Oggi era la storia di un uomo vecchio, molto vecchio, e grasso, che girava per casa sua sempre a torso nudo, al più con una camicia a maniche corte tenuta aperta, sempre la stessa, la camicia, e per tutto il giorno non faceva altro che starsene seduto sul divano a bere acqua da bottiglie di vetro che teneva a freddarsi nel frigo, alcune volte l’acqua se la versava addosso, il divano si infradiciava ma all’uomo mica gli importava, continuava a gettarsela sul corpo oppure tornava a bere, e alla fine si scopre che l’acqua nelle bottiglie era acqua di mare che l’uomo andava a prendere due volte alla settimana in una spiaggia a pochi chilometri da casa sua.
Non si muore a bere acqua salata?, allora mi ha chiesto.
Penso di sì, le ho detto.
Mmm, ha mugolato lei a quel punto, e poi ha aggiunto, mi piacciono le storie di Lia.
Perché?, le ho domandato, stanco, sdraiato sul letto, gli occhi chiusi appesi al sonno.
Perché sono impossibili, ha risposto lei dal suo letto.
Domani la vedi di nuovo?, mi ha chiesto, Lia dico, vi vedete di nuovo?; e io ho detto sì, che forse, quantomeno spero.
Allora non fare tardi domani, mi ha ammonito, se no qua arrivi stanco, vuoi dormire e le storie che ti racconta Lia non me le racconti bene, tipo oggi; quella dell’altro ieri l’hai raccontata meglio.
Quale, le ho chiesto girandomi verso il suo letto, anche se nel buio non riesco a vederle che gli occhi.
Quella del libraio che invece dei libri tiene sulla libreria degli specchietti.
Sorrido e le dico buonanotte. Buonanotte, dice lei.

A mia sorella non l’ho mai detto: che le storie che le racconto non sono di Lia, ma storie che mi invento io. Non so perché non l’ho mai fatto, ma tant’è: c’è sempre un buon motivo per non dire la verità, e il mio è che la verità va detta in frazioni di due, altrimenti è una noia. Così le ho detto che ho conosciuto una, e che si chiama Lia, e che è un mese ormai che ci vediamo. Ma a mia sorella non ho mai detto che Lia, in realtà, sta sempre in silenzio.
È così che passiamo il tempo: io seduto su un calcinaccio, lei su un altro, a qualche metro di distanza, e insieme stiamo zitti; eppoi, ogni volta, così dalla prima, io mi sdraio sui pezzi del tetto rovinato – del tetto, delle pareti – e metto il cielo in parole, inventandomi all’impronta delle storielle da niente.
Non so neanche se quella ragazza che riesco soltanto a intravvedere nella penombra si chiami Lia. Io la chiamo così perché è lì che l’ho vista la prima volta, ed è lì che ci vediamo la sera: al Cinema Lia; che in realtà sarebbe il Cinema Italia. Solo che il Cinema Italia non esiste più, abbandonato ormai da anni, quasi venti; e all’insegna in rilievo in alto sul portone di legno, con le lettere prima blu, mancano la I, la T e la A.
Il cinema, dentro, non è che un cumulo di macerie a cielo aperto. La prima volta che ci sono entrato è stato quando Andrea, che se capita con gli altri di trascorrere la sera nella piazzetta lì di fronte a consumare desolanti miscele colorate, segnatamente se ubriaco, sul portone del cinema solitamente ci piscia, ebbene una sera Andrea, di ritorno dalla toilette, mi viene a chiamare e mi dice che il portone del cinema è aperto, e che quindi non si può non entrare a vedere. Non ci restammo molto, lui stesso a un certo punto disse di aver sentito qualcosa e di aver visto “degli occhi che si aprivano”. Io gli dissi che forse era solo un gatto, comunque lasciammo quel posto ai suoi fantasmi e ce ne andammo.
Il gatto non era un gatto: gli occhi li avevo visti anche io, ed erano quelli di Lia, ma a lui non lo dissi mica, forse sempre per quella storia della verità in mezzi.
Ci tornai la sera dopo, questa volta da solo, e ancora la sera successiva, e così ogni giorno; e fin dalla prima volta io ho domandato, e lei mai risposto, attorno alla sua vita, su cosa facesse lì, e come ci fosse arrivata: niente, Lia mi guarda soltanto, gli occhi neri scontornati dalle sclere ombrate nel buio, e allora io mi stendo e le racconto delle storie. La prima volta le ho raccontato la storia di un cinema, di questo cinema in cui si proiettavano soltanto film e cartoni animati per bambini, e la sala era sempre piena, nel fine settimana si facevano anche quattro o cinque spettacoli consecutivi; il proprietario era un giovane adulto che, orfano, aveva ereditato il cinema e con quel cinema si era fatto ricco, e tutti i suoi soldi, tutti quelli che guadagnava, li spendeva in eroina. Sicché il cinema venne fatto chiudere due anni dopo dalla Procura della Repubblica che istruì un procedimento penale inchiodando al banco degli imputati tutti i bambini che in quella sala avevano visto un film: in solido vennero imputati e poi condannati per associazione finalizzata allo spaccio, istigazione all’uso di stupefacenti e lesioni gravi; la Disney si costituì parte civile. Il cinema dunque chiuse, e divenne il carcere dove i bambini condannati vennero rinchiusi; il proprietario, ormai ex, che tutti i soldi del processo aveva speso per comprarsi bottigliette di sciroppo alla fragola, ogni giorno andava a trovarli.
Finita la storia, Lia si addormentò, e questo accade sempre, ogni sera: terminato il racconto Lia si addormenta, e senza nemmeno più il bianco degli occhi aperti, sparisce nel buio.
Allora quando chiude gli occhi io sorrido e le dico buonanotte.
E, finalmente, mi addormento anche io.