Una volta nonna mi raccontò una brutta storia, me la raccontò una notte di fronte al fuoco morente che bruciava nel camino. Eravamo alzati per vegliare la febbre del nostro fratello minore che l’indomani sarebbe morto. Mangiavamo biscotti allo zenzero e bevevamo vino caldo con mele e cannella, mentre altri erano attorno al capezzale di Antonino, che aveva la febbre altissima. Ogni tanto gli mettevano una pezza d’acqua sulla fronte e si alzava del vapore tanto era caldo. Io ero la più grande e dovevo badare agli altri fratelli, che non lo infastidissero. Così ce ne stavamo lì accanto al fuoco, con nonna che ci faceva compagnia raccontandoci vecchie storie. Di dormire non se ne parlava, volevamo vegliare anche noi Antonino, sentirlo respirare a fatica, nel silenzio di quella lunga notte.
Nonna faceva paura così severa, vestita a lutto, parlava di morti e di fantasmi con una voce bassa che metteva i brividi.
Mancava poco a mezzanotte quando ci raccontò la storia di Camelia, una storia vivida come le scintille che danzavano davanti a me nel fuoco morente. Ancora oggi mi sembra di risentire, anziana e con uno stuolo di nipoti da accudire, la voce bassa e cupa della vecchia strega che racconta.

Tanti anni fa, prima ancora che nascessi io, c’era ancora qualcuno che viveva sull’isola: erano poche famiglie disgraziate, vivevano di pesca con raccolti sempre più magri. Erano affamati e smunti come fantasmi, bazzicavano ogni tanto qui in paese per fare provviste di sale, farina e altri generi alimentari che nell’isola mancavano. Erano pallidi, avevano la pelle del viso tirata tanto da vedere i contorni del teschio. I Rau erano i più benestanti di quel piccolo caseggiato cresciuto attorno al porticciolo dell’isola. La loro casa era leggermente staccata dalle altre, sul lato opposto della piccola insenatura ma così vicina che potevi vederci dentro. I Rau erano in tre: il capofamiglia Dante, la madre Arsa e la piccola Camelia.

Al nominare la bambina la nonna baciò la medaglietta con la Madonna che aveva sul seno, poi continuò la storia.

Don Fausto scese dalla barca e la prima cosa che fece fu vomitare, poi si fece il segno della croce e fissò quella baracca mal assortita che sembrava crescere come un fungo velenoso a ridosso della banchina. Era una notte buia, senza stelle, e soffiava un vento forte, il mare era burrascoso e di tanto in tanto onde anomale si infrangevano squassanti contro il porticciolo, facendo piovere secchiate d’acqua sul prete e i suoi accompagnatori. Venne condotto dal vecchio Tobia alla casa dei Rau e lasciato sulla porta, infreddolito e fracido. Dalla mantella colava l’acqua in una pozza ai suoi piedi. Dentro non si vedeva. La luce di una candela passò davanti alle finestre. Bussò.
Venne ad aprire il dottore, l’aria esausta, pallido come avesse visto un fantasma. Non disse nulla, gli fece solo cenno di entrare. Al vecchio prete sembrò che il dottore guardasse fuori nel buio come se fosse una fortuna trovarsi in strada con quel tempo da lupi piuttosto che in quella casa.
In un angolo c’era una donna anziana, il volto illuminato malamente da una candela. Venne avanti e poggiò la candela sul tavolo. C’erano una bottiglia di vino e un piatto con un po’ di formaggio. Don Fausto accettò solo un bicchiere di vino. Anche il medico se ne versò, sembrava roso dalla sete.
Il prete si informò sulle condizioni della piccola, il dottore fu vago, disse che doveva essere già morta e dal tono sembrava quasi augurarselo, ma misteriosamente era ancora viva, resisteva, tenace, aggrappata alla vita come una di quelle brutte piante rampicanti che sembrano crescere a dispetto di ogni avversità. Il medico buttò giù il vino tutto d’un fiato. Il prete lo sorseggiò appena. Poi annusò il formaggio, puzzava di stantio. Chiese della madre. Il dottore pensoso disse che si sarebbe ripresa, prima o poi.
Salirono le scale che portavano di sopra. Faceva freddo. La casa era buia, inospitale. Gli scalini di legno scricchiolavano sotto i loro piedi, ed era l’unico rumore che si udiva, a parte il suono del vento che sembrava avvolgere come un sudario l’edificio.
Sul letto giaceva Arsa, sfinita dal parto, gli occhi acquosi rivolti al soffitto. Dante dormicchiava su una sedia, dalle sue labbra penzolava una pipa spenta da cui ancora si alzava flebile una piccola spirale di fumo. La bambina era avvolta in un fagotto lurido accanto alla madre. Piangeva debolmente.
Don Fausto guardò gli occhi di Camelia e si fece il segno della croce. Se lo fece anche il medico involontariamente, muovendo le mani incerto.
Era venuto per battezzarla e poi darle l’estrema unzione ma alla fine non fece nulla. La bambina si stava riprendendo, sarebbe sopravvissuta alla notte e a molte cose. E non voleva essere battezzata. Appena Don Fausto si avvicinò scoppiò in un pianto orribile, sembrò che la casa stesse per essere sradicata. Ma la verità fu che il cuore del prete venne tenuto stretto da qualcosa, nella sua mente sentì una voce fetida e fredda che gli intimava di fermarsi o il cuore sarebbe stato stritolato e ridotto in una poltiglia. Don Fausto sentì venir meno la sua fede, si trovò sprofondato in un buio pozzo, isolato in un gelido cosmo abitato da creature viscide e ripugnanti. Percepì con orrore l’assenza di Dio, di qualsiasi presenza benigna. Una grande forma oscura abitava quel vuoto, l’ombra smisurata fluttuava nell’oscurità.
La bambina cessò di piangere e la presa sul cuore si allentò. Don Fausto si limitò, con la faccia bianca da paura, a farsi il segno della croce e poi guardò con cristiana pietà la madre e il padre della bambina.
Al piano di sotto il dottore cercò di parlargli ma il prete non ne aveva voglia, si sentiva vuoto, guardò le onde nere dalla finestra che sembravano vermi giganteschi di un immondo terrario e provò l’impulso di vomitare.
Più tardi sulla barca pregò ma in lui era morta ogni fede. Poi vide l’onda gigantesca che nascondeva la forma orribile e mostruosa che aveva sentito strisciare al suo fianco nel pozzo, non provò alcuna meraviglia. La barca fu inghiottita e non se ne seppe più nulla. Il dottore morì pochi giorni dopo, lo trovarono annegato in un pozzo. Così era venuta al mondo Camelia.

Camelia aveva nove anni ai tempi in cui si svolsero i fatti, la maggior parte li aveva trascorsi a letto, al secondo piano di quella casa fredda, esposta perennemente ai venti e al mare impetuoso. Mille spifferi gelidi assediavano quella catapecchia che incombeva sulle altre case. Dante e Arsa si arrabattavano come potevano per andare avanti e in genere riuscivano a nutrirsi come le altre famiglie dell’isola. Ma era una vita amara, dura, impossibile. E mentre masticavano il frugale pasto di sotto, nella semioscurità scalfita solo da qualche candela, battendo i denti per l’umidità e il gelo che entrava ovunque, sentivano la presenza di Camelia al secondo piano, il suo debole fiato, la sua paziente attesa di qualche disgrazia.
Camelia non era una bambina come le altre, era venuta al mondo di 7 mesi, sembrava destinata alla morte. Era rachitica e respirava a stento. Il medico che aveva assistito al parto l’aveva data per morta, era venuto anche un prete dalla terraferma per benedirla. Ma lei non era morta.
Nonostante l’aria malaticcia e moribonda, tirava avanti, magra, spettrale, la pelle giallognola e invecchiata precocemente. I suoi occhi erano simili a quelli di un gatto nel buio, gialli e spalancati sul nulla. Era cieca e storpia. Tuttavia sapeva parlare e voleva che gli leggessero libri. Aveva solo un amico, Gioacchino. La gente diceva che il diavolo l’aveva voluta tenere in vita, per farne una sua ancella, la volontà di Dio era che morisse prematura, che non fosse mai venuta al mondo una creatura così maligna. I bambini la detestavano e se ne tenevano lontani senza apparente motivo. Alcuni dicevano che era un mostro, altri che era inutile.

I primi anni furono un inferno in quella casa, Camelia non poteva alzarsi da letto, troppo debole, Arsa e Dante dovevano badare al sodo e non potevano tirarsi dietro una bambina cieca e storpia. Arsa doveva rammendare le reti e aiutare le altre donne nelle varie faccende per preparare la merce da scambiare con la terraferma. Dante pescava e quando non pescava stava intorno alla barca perché c’era sempre qualcosa da fare. Lavoravano con il pensiero di quella creatura inferma, sola in quella casa. Ogni tanto la bambina scoppiava a piangere e tutti si fermavano con il cuore in gola. Il pianto di Camelia era strano, faceva battere i denti, come il gemito di un gatto straziato. Ma la cosa spaventosa di quel pianto era che agiva sull’animo. Chi lo sentiva sbiancava in volto e tremava, una volta a casa spegneva i singhiozzi in un cuscino fin quasi a soffocarsi.

Gioacchino era stato soggiogato da qualche sortilegio, così pensavano tutti e gli altri bambini ne stavano alla larga perché anche lui era preda del maligno.
Era piccolo e gobbo, gli occhi guardavano sghembi un mondo incomprensibile, era idiota eppure lo temevano perché sapeva essere crudele.
Chi si assomiglia si piglia, mormorava Arsa quando lo vedeva sgattaiolare su nella stanza di Camelia. Passava con lei tutto il pomeriggio e Dio solo sa di cosa parlassero quei due.
Camelia lo trattava con disprezzo ma talvolta sapeva essere dolce con lui. Come con un cagnolino. Lo chiamava bestia e lo accarezzava sulla faccia scura.
Gioacchino non era abituato alle carezze, così Camelia era divenuta la sua dea, nessuno doveva farle del male. Un giorno però Arsa vide Gioacchino correre giù dalle scale a rotta di collo, spaventato, rischiò di rotolare e rompersi la schiena. La donna provò a chiamarlo ma il bambino era scomparso. Salì le scale e trovò Camelia ritta sul letto, gli occhi bianchi che scrutavano nelle tenebre, tra le mani aveva una statuetta di argilla, un mostriciattolo che la bambina aveva modellato per ore nel silenzio. Arsa ne fu disgustata, lo prese dalle mani di Camelia e lo lanciò dalla finestra. La statuetta venne inghiottita dalle acque del porticciolo. La bambina non fiatò, tuttavia Arsa sentì il suo odio smisurato e ne ebbe paura. Tornò di sotto tremante. Solo l’acquavite le scaldò un po’ il cuore.
Gioacchino fu ritrovato dopo giorni, il piccolo cadavere giaceva riverso su uno scoglio dall’altra parte dell’isola, i gabbiani gli avevano mangiato gli occhi. Nessuno lo disse esplicitamente ma tutti incolparono Camelia.

Quel giorno Gioacchino si trascinò verso la casa dei Rau con una strana ansia. Era agitato come un cane che sente tornare il padrone. I bambini vedendolo passare lo schernirono. Uno dei più grandi gli sputò addosso. Sapevano che andava dalla piccola strega.
In casa c’era Arsa, stava preparando la cena seduta in un canto al buio, puliva delle sarde. Il puzzo del pesce impregnava la stanza. Le finestre erano chiuse per impedire ai curiosi di sbirciare dentro. La bambina era stata vista da pochi sull’isola e per poco tempo. Solo Gioacchino aveva il privilegio. Dalle visite a Camelia non traeva alcun beneficio. Tornava a casa cupo, avvolto da un’incomprensibile malinconia.
Non chiese il permesso di salire. E Arsa non si curò di lui. Prese una candela dal tavolo e cominciò a salire gli scalini di legno. Ogni volta cercava di farlo silenziosamente per cogliere di sorpresa Camelia ma non riusciva perché la bambina aveva un udito finissimo, coglieva ogni più piccolo scricchiolio. I suoi sensi raffinati riuscivano a percepire le minime variazioni nell’aria. Come il soffio prodotto dal respiro di un’altra persona o un nuovo odore che si mescolava agli altri. La stanza era sempre immersa nell’oscurità, perché Camelia era cieca. Così le imposte erano serrate e la stanza puzzava di muffa. La candela illuminava ben poco. Il buio sembrava opporre resistenza. Gioacchino scorgeva a malapena la sagoma di Camelia al centro del suo fetido letto. Lo fissava con quegli occhi gialli da gatto. E sembrava sogghignare. Il bambino avanzò tremando.
Lei lo invitò a sedergli affianco. Senza vederlo, sembrava vederlo. Nel grembo aveva qualcosa di sudicio coperto da uno straccio marrone. Lei gli chiese se voleva vedere. Gioacchino annuì silenzioso. Camelia, la bocca aperta in un’espressione idiota, gettò via il panno e scoprì una piccola statuetta di creta. Era uno strano animale, mai visto prima. Ma Gioacchino ne sapeva poco di animali. Una volta il nonno gli aveva fatto vedere una scimmia disegnata. L’aveva vista in un circo. Quel mostro era una specie di scimmia, che aveva zampe molto lunghe e artigli terribili. La scimmia aveva una piccola testa orlata di denti lunghi a sciabola e aveva due cavità profonde e nere al posto degli occhi. Aveva anche strani tentacoli sulla schiena. Camelia con quella voce strana che ogni tanto faceva gli disse che quello era un guardiano del buio e vigilava lungo i confini dell’altrove, affinché nessuna minaccia passasse indenne il confine. Il bambino fissò il mostriciattolo e quando vide i tentacoli muoversi cercò di fuggire. Camelia lo trattenne con ferocia e gli fece vedere bene il mostro promettendogli che gli avrebbe fatto visita una notte, poi rise.
Gli disse che era un idiota e che perdeva solo tempo con lui, un vigliacco che aveva paura di tutto e che tutti nel paese deridevano di nascosto, chiamandolo scemo. Gioacchino ci rimase male e fuggì via.
Nessuno sa che cosa gli accadde. Vagò per due giorni nell’isola, ignorando le voci che lo chiamavano. Un paio di uomini lo cercarono palmo a palmo, Gioacchino però si nascondeva sotto le pietre, tra il fogliame e non respirava nemmeno. Nella testa aveva solo le parole di Camelia, la sua voce maligna che gli diceva che era un idiota, un povero idiota, e che era meglio per tutti che si buttasse giù da una scogliera. Così fece. Si affacciò dal punto più alto dell’isola e guardò giù in fondo, gli scogli acuminati lambiti dal mare nero di collera. Camelia era lì con lui, gli sussurrava parole dolci e poi cattiverie, finché non lo spinse giù ridendo. Fece un volo di venti metri prima di sfracellarsi su uno scoglio affiorante. Un povero corpo disarticolato. Il volto gli fu cancellato dai duri rilievi della pietra nera. E il mare lavò via il sangue richiamando frotte di orribili pesci a divorargli i piedi che affondavano nel mare ribollente di schiuma. Rimase lì, sopra lo scoglio, preda dei gabbiani e di altri miserabili becchini.

La gente cominciò a sputare per terra quando vedevano i Rau, e qui al villaggio, quando mettevano piede per le provviste, gli empori venivano sbarrati e le imposte chiuse, sbattute in segno di spregio.
Qualche settimana dopo la morte di Gioacchino venne trovato uno strano pesce nelle reti, aveva un brutto muso e occhi bianchi da squalo, tentacoli si agitavano sotto la pancia dalla consistenza gelatinosa, aveva un’enorme bocca spalancata su una serie di denti aguzzi. I pescatori lo uccisero, resi furibondi dallo schifo, e il pesce urlò come un cristiano, le sue grida le udirono anche dall’altra parte del mare sulla costa. Camelia disse che avevano ucciso Gioacchino una seconda volta. Nessuno dimenticò quelle parole che erano state riportate da una delle poche donne che andava a casa dei Rau.
I mesi che seguirono a quei fatti furono tremendi, il mare divenne avaro, non si pescava più nulla e i giorni di tempesta erano di gran lunga superiori ai giorni di calma.
Sull’isola si cominciò a morire di fame. Ci si guardava in cagnesco, scoppiavano liti per nulla e le persone diventavano meschine e avide. Le donne anziane pensarono a una maledizione. Fissavano cupi la casa dei Rau, non si vedeva uscire più nessuno da giorni e giorni. I più, quasi con sollievo, pensavano che fossero tutti morti, compresa Camelia. Ma i più anziani e saggi sentivano ancora la sua presenza in quella casa e sull’isola.
Fu una di queste anziane a suggerire di fare qualcosa, per liberare l’isola dal maligno. Disse che era necessario anche se terribile. Tutti la guardarono sbigottiti, alcuni dissero che era un sacrilegio, un abominio, ma la fame alla fine prevalse sulla pietà e altri sentimenti umani. Tre uomini andarono alla casa dei Rau armati di bastoni.
Trovarono una casa immersa nel silenzio. Dante e Arsa erano figure talmente magre e sottili che potevano essere scambiate per ragnatele. Erano seduti al tavolo al centro della stanza e consumavano un brodo di pesce freddo in silenzio. Non li videro salire. Forse andò davvero così.
La stanza di Camelia era immersa nella consueta oscurità, ma i tre uomini la potevano sentire respirare, un suono basso e cupo. Il suo letto era stato messo vicino alla finestra e puzzava di escrementi e di urina stantia. La bambina era sveglia, i suoi occhi privi di luce, eppure sfavillanti, indagavano l’oscurità davanti a sé.
Disse agli uomini di avvicinarsi. Non temeva alcun male da loro e dai loro bastoni. Allora i tre si spaventarono. E fatto il segno della croce cominciarono a massacrarla di bastonate. Il sangue di Camelia imbrattò i loro visi e i loro abiti. Le loro povere scarpe ne furono inzuppate. Un sangue denso e scuro, maleodorante come la loro fede.
Quando scesero di sotto trovarono Dante e Arsa ad aspettarli, erano lividi in volto. Arsa chiese loro cosa avevano fatto, pur vedendo che erano coperti di sangue, e che Camelia aveva gridato con quanto fiato aveva mentre la bastonavano. Non fecero nulla, muti e disgraziati si rimisero al tavolo a mangiare la loro misera cena.
I tre assassini uscirono mesti dalla casa. Andarono alle loro case per pulirsi del sangue dannato di Camelia. La notte tornarono e bruciarono la casa dei Rau. Stettero in piedi davanti alle fiamme che avvampava i loro volti estatici a sentire le urla di Arsa e Dante che bruciavano vivi. L’odore della carne bruciata, affamati com’erano, fece venire loro l’acquolina in bocca. Deglutirono a malincuore. Un ricco pasto fumato via.
Seppellirono tutto nel loro cuore l’indomani, anche gli ultimi blasfemi pensieri li riversarono sull’anima nera di Camelia.

Nonna si fermò per riattizzare il fuoco che si stava spegnendo, dalla stanza di sopra si udiva il flebile lamento di Tonino che moriva spegnendosi come una candela. Noi eravamo strette sotto un plaid che puzzava di cane. Il fuoco fu ravvivato, vidi gli occhi di nonna scintillare nel buio. Debolmente gli chiesi di continuare. Perché sapevo che quella brutta storia non era ancora finita.

Quando pensavano che tutto fosse finito accadde qualcosa. L’anziana che aveva ordinato il massacro disse che aveva visto Camelia in sogno, sarebbe tornata per vendicarsi, li avrebbe uccisi tutti. Qualche giorno dopo la trovarono a letto con la gola tagliata. E gli altri fecero un’orrenda fine, uno dopo l’altro.”

L’anziana del villaggio si chiamava Tura, era vedova. Due figli avevano le loro famiglie nel villaggio, altri erano morti in mare. Molti erano morti subito dopo il parto, altri ancora erano sul continente e di loro non aveva saputo più nulla; a parte una figlia che faceva la prostituta in una città e che ogni tanto le mandava cartoline profumate.

In tutto aveva figliato due volte sette volte. Viveva con una piccola donna che la aiutava, Pinilla, più giovane di lei di vent’anni. Un giorno di tanti anni fa, quando ancora piaceva agli uomini, Tura aveva invitato a stare con lei questa giovane orfana, piccola ma graziosa, con un seno florido che faceva gola ai maschi del paese. Parlava appena. Qualche voce si diffuse ma fu messa a tacere.
I rapporti saffici erano frequenti ma venivano consumati di nascosto, la notte. Nel silenzio alti si levavano solo i sospiri degli amplessi. Le due donne, spenta la passione, restarono insieme. Pinilla chiamava Tura madre e Tura la trattava come una figlia. Negli ultimi anni Pinilla aveva occupato un’altra stanza della casa, lasciando l’anziana da sola nella sua camera da letto, ricolma di cimeli del passato.
Quando Camelia tornò, Pinilla dormiva stordita dal vino che segretamente beveva. Beveva molto e Tura se n’era accorta, il fiato la tradiva e gli occhi erano opachi, sbiaditi. Aveva perso tutta la sua grazia.
Tura era sveglia nel letto, al buio, gli occhi fissi sulla porta socchiusa. Ascoltava la casa silenziosa, il respiro basso di Pinilla e il rumore delle onde che si frangevano contro la banchina. Aspettava Camelia. Quando vide la porta aprirsi piano piano non fu sorpresa. Rassegnata al suo destino la guardò. Zoppicava trascinandosi la gamba fessa, i suoi occhi gialli la fissavano, orribili. Il volto era tumefatto dalle bastonate che aveva preso. E aveva segni di bruciature su tutto il corpo. Tura le parlò, pronunciò parole che aveva sentito in qualche messa: non praevalebunt. Camelia aprì la bocca e sorrise, un sorriso malato che spaventò Tura. Chiamò Pinilla inutilmente mentre la vescica le si allentava e un rivolo di orina bagnò le sue lenzuola. Camelia disse qualcosa con la sua vocina pigolante. Parole che Tura non riuscì a cogliere. Le addentò la gola e poi strappò via la carne. Un fiotto di sangue scuro inondò il letto. La bambina guardò morire Tura con i suoi occhi da cieca. Si spense lentamente con lo scorrere del sangue dal suo corpo.

Al mattino Pinilla diede l’allarme. Le donne del villaggio incolparono la donna, le dissero che era una schifosa.
I gendarmi vennero a prenderla e la portarono sul continente, non si seppe più nulla di lei.
Il giorno appresso toccò ad Armando, il maggiore dei figli di Tura. L’altro, Giobbe, non ebbe alcun ruolo nella mattanza e fu così risparmiato. Gli altri due, Camillo e Alberto morirono qualche giorno dopo Armando.

La casa di Armando era l’ultima del paese, una casa stretta disposta su tre piani. I piani erano collegati con delle ripide scalette di legno. Armando dormiva con la moglie e le due figlie all’ultimo piano. La sorella della moglie dormiva al secondo piano assieme al figlio. Il marito era in continente da mesi in cerca di lavoro.
A notte fonda Armando scendeva di sotto e si infilava nel letto della cognata. La trovava sempre calda e accogliente. Facevano l’amore accanto al figlioletto che dormiva. Lui le tappava la bocca per impedirle che mugolasse forte e svegliasse tutti.
Quella notte, dopo l’amore, ancora nudo scese di sotto per bere del vino. Fuori era buio pesto. Accese il fuoco e si coprì con una coperta mentre beveva. Le fiamme indurivano il suo volto scuro. Sentì una presenza alle spalle. Un alito gelido gli sfiorò il collo nudo. Pensò che fosse Sara, la sorella della moglie, si girò per invitarla a infilarsi sotto la coperta con lui davanti al fuoco. Ma non vide nulla. Pensò a un gioco dei nervi. Era ancora scosso per la morte tragica della madre. Non aveva mai approvato la scelta di portarsi quella donna in casa. Un’indecenza che aveva pagato a caro prezzo. Non aveva dato alcun peso a quello che aveva detto Tura a proposito del ritorno di Camelia. Sua madre era sempre stata superstiziosa, si sentiva in colpa per averli spinti a uccidere quella piccola storpia. Lui non provava nessun rimorso. Andava fatto e basta. Era stato meglio così per tutti.
Si girò di nuovo, questa volta per un rumore furtivo. Nell’angolo remoto della stanza si muoveva qualcuno, molto lentamente, al buio. Impossibile vedere chi fosse. Tuttavia era strano perché la scala era sul lato opposto. Non poteva essere Sara. Quella cosa avanzò e la luce tremolante del fuoco a poco a poco la rese più distinta ai suoi occhi. Fu la voce però a gelargli il sangue. Quella voce così sgraziata. Inconfondibile. La bambina cieca, la figlia di Satana era tornata per lui. Lo chiamava nel buio e gli diceva che aveva tanta voglia di vederlo e di toccarlo. Camelia era lì con lui a pochi passi, e continuava ad avanzare. Non sapeva cosa fare. Restò immobile a guardare quella bambina sfigurata dalle fiamme che tornava dall’aldilà. Aveva paura. Più di quella volta che si era trovato in mare tra onde alte dieci metri e nella parte più oscura dell’onda aveva visto una creatura la cui esistenza era impossibile.
Non fece in tempo nemmeno a implorare perdono. La mano di Camelia si mosse fulminea tagliando con un rasoio la sua faccia e poi il suo collo. Il sangue inzuppò la coperta e i piedi di Armando furono sommersi. Morì soffrendo, la faccia incollata al pavimento con il sangue che lo soffocava e gli impastava la bocca. Vide Camelia allontanarsi zoppicando e ridendo piano, come una bambina che ha appena fatto una marachella.

La gente disse che si era ammazzato con il suo rasoio, divorato dal rimorso. Fu seppellito dietro la sua casa, senza onori.
Non si seppe molto sulla fine di Camillo, fu ritrovato annegato nel porticciolo, il piede si era incastrato in una roccia. Alcuni testimoni dissero che era ubriaco, la morte di Armando l’aveva sconvolto ed era stato in continente a fare il giro delle locande. Tornato sull’isola era scivolato dalla banchina e non era più emerso, era troppo buio e i suoi compagni di bisboccia se ne erano andati a casa pensando a uno scherzo.
Il terzo, Alberto, morì in mare divorato da un pescecane.”

La barca filava veloce sul mare, Alberto guardava l’acqua scura, pensieroso. L’alba era ancora lontana. E il vino in corpo da un pezzo. Gli occhi languidi fissavano la schiuma bianca che interrompeva la massa scura pesante del mare. Le onde erano lunghe e cullavano la barca dolcemente. Talvolta la testa di Alberto veniva spinta verso l’abisso, poi tornava su. Il corpo di Camillo era stato ritrovato il giorno prima. Gli avevano consigliato di stare a casa, barricarsi dentro con la moglie e i figli. Ma non aveva retto all’ansia. Era fuggito di nascosto e aveva preso il largo da solo, in compagnia solo di qualche bottiglia di vino.
Il vento si fermò e la barca rallentò fino a fermarsi in balia del moto ondoso. Una bonaccia improvvisa e inspiegabile. Alberto guardò la notte cupa, senza stelle, l’isola era lontana, si scorgevano a malapena le luci del piccolo porto. Il continente ancora più lontano. Era in mare aperto, preda delle correnti. Decise di bere ancora del vino per mandare via il cattivo sapore di sarde.
Mentre tracannava dalla bottiglia sentì un rumore a prua, qualcosa aveva urtato la barca. Cercò di ricordarsi se c’erano secche da quelle parti ma non gli era mai sembrato, e conosceva quel tratto di mare palmo a palmo. Mandò giù un altro sorso di vino e poi gli venne da vomitare, si sporse oltre il bordo della barca ma non vomitò, restò incantato a vedere il buio profondo dell’abisso. Finché non vide il volto di Camelia deformato dalle fiamme, emergere dal fondo del mare e farsi sempre più vicino. Aveva gli occhi chiusi, sembrava morta, i pesci l’avevano divorata e brandelli di carne si agitavano ai lati del volto pallido. Un verme dai millepiedi sbucò da un occhio della bambina. Restò impietrito a guardare finché le mani piccole di Camelia non sbucarono dall’acqua e lo afferrarono per la testa spingendolo verso il fondo. Fu trascinato in mare senza che potesse opporre resistenza. Raggiunse presto il fondo roccioso intrappolato dalle mani adunche di Camelia che lo fissava ora con i suoi occhi spolpati dai pesci. Attorno vide terrificanti creature. Pesci tentacolari, enormi ammassi di globi lucidi e viscidi, serpenti con bocche piene di denti aguzzi e altri orrori che non potevano essere reali. Nel fondo della sua buia coscienza Alberto pensò a un incubo dovuto al troppo vino. Poi sentì affondare i denti di Camelia nel suo ventre, vide con troppa lucidità le interiora che uscivano in una nube di sangue e il dolore accecante che ne seguì. Presto fu intorpidito e perse conoscenza ma troppo lentamente per non soffrire fino all’ultimo istante il più terribile degli inferni.

Tutte le indagini archiviarono le morti di Alberto e Camillo come accidentali, quella di Armando come suicidio. E così venne messa una pietra tombale sulla storia.

Nonna si azzittì, il fuoco aveva esalato l’ultimo sbuffo di fumo. Il gelo ci avvolse facendoci tremare.
Disse che Antonino sarebbe morto tra poche ore e che non potevano farci nulla. I miei fratelli si misero a piangere. Io invece chiesi a nonna se era davvero tutto finito così.
Nonna mi squadrò con i suoi occhi gelidi.

Molti lo pensarono ma si ingannarono. Ci furono tanti lutti, tempeste misteriose arrivavano improvvise e facevano annegare i pescatori, molti scomparivano senza lasciare traccia. Finché l’isola non fu abbandonata.
Da allora pochi si avvicinano, e quando scorgono la figura di Camelia che talvolta appare sulla spiaggia dove una volta sorgeva la sua casa, si fanno il segno della croce e proseguono ignorando la creatura che appare sotto le onde e che li segue silenziosa e letale.