Quaeque ipse miserrima vidi
Et quorum pars magna fui.
(Eneide, libro II, versi 5-6)

Il tratto distintivo di Teresa Ciabatti, ne La più amata, sta nel non prendere le distanze dalla sua famiglia e nel presentarsi come prodotto e non come vittima del suo ambiente: consapevole fin dall’infanzia del suo status di privilegiata, la voce narrante/protagonista/autrice ne gode, ne approfitta anche con una certa scaltrezza, si sente padrona del mondo, vive la sua ricchezza come un coronamento del suo essere speciale. Le cose si fanno interessanti quando la nostra deve scontrarsi non solo con la realtà esterna (le scuole medie, il trasferimento a Roma), ma soprattutto con le falle interne al suo mondo di fiaba, che appare deforme e carico di sinistri presagi dalle origini. Teresa ha visto cose tristissime e il fatto di non averle capite, di non averne potuto dare la giusta prospettiva, non la rende meno complice, meno appartenente a quel “male” che nel suo romanzo autobiografico racconta.

La più amata, fin dal titolo, gioca con il rapporto tra il fatto (che rimane misterioso e inconoscibile), la percezione del fatto (fallata fin dalla radice e ulteriormente compromessa dallo scorrere del tempo), la sua narrazione (il trionfo della soggettività) e la colpa (biologica? Genetica?) che ha reso e continua a rendere Teresa una donna insoddisfatta, immatura e infelice. Teresa rimane sospesa nei vuoti della storia (l’anno di sonno imposto alla madre Francesca, il sequestro del padre Lorenzo), e negli oggetti dalle valenze ambigue (l’anello del Professore, motivo prima d’orgoglio e poi d’imbarazzo), senza trovare spiegazione o una causa oggettiva e inoppugnabile.

Ricordo, collego, invento. Cosa ha generato questa donna incompiuta.
Scrivo di mio padre e mia madre, ricostruisco la storia di famiglia per arrivare a me. Scrivo, ricordo, invento.
(p. 215)

Il passato non si può conoscere del tutto, tantomeno lo si può comprendere, lo si può solo accettare. Forse smettere di porsi domande e cominciare a guardare avanti anziché indietro potrebbe essere l’unica cosa da fare per cominciare a vivere sul serio (come suggerisce la citazione di Philip Roth in esergo al romanzo[i]), perché ogni rapporto umano, e persino il rapporto con se stessi, è incompiuto e frustrante; e allora La più amata smette di essere la ricostruzione/requisitoria di un’esistenza e diventa la storia di una spiegazione non necessaria, di un bisogno che perde progressivamente d’importanza: ci ritroviamo al cospetto di una persona che indaga sul passato per spiegare il suo malessere attuale e che finisce per considerare il suo presente come un punto di partenza per costruirsi un futuro più pacificato, sereno, indipendente, da persona finalmente matura.

Teresa Ciabatti
La più amata
Milano, Mondadori, 2017
pp. 228



[i]       “Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male”.