momento la verità mi attirava più dei sogni. Sono ancora un materialista meccanicistico in filosofia. Per quanto riguarda la lettura, mescolavo scienza, storia, letteratura generale, letteratura soprannaturale, e robaccia per ragazzi, con la più assoluta disinvoltura[6]”.

Questa sua posizione è confermata nella corrispondenza privata. In una lettera del 9 ottobre del 1925 a Clark Ashton Smith conferma il suo materialismo assoluto ritenendo che “la narrativa fantastica sia più efficace quando evita le superstizioni più trite e le formule dei culti popolari» e confessando di non avere «un briciolo di fede in alcuna forma di soprannaturale[7]”. L’autore farà un uso esteso di testi pseudoscientifici circolanti all’epoca, tralasciandone la veridicità scientifica, e facendosi suggestionare da queste storie fantastiche[8]. “La spazzatura messa in circolazione dai teosofi, che rientra nel falso proditorio”, scrive, “in alcuni punti può tuttavia essere interessante[9]”. Eppure, come scrive in una lettera del 20 novembre 1928 a Elisabeth Toldridge, “anche se mi piacerebbe vivere in un universo pullulante dei miei diletti Cthulhu, Yog-Sothoth, Tsathoggua e simili, mi vedo costretto a condividere l’opinione di uomini come Russell, Santayana, Einstein, Eddington, Haeckel e così via[10]”.

Questa “connessione di conoscenze disgiunte” a opera delle scienze è quindi per Lovecraft possibile? Parrebbe proprio di sì. Ed è in questo senso che il punto di partenza dei protagonisti dei suoi racconti è positivo nel senso di reale, effettivo, ma anche pratico, e quindi scientifico, termine in totale opposizione a effimero e spirituale.
Possibile, dunque, ma non auspicabile. Al di là dell’eco ottimistica intrinseca del termine, un positivismo inteso in questo senso sembra tutt’altro che rassicurante e, fuori dalla finzione, può portare, e ha condotto come nel caso di Lovecraft stesso, a posizioni invece nichilistiche.
Houellebecq riporta quello che scrisse Lovecraft nel 1918, e che cristallizza in qualche modo il suo rapporto particolare con la razionalità scientifica.

“Ogni razionalismo tende a minimizzare il valore e l’importanza della vita, e a diminuire la quantità totale della felicità umana. In un gran numero di casi la verità può portare al suicidio, o quantomeno determinare una depressione quasi suicida[11]”.

Una posizione nichilistica, dicevamo, contro la vita e contro il mondo, appunto. Si potrebbe addirittura dire: la scienza contro la scienza stessa, e contro l’uomo. Ancora lo scrittore francese evidenzia come anche il razzismo di Lovecraft sia qualcosa di connaturato alla paura e, probabilmente, a quel vaso di Pandora che un ragione portata ai suoi estremi può avere la tentazione di scoprire.
L’incipit del racconto Le vicende riguardanti lo scomparso Arthur Jermyn e la sua famiglia, davvero affine a quello che abbiamo letto all’inizio, non fa che confermare il pessimismo cosmico dell’autore.

“La vita è una cosa odiosa e, dallo sfondo che si cela dietro ciò che scorgiamo di essa, sappiamo che si affacciano sinistri barlumi di verità che la rendono mille volte più odiosa. La scienza, che già ci opprime con le sue sconvolgenti rivelazioni, firmerà forse la fine della specie umana – ammesso pure che siamo una specie autonoma – quando fornirà alla nostra conoscenza la chiave di orrori insostenibili che prima o poi si diffonderanno nel mondo[12]”.

Alla luce di quanto visto, quindi, l’opera di Lovecraft sembrerebbe non dovere la sua importanza a un’ingenua, per quanto alternativa ed esteticamente avvincente, visione distorta della realtà, quanto piuttosto a una consapevole immaginazione delle deviazioni possibili della realtà stessa, quando questa venga violentata in qualche modo dal razionalismo estremo della scienza (e più in generale dell’uomo); e tale immaginazione sembra essere basata su una conoscenza profonda delle materie scientifiche e su una solidissima epistemologia. È come se Lovecraft avesse studiato, sperimentato, immaginato e infine semplicemente guardato l’altra faccia del positivismo del XIX secolo, con le conseguenti conquiste della rivoluzione industriale, rimanendone profondamente turbato (e disturbato).
Dato per buono l’obiettivo finale della ricerca umana e del progresso scientifico, è in entrambi gli autori l’atteggiamento individuale a cambiare le sorti del singolo: una fede cieca e un’accettazione totale nel caso di Comte, come l’accettazione di un destino splendente; lo stupore e il terrore nel caso di Lovecraft per la scoperta di un mondo che sarebbe stato meglio tenere occultato. Per questo motivo, se vogliamo considerare il positivismo comtiano come l’interpretazione ottimistica e in un certo modo standard del processo scientifico tra XIX e XX secolo, riferendocisi al solitario di Providence, non sarebbe giusto parlare di “antipositivismo”, un atteggiamento dichiaratamente ostile a un’epistemologia di stampo dogmatico, ma di “positivismo inverso”, cioè di una posizione che pur arrivando a conclusioni diametralmente opposte scaturisce, nei fatti, dalla stessa visione del mondo. Un’ipotesi, questa, che pone tutta l’opera di Lovecraft sotto una diversa prospettiva di indagine letteraria, per fornirne una rilettura forse più consapevole, senza dubbio più interessante.

***

Saggio pubblicato originariamente su L’orrore di Lovecraft (2018), antologia realizzata dall’associazione ESESCIFI. Grazie a Mattia Betti per l’aiuto nella stesura delle note bibliografiche.

[1]     H.P. Lovecraft, Il richiamo di Cthulhu, in Id., Tutti i romanzi e i racconti, a cura di G. Pilo e S. Fusco, Roma, Newton Compton, 2009, p. 1138.

[2]     Id., Le montagne della follia, in Id., Tutti i romanzi e i racconti, cit., pp. 1576.

[3]     A. Comte, Cours de philosophie positive (ed. originale, 1830-1842), citato da N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol. 4, Roma, Gruppo Editoriale L’espresso, 2006, pp. 500-501.

[4]     Ivi, p. 501. È interessante notare come la questione della previsione positivistica sembra essere abbracciata in maniera molto più autentica da Isaac Asimov all’interno del suo Ciclo della Fondazione, nella concezione della materia psicostoriografica.

[5]     M. Houellebecq, Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita, Milano, Bompiani, 2001, prefazione, p. 3.

[6]     H.P. Lovecraft, Annotazioni su un uomo inutile, in Id., Tutti i romanzi e i racconti, cit., p. 41.

[7]     Id., Lettere dall’altrove. Epistolario 1915-1937, a cura di G. Lippi, Mondadori, Milano, 1993, p. 119.

[8]     Cfr. M. Ciardi, Il mistero degli antichi astronauti, Roma, Carocci, 2017, pp. 71-79.

[9]     H.P. Lovecraft, A proposito dei miei libri, in Id., Tutti i romanzi e i racconti, cit., p. 1105.

[10]   Id., Lettere dall’altrove…, cit., p. 219.

[11]   Citato da M. Houellebecq, op. cit., pp. 18-19.

[12]   H.P. Lovecraft, Le vicende riguardanti lo scomparso Arthur Jermyn e la sua famiglia, in Id., Tutti i romanzi e i racconti, cit., p. 87.