Per tutta la giornata il caldo ci aveva battuti senza rimorsi, tanto che Juri non faceva altro che ripetere acciii acciiii ryoori dekineee, che tradotto in italiano significa boia madonna che caldo / cucinare ma che sei grullo. Anche ai miei occhi di stachanovista totale e sovrumano sprezzatore delle fatiche – nonché amante delle temperature tropicali e del fumo dalle ascelle – il solo pensiero di mettersi ai fornelli rievocava immagini dolorosissime di fuoco, fiamme e castighi infernali. Pertanto, una volta operate le dovute considerazioni di natura morale ed economica[1] reputai corretto aprire la cassaforte e dare fondo a una percentuale sensibilissima del mio fondo criptovalute per andare a mangiare in un ristorante qui vicino specializzato in polpettoni: Tsumoro.

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In giapponese Tsumoro non vuol dire niente, ma suona proprio come tsumoooroooo will be too late / it’s now or never / my love won’t wait. Io credo che ci sia il desiderio di ricordare il Re, nella scelta di questo real american name, ma potrei sbagliarmi, per cui non prendetemi in parola: Tsumoro potrebbe voler dire polpettone in dialetto, oppure essere il nome del signor Tsumoro, o chissà cosa. Ci tengo particolarmente a rendere chiara la mia incertezza di fronte all’origine di questo nome, dal momento che non farlo significherebbe tarnire il valore apodittico del resto delle mie affermazioni e dei miei giudizi, che contrariamente al precedente si reggono sul duplice asse ragione/esperienza e che per questo motivo considero certi e indubitabili.

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Tsumoro è un ristorante con delle pretese, eppure si trova proprio dentro una baracca, una di quelle catapecchie giapponesi degli anni settanta pensate per resistere al massimo fino alla decade seguente, edificata in mattoni finti messicani, plastica e malta. La facciata di questa struttura è tutta ricoperta di un’edera fittissima che mi impedisce un accesso confortevole alle premesse della medesima costringendomi a una genuflessione scomodissima, simile a quelle che si fanno di solito per entrare nelle porticine delle soffitte o in quei buchi tranciati illegalmente nelle recinzioni di periferia dove senz’altro il lettore medio delle mie considerazioni si reca con regolarità per questioni di contrabbando, sesso a pagamento e droga[2]. Ma tralasciamo la decadenza dei costumi e i suoi riflessi sugli individui e torniamo a Tsumoro: una volta superata la barriera naturale delle edere e dei rampicanti ci troviamo di fronte al naso – come fotocopiata – una porta a vetri di compensato multilamellare, voluta sin dal momento dell’ideazione per sbattere a ogni fil di vento e posizionata in modo tale da non poterla aprire se non a gobba china, schiacciati e quasi soffocati dalle montagne di infiorescenze che ci si riversano sulle spalle.
Il primo passo di chi entra in questo ristorante fa pensare a chi riuscisse a emergere dalle foreste del Marlon Brando: testa bassa, mani avanti e madonne incediate tutto intorno. Tuttavia, superate le avversità iniziali – difficoltà spesso legate a problemi di progettazione relativamente comuni nella campagna dell’estremo oriente – ecco che la più luculliana cornucopia di tutti i comfort ci si dispiega maestosa di fronte agli occhi: posti a sedere, condizionatore, luci al cherosene e musica stereo[3]. La cameriera zoppa ci accoglie con garbo, conferma che siamo quelli della telefonata e ci confida che i polpettoni che abbiamo riservato sono quasi pronti: noi, per non mancare di rispetto, ci mettiamo subito comodi sulle sedie d’ispirazione occidentale, scavate nella balsa e tenute insieme col fil di ferro, e facciamo ben attenzione a non posare i gomiti sul tavolo con troppa veemenza, visto che il piano di questo non è incollato alla base che lo sorregge e una pressione eccessiva potrebbe tradursi in grosse risate e ribaltamenti.
Ed è proprio mentre sto confermando di non avere sistemato più del sei per cento del mio peso corporeo sul desco ducale che dalla cucina sbuca lo chef, un omino guercio con la benda da pirata e un cappello nero triangolare col pennacchio, modello terrore dei mari e di chiarissima ispirazione occidentale: sistematosi la benda, effettivamente un po’ fuori posto a causa delle scorribande culinarie, il signor Tsumoro[4] – che pure mi ha già visto una mezza dozzina di volte – mi guarda con fare sorpreso, dimostrandomi di essersi scordato ancora una volta di me e di mia moglie nonostante il nostro essere unici e assolutamente riconoscibili, non fosse altro che per quella clamorosa differenza di statura (quarantasette centimetri) che ci ha guadagnato la reputazione di デコボココンビ[5] più bella del Sol Levante. Mentre aspetto che mi chieda per l’ennesima volta da dove vengo, se gioco a basket, dove vivo e se mi piace il Giappone, un salvifico rumore come di fischioni accesi sembra arrivare dalla cucina e il nostro Achab del macinato si vede costretto a ritirarsi in cambusa senza poterci neppure salutare. Sollevato dalla routine conversatoria di circostanza, torno quindi a guardarmi intorno indisturbato, immaginando che da un momento all’altro il nano di Twin Peaks possa sbucare dalla toilette e cominciare la sua danza.
Mia moglie comincia allora a parlarmi di qualcosa, assolutamente incurante del mio essere impegnato in certe complicatissime fantasie, ma io comincio a fare caso – come pure faccio ogni volta – a come le pareti di questo posto siano tutte tinte di un gran bel verde rame, e a come questa tonalità di fondo faccia risaltare splendidamente i riflessi audaci dei quadri appesi a casaccio per tutta la stanza: ci sono dei mezzi nudi a bassa definizione, delle cose fatte con la frutta e un ritratto di musicista. Quest’ultimo lo hanno messo proprio sopra al pianoforte, un Kawai verticale che senz’altro la cameriera si premura di suonare ogni volta che se ne presenti la necessità: nei giorni di festa, per intrattenere gli ospiti importanti, oppure soltanto per tenere vivo lo spirito d’oltremare che alberga nei confini di questa distorsione spaziotemporale. D’altra parte, per chi non lo sapesse, il pianoforte è uno dei pezzi fondamentali di ogni ambientazione giapponese di stampo occidentale, così come lo sono le facciate in stile liberty – col bovindo e la cassetta della posta identica a quelle che si vedono nei cartoni animati di Wile E. Coyote – delle residenze di campagna delle insegnanti giapponesi di musica classica. Dico delle insegnanti perché queste sono chiaramente tutte donne: l’uomo giapponese lavora infatti esclusivamente in ufficio, in mare, oppure nei campi. Quando si parla di tendenze e costumi del mondo i Giapponesi – popolo storicamente in prima linea quanto a limpidezza della percezione del proprio sé nazionale e a profondità della propria Weltanschauung internazionale – non si lasciano di fatto passare nulla sotto il naso, e sanno benissimo che sia in Europa sia negli Stati Uniti la musica classica va un casino, specie in occasione di quei pittoreschi raduni popolari a base di speech contest, hot dog e colonialismo tanto popolari in Occidente e nei quali il filarmonico di turno si presta invariabilmente e di buon grado a strimpellare le greatest hits degli immortali Beethoven, Rachmaninoff e Stravinsky.
Per quanto riguarda il ristorante in sé e per sé rimane da menzionare soltanto la presenza, in fondo alla sala principale, di un’altra porta a vetri: questa separa la mangiatoia comune, dove regolarmente sediamo io e mia moglie, dal privée imperiale con il suo tavolo da sei, il dipinto dell’ultima cena e la tovaglia rossa col cesto della frutta. Pur non essendoci mai potuto entrare, una volta ci ho visto una famiglia riunita a mangiare polpettoni: ma davvero una volta soltanto e sicuramente una famiglia di privilegiati. Di solito infatti in questo salotto privato si trovano soltanto la luce accesa, il fumo degli arrosti e la promessa della felicità, quest’ultima intesa al modo dello Stendhal di Bianco Rosso e Verdone[6].

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Ma passiamo al servizio. Mentre mia moglie continua a parlarmi di un qualcosa che sinceramente non ricordo e la cui ragion d’essere, immerso come sono nella mistica del luogo, non ho mai considerato neppure lontanamente, ci portano un’insalata di lattuga tagliata fina fina, con su uno spruzzo di maionese e una gelatina rossa dolciastra di dubbia origine; un riso bianco servito in piatto piano perché è la maniera occidentale; il polpettone ricoperto di dadini di pane tostato e affogato nella stessa salsa dell’insalata, questa volta però calda e a romaioli.
Mentre addento il primo boccone del polpettone più famoso del Chuugoku, mi lascio distrarre da una coppia di amanti che entra, saluta, e sempre per mostrare rispetto si mette immediatamente a sedere: gente di un certo livello, mi viene da pensare, coi pantaloni costosi e i capelli mesciati. Nonostante le evidentissime disponibilità economiche i due giovani innamorati si sentono negare la possibilità del polpettone, e ciò a riprova del fatto che il Giappone è ugualmente severo con tutti. I nostri, vengo più tardi a sapere, erano gli ultimi. La scelta cade pertanto su una porzione di rosbif datato venerdì (oggi è mercoledì) e una mestolata di stufato di manzo, sempre in piatto piano perché di nuovo l’occidente e gli occidentali.

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Una nota brevissima: se c’è una cosa che mi fa perdere la pazienza è proprio la scelta sistematica di questi piatti piani, specie nel caso di certi locali freddi e/o aggressivamente termoregolati. La massa irrisoria di queste stoviglie da mercatino delle pulci e la mancanza di quei bordi necessari alla conservazione della temperatura delle pietanze lasciano che i cibi ivi scodellati cadano preda delle correnti ambientali e si raffreddino irreparabilmente, e ciò prima ancora di percorrere il pur delicatissimo tragitto che va dal piatto al palato, sul quale tra l’altro ci sarebbe tantissimo da dire anche se non è questa la sede per farlo. È quindi con tutto il rispetto per le abitudini culinarie di questi paesi del terzo mondo che pure applicherei pene corporee severissime a tutti quanti volessero persistere nel portare avanti la barbarie di certi costumi nonostante l’ovvietà della loro inadeguatezza. Non esiterei peraltro a inserire scelte del genere nella lista dei Cinquecento motivi per cui non meriti di sopravvivere al Giudizio Universale, utilissimo breviario per la sopravvivenza all’Apocalisse che da anni ho in mente di stilare al fine di inchiodarlo come Lou Tero ai portoni di tutti i principali luoghi di culto d’Europa e d’Oriente.

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Idiosincrasie personali a parte, il polpettone pesa mezzo chilo buono ed è composto per un buon settanta percento di un macinato grasso come la morchia per le bici. Pur compiacendomi dell’importanza di questo macigno di ciccia, arrivato a metà portata mi trovo costretto a prendere un momento di pausa: rifletto sulle misure di questi tavoli e di queste seggiole giapponesi che mi costringono ogni giorno a mangiare chino anche da seduto. Mangiare chini è terribile, e costringe gli organi delegati alla digestione dei cibi a una pressione meccanica tale e tanta da ingenerare sistematicamente un fittizio senso di pienezza, per non dire un accenno di nausea, capace di rovinare irrimediabilmente anche il migliore dei pasti. Io mi trovo in questi casi per così dire costretto, dio me ne voglia, a inveire copiosamente contro il pantheon internazionale, talvolta facendo di me stesso uno spettacolo in un certo qual modo sconveniente. Oggi però questo mio rendermi ridicolo non sembra importante, dal momento che mia moglie continua a mangiare senza fare una piega, del tutto ignorando le mie imprecazioni nei confronti della Ss. Madonna eccetera: riprendo quindi a consumare la prelibatezza locale e un poco per volta riesco ad arrivare alla fine del pasto. Juri, come sempre di buon umore, è pure contenta di darmi una mano, prendendosi carico del mio ricciolo di maionese per l’insalata: è molto attenta, lei, e capisce che non riesco ad affrontarlo nonostante il mio amore per l’imperatore e la mia voglia di ganbaru.

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Una volta riposte le posate e ripreso il fiato necessario per muovere qualche passo ci avviciniamo al bancone per pagare: tuttavia non facciamo in tempo a chiedere quant’è che il cuoco esce di nuovo dalla cucina e inizia a dirmi che il soffitto perde[7]. Il salto logico mi coglie un poco alla sprovvista, ma una volta ripreso il controllo delle mie facoltà mentali e rispolverati i contenuti dell’enciclopedia dell’esperienza giapponese riesco a riconoscere in questo tentativo di interazione da parte dell’oste pirata un esempio della totale mancanza di senso di ogni accenno di comunicazione avente luogo in questo paese. Rispondo quindi annuendo copiosamente e pronunciandomi nell’equivalente nipponico di un d’altra parte è così. Dopo le ineludibili domande di rito – di nuovo: altezza, basket, nazionalità, bello il Giappone eh: tutta quella roba che insomma mi illudevo di poter evitare – riusciamo a levarci d’impaccio e a salire in macchina, pronti da capo a tornarcene a casa e certi di un risveglio intorno alle tre e quaranta del mattino alla ricerca di un bicchiere d’acqua e della confezione del bicarbonato di sodio.

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[1]    Sarà il caso di mangiare fuori? Senti Juri, ci arriviamo a fine mese? Non sarà meglio tirare un po’ la corda e dare il buon esempio?
[2]    Perché se vi trovate a leggere queste porcherie potete solo essere dei drogati e degli omosessuali.
[3]    Scriverei stereo in grassetto e in corsivo, ma ho paura che l’editore mi sgridi.
[4]    O Tanaka: siamo, come specificato poco addietro, nell’ambito delle supposizioni.
[5]    Da dekoboko (凸凹), ovvero dislivello, e kombi, combinazione, coppia: come nella frase Maradona e Caniggia erano una bella kombi di cocainomani.
[6]    Questa volta sono quasi sicuro del titolo.
[7]    Aveva piovuto molto.