Un nuovo reading

Giovedì ci siamo trovati alla biblioteca popolare Thouar con lo scrittore Matthew Licht per discutere del nostro nuovo reading dopo circa un anno di quasi completa inattività, dovuta, ci diciamo, al fatto che il posto dove li facevamo ha chiuso, ma forse le ragioni sono altre, sono da ricercare altrove, in una stanchezza nostra, nel clima autunnale, o magari nel fatto che gli anni passano. Fatto sta che questo giovedì ci siamo visti per discutere di una nuova serata in un posto nuovo, Caffè degli Artigiani, di un nuovo inizio. Ma quando Matthew Licht è arrivato in biblioteca e mi ha appoggiato una mano sulla spalla, ho pensato che i nuovi inizi sono solo l’anticamera di nuove e più fragorose fini.
Siamo scesi e abbiamo camminato nel cortile un tempo percorso da preti o da suore e oggi occupato solo da una macchinetta per il caffè. Ne ho preso uno. Io no, ha detto lui, fa schifo questa roba, non ti fa bene, amico mio. Era vero, ma l’ho preso lo stesso. Poi abbiamo camminato nella piazza avvolta da foglie gialle e lui mi ha detto: ho un tema per la serata. Io sono stato in silenzio e ho pensato mi sparasse qualcuna delle vecchie storie di tette, di nani, di gente che si caca addosso nei bar di Los Angeles. Invece il tema che ha proposto Matthew era un tema sul Giappone, su una qualche tecnica strana che non ha niente a che fare con lo sperma, con eiaculare sul volto di adorabili ragazze giapponesi, ma solo con la cucina, con i cibi stagionali e con i colori.
Io ho detto: Ok Matthew, facciamo in questo modo.

La domenica successiva ci siamo incontrati nuovamente, e c’era anche lo Gnot in veste di impresario di serate e fotografo, proprio come ai vecchi tempi. Abbiamo fatto delle foto dentro al monumento ai partigiani, opera di Venturino Venturi. Io ho detto loro che entrare nel mausoleo forse era poco rispettoso verso la memoria dei caduti, ma Matthew mi ha risposto che lo sarebbe stato si ci fossimo messi a defecare sulla statua.
Era allegro Matthew quel giorno e metteva tutti di buon umore.
Poi ha tirato fuori le bandane e abbiamo fatto le foto strizzando gli occhi come dei veri giapponesi mentre cominciava a piovere e tutti i nostri vestiti si riempivano d’acqua.
Gnot dopo un po’ ci ha salutati, ma prima ci ha dato le ultime indicazioni: allora è tutto deciso; giovedì, prima settimana di dicembre, ci leggerete i nuovi racconti.
Il nostro impresario ha provato a ripetere il nome del tema della serata, quella parola giapponese impronunciabile che aveva scelto Matthew, Raiseiki, Raikonen, senza riuscire a formulare bene né a spiegare cosa significasse.
L’ho visto messo male, anche lo Gnot, con dei peli neri che gli uscivano dalle orecchie, come se in quel nuovo inizio ci credesse poco, pure lui.

Condominio alla fine del mondo

Diana ha detto che queste scale fanno schifo e che l’amministratore fa il furbo.
È autunno. Le foglie si attaccano alle scarpe quando torniamo la sera dopo lavoro strisciando i piedi, le trasciniamo per le scale, poi le foglie rimangono lì per settimane. Il loro processo di marcescenza, per le scale, si arresta.
Diana ha detto che scriverà ancora all’amministratore Merimmobiliare per protestare, che non si può andare avanti così, che l’altro giorno per salire non ha preso l’ascensore, ma ha fatto le scale a piedi e ha notato che ci sono delle zone dove il tempo sembra essersi cristallizzato davvero a un passato remoto, all’autunno precedente e alle foglie di allora, ma quando lei dice così io penso sia qualcosa di temporaneo, questo penso io.
Temporaneo dal momento che il mondo sta volteggiando verso la distruzione.
Questo autunno è il mio pensiero fisso, l’apocalisse; sarà perché sono stanco per le temperature in aumento, l’autunno più caldo degli ultimi mille anni, l’autunno più secco da quando vi è memoria, del buco dell’ozono, invece, non si sente più parlare.
Penso anche che: io e Diana stiamo aggrappati l’uno all’altra dentro al minuscolo ascensore, che ci porta su e giù per le scale, come se niente fosse. Aggrappati nell’ascensore mentre le scale del condominio sono sempre più sporche e il mondo sprofonda. Ho pensato questo autunno con le foglie gialle cristallizzate che si accumulano negli angoli delle scale e vanno a sommarsi a quelle degli anni precedenti, ho pensato a un pensiero poco chiaro o per nulla che ciò che ci sembra normale come queste mail di protesta all’amministratore è eccezionale. Che le scale, che la casa, che io e Diana siamo ancora insieme, che il mondo sia ancora tutto un vorticare nell’universo, che di normale non c’è quasi nulla.
Questo ho pensato e poi ho detto a Diana che il mondo e le scale sono uguali, sono esattamente la stessa cosa, e che fa bene a scrivere all’amministratore, meno male che c’è lei che scrive una mail a Merimmobiliare.

Angolo muto

C’è un punto, nella casa nuova, in cui se parlo con Diana che è nella stanza accanto non ci sentiamo. C’è un luogo specifico della casa che ha questa sua capacità intrinseca (negativa) di impedirmi di sentire cosa Diana stia dicendo in quel preciso momento. Riesco solo a sentire un indegno mormorio mentre io sono in quell’angolo della casa e posso solo farle di rimando qualcosa come un semplicistico Sì Sì, che se solo lei decidesse di indagare meglio dove vuole andare a parare scoprirebbe che No, No, non va da nessunissima parte.

C’è un punto della casa nuova in cui siamo andati ad abitare, questa nostra casa che dopo l’estate e le sue finestre aperte riflette i cieli autunnali sopra e dentro di noi. Il primo autunno in questa casa nuova ci ha fatto capire che il tempo esiste, che la casa è il luogo adatto per le nostre colazioni lunghe, per le nostre intimità stese ad asciugare, per vedere crescere piante sempre verdi, anche vederle ingiallire seppure per definizione non dovrebbero, ma è solo una reazione alle stagioni che pure esistono, ci diciamo.

C’è un punto della casa nuova in cui a volte mi metto a fare le cose e se Diana mi parla non sento la sua voce. Potrei correre il rischio di pensare che questo sia metafora di qualcosa, d’altro, non sia solo un fatto di geometria, di ingegneria acustica, ma sia metafora del nostro rapporto, allora smetto di stare in quell’angolo della casa nuova e propongo a Diana di uscire fuori a prendere uno spicchio di sole, a leggere un libro al Tempio, oppure di andare sulle panchine del Vegni, come se vivessimo ancora nell’appartamento precedente o in quello ancora prima.

Un giapponese a Siviglia

Quando ho conosciuto Diana, circa otto anni fa, lei era vegetariana del tipo integrale, cioè non mangiava né carne né pesce, da circa dieci anni. Ci conoscemmo in situazioni abbastanza classiche, a scuola, e continuammo a frequentarci per più di un motivo: un mix di intesa sessuale, di interessi condivisi, e un terzo motivo che adesso non voglio raccontare.
Continuammo a frequentarci dunque, in un’epoca in cui sarebbe stato più normale passare al partner successivo, e continuammo a frequentaci durante i nostri rispettivi Erasmus, pratica abbastanza diffusa in una certa epoca storica, in una certa Europa multiculturale che oggi sembra solo un lontano ricordo. Prima passammo del tempo nella città di Madrid, e io la seguii. Poi io andai a Siviglia e lei mi seguì. Stavamo dalle parti di Calle Franco, e quel nome per me così neutro, capii solo molto dopo a quale Franco si riferisse.
Studiavamo pochissimo, leggevamo molti libri, facevamo una vita bohémien che avevamo imparato al cinema. Non avevamo molti soldi, ma di fatto non ci mancava niente. A me personalmente importava solo di avere del tabacco da fumare.
A Siviglia c’era un ristorante giapponese dove mi piaceva andare quando passava il bonifico di mio padre; come si chiamava l’ho dimenticato, era esattamente all’inizio dell’Alameda de Hercules e ci portavo anche Diana se non era in Italia a dare un esame per puro caso.
Fu a quel giapponese che lei ricominciò a mangiare il pesce, specialmente il tonno: mangiare quella carne semi-cruda le generava delle scariche di piacere fisico, quasi sessuale. Stavamo là a sedere, mangiavamo tonno crudo, e bevevamo del vino bianco, era così che vivevamo a quel tempo, in Europa; poi andavamo a casa, nella nostra casa fredda di allora, vicino a Calle Franco, senza pensare neanche per un attimo a quale Franco si riferisse, e credo facessimo l’amore, vuoi per l’Europa, o per il freddo, o per l’energia incamerata da quel tonno semi-crudo.