Confesso di non sapere se tra gli scrittori in giro per il mondo più o meno illustri vi siano appassionati di videogiochi. Presumo di sì, specialmente nella generazione più vicina alla mia, come presumo però che vi siano scrittori che nemmeno abbiano mai preso in considerazione l’idea di “perdere tempo” con un videogioco. Molti pensano che giocare sia perdere tempo inutilmente, o che giocare sia una cosa da ragazzini. Al secondo argomento risponderò indirettamente dopo, sul primo argomento, la perdita di tempo, quando ci sono cose ben più importanti a cui pensare rispondo che chi ragiona così, senza forse rendersene conto, non fa altro che replicare gli antichi argomenti bigotti contro l’arte e la letteratura. Ovviamente prendo atto che possano semplicemente esserci letterati che non amano i videogiochi senza che vi siano dietro gravi argomenti ideologici.

Io che scrittore non sono, o almeno scrittore pubblicato, posso tranquillamente affermare che il mio smodato amore per la letteratura è stato parallelo all’amore per i videogiochi.
Nei primi anni consideravo i videogiochi alla stregua del giuoco del pallone, un diversivo, uno sfogo, nulla di più, del resto i videogiochi dei tempi non offrivano contenuti profondi. Poi arrivò The Secret of Monkey Island e tutto cambiò. Quel gioco straordinario che a distanza di anni molti di quelli della mia generazione ricordano con affetto e gratitudine ci offrì qualcosa di più di un semplice divertimento (che già è benedetto), ci offrì un’esperienza narrativa coinvolgente. Fu dunque The Secret of Monkey Island il primo videogioco a insinuare in me il tarlo della narrativa video ludica.

Da Monkey Island a Life is strange sono passati circa 25 anni, nel campo informatico un’era geologica, in mezzo si è assistito ad un’evoluzione dei contenuti e del gameplay che andava di pari passo all’investimento tecnologico e produttivo. I videogiochi sono diventati sempre più costosi da realizzare tanto che per molti dei titoli più famosi si può parlare di produzione quasi cinematografica, con team indipendenti sostenute da grandi case di distribuzione. I videogiochi non sono diventati solo più belli dal punto di vista grafico e innovativi sul piano del gameplay puro, sono diventati più profondi, con contenuti controversi che hanno sollevato polemiche sociali al pari di certi libri scandalosi nell’Ottocento.
E sempre più si è assistito a un fenomeno: l’ibridazione tra letteratura e videogioco. I produttori hanno capito che la “storia” fa la differenza in un videogioco di successo, una storia crea un’empatia profonda con il personaggio che si incarna e permette un’immersione maggiore. Il segreto di Monkey Island e di altri titoli della gloriosa Lucas Art, la casa di videogiochi di George Lucas era proprio questo.

Veniamo ora a Life is strange.
Che cos’è Life is strange? Un banale videogioco? No, troppo poco…  Life is strange è un romanzo interattivo in cui siamo al tempo stesso co-autori e personaggio principale. L’immersione nel mondo di Life is strange è simile a quella che si prova quando si legge un libro ma con alcune decisive differenze: tutto ciò che vediamo lo vediamo con i nostri occhi e con gli occhi dell’autore, non tutto ciò che ci mette sotto gli occhi però l’autore viene da noi colto, operiamo cioè una selezione, come nella realtà, possiamo scegliere di fare una cosa o non farla, di vedere una cosa o non vederla, ogni nostra azione modificherà la storia, è in questo senso che siamo anche autori della storia, un po’ come avviene in quasi tutti i videogame; in questi però i binari sono più tracciati, cioè la storia non si discosta da quella pensata dai programmatori, al contrario in Life is strange siamo di fronte ad una tale ridda di possibilità che sembra quasi che l’autore vero si eclissi ed emerga solo il nostro ruolo, ovviamente non è così ma pensiamo a come saranno questo tipo di esperienze narrative quando la tecnologia ci consentirà di creare i contenuti partendo da pattern pressoché infiniti…

Life is strange è un’avventura narrativa straordinaria, per il gameplay deve molto sia a Donnie Darko che a Butterfly effect, la protagonista infatti scopre di poter riavvolgere il tempo, una storia non banale e matura, con contenuti non adatti a ragazzini (ci troveremo ad affrontare anche il suicidio di una ragazza in cui il nostro personaggio avrà un ruolo determinante), un gioco che prefigura a mio avviso cosa sarà la letteratura nel futuro: perché ad esempio fermarsi solo a leggere Dickens quando puoi diventare un personaggio di Dickens e dare vita a sviluppi diversi nel contesto del solito romanzo? o rivestire i panni di Gregor Samsa per costruire mille alternative alla trama originale della Metamorfosi?

Fino a Life is strange ho pensato che i rapporti tra letteratura e videogiochi si fermassero alla trama e al contesto narrativo o sfondo, vedi i libri di Andrzej Sapkowski che hanno dato vita alla fortunata saga fantasy di The witcher, l’incursione nel mondo del gaming di Clive Barker che scrisse nel 2001 il videogame Undying; e che le maggiori connessioni fossero possibili con il cinema (ho già detto che a monte delle produzioni dei videogiochi più importanti ci sono major che rivaleggiano in potere economico con le major hollywoodiane, del resto la Disney e la Warner Bros distribuiscono videogiochi, il pioniere in questo senso fu George Lucas con la Lucas Art e le sue avventure che hanno fatto scuola dalla saga di Monley Island a Loom, passando per la saga di Indiana Jones). Da qualche tempo però, giocando ad alcuni videogiochi coinvolgenti sul piano emotivo come The walking dead — capolavoro della Telltale Games, un gioco simile nella concezione a Life is strange per le scelte etiche e non solo di gameplay che ti pone nel corso della storia e che cambiano il destino dei personaggi —, ho mutato radicalmente idea. I videogiochi non sono, come pensano molti, banali film interattivi, ma sono romanzi o racconti interattivi, simili ai ‘librigame’ (libri in cui ci sono bivi narrativi decisi spesso dal tiro dei dadi).

Certo qualcuno dirà che il fatto che la letteratura sia scrittura e quindi materialmente costituita di parole pone un’interazione diversa rispetto a una narrazione in cui il lettore si trova di fronte a un mondo di immagini e suoni oltre che di interattività, la componente immaginativa per cui ogni lettore vive un’esperienza narrativa diversa e immagina quindi quel mondo vagheggiato dallo scrittore un po’ a immagine e somiglianza del suo mondo immaginativo interiore si perde, io non nego questo, non sto affatto sostenendo che i libri e i videogiochi siano equiparabili, affermo un’altra cosa, e cioè che per uno scrittore è affascinante chiedersi quante possibilità creative ci siano di fronte a un universo narrativo in cui il lettore si immerge “fisicamente”, in cui il lettore di fronte a ipotesi che l’autore mette in campo vive una delle possibili storie magari personalizzata in base all’esperienza di gioco, alla cultura. Pensiamo a un videogioco ad esempio che all’inizio ti ponga domande o enigmi la cui risposta influenzi poi il corso della storia, o a un videogioco che utilizzi informazioni che tu stesso lettore-giocatore fornisci all’inizio (età, gusti, passioni, status, lavoro, provenienza geografica, aspetto ecc.), che moduli dunque la storia su questi caratteri.

La tecnologia offrirà nei prossimi anni strumenti potenti agli sviluppatori, possibilità creative davvero quasi infinite, per chi scrive può essere un’opportunità, prima di tutto creativa, oltre che lavorativa. Io penso che scrivere sia un mestiere, campare di quel che si scrive dovrebbe essere un obiettivo di chi scrive, il dilettantismo pregiudica talvolta anche il fine artistico che ci si prefigge.

Tra le tante articolazioni del mestiere di scrivere (sceneggiatore, librettista, traduttore, ghost writer, romanziere,  ecc ecc) credo abbia piena dignità anche quella di sceneggiatore di videogiochi, la strada è aperta e promettente.