Coltrane Ole Inevitabile

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C’è il fango e l’acqua, le lame. E la fuga. C’è un uomo alle mie spalle, sulle mie tracce: nella mano destra un’arma ricurva, nell’altra un corno o un fischietto, un clarino da tasca. Il suo suono soffiato rimbomba nel bosco. Così lui mi ricorda ogni volta che c’è, è là a qualche passo, sulle mie tracce – mi sta osservando ora? Io lo sento. Il clarino rimbomba soffiato sempre due volte, allo scoccare e al calare del giorno. Lui c’è.
Sono le viscere che vuole strapparmi, i testicoli che mi vuole estrarre dalla gola – è la promessa che una volta mi ha fatto, o è il soffiare del suo clarino tascabile ad averla fatta. E i liquidi dentro bollono a danza: il sangue, i muchi e le altre secrezioni – la paura fottuta. Certi organi già li sento scoppiare, inondando fuori di siero rosso. Comincerà dalla milza che è solo bile, o da uno dei reni. O dai polmoni, uno alla volta. Comincerà dall’intestino, lo sento. È il clarino a dirlo: la paura, la merda.

L’ho visto fendere la lama sotto gli occhi della luna scoperta, nella notte del bosco: la luce riflessa dell’arma mi ha sfiorato la gola. Era a un passo da me e s’è allontanato, mi ha abbandonato alla speranza. Mi figuro il momento supremo – non sono pronto, affogherò nel mio siero scrosciante. Corro imboscato, la schiena bassa a fior di rovo. Lo temo – la paura fottuta – e le budella riprendono a suonare, a strapparsi come in attesa del momento. Mi fermo tra un fosso e un albero, accovacciato: non mangio da due lune, non ho niente da dare alla terra, eppure il retto mi spinge. Caccio solo due gocce di sangue chiaro acquarello.
Il giorno sta per scoccare, presagisco il clarino acuto e l’arma che va con quello – la lama a luna calante, l’ho vista di striscio a un passo riflettersi sulla mia gola. Devo fermarmi e riposare, non sono pronto, da tre lune non dormo. C’è un freddo mite, acquoso; c’è un albero pieno di rami e di fronde verdi. Salgo per la corteccia e mi stendo, imboscato, per riposare. Tremo e penso, mentre le palpebre sbattono a cazzo duro – la stanchezza più esausta è dura come la morte, i muscoli tesi senz’acqua, gli organi secchi svuotati dopo lo scroscio violento del siero. Un uomo enorme mi bracca: vedo un suo gomito strappare la mandibola nella mia bocca per avere molari nei globi degli occhi. Un uomo agile: l’ho intravisto di lato correre e saltare come un gorilla; suonare il corno da tasca come un virtuoso; fendere nel buio la lama a luna calante come un figlio della notte.

Ho dormito fino quasi allo scoccare della luna. Piove e il fango viene via dalle mani e dai piedi. Il fango vischioso è più secco del siero rosso, è siero morto. E l’acqua ravviva le larve per terra: mangio, vermi e fogliame, radici e conigli crudi quando li trovo. Il fuoco è per chi siede al riparo, per chi teme il freddo più dello sventramento. Solo dopo averlo affrontato potrò mangiare cadaveri secchi, rigirati per bene lungo l’asse di ferro e sulla fiamma. Penso il momento in cui sarò al riparo e mi ciberò della morte altrui.
Poi il suono. Il corno lontano riduce distanze, le onde lanciate per lo spazio. Le onde che entrano i timpani sono lame, i timpani tamburi scoppiati. E di nuovo è la fuga, il fango secco lavato via dalla pioggia, e le lame. Il sangue che vuole esplodere e disseccare torna a battere a precipizio, inondando le periferie, e ogni estremità si fa centro. Corro. E penso: se avessi la materia grigia nei piedi o in altra estremità sarei più al riparo? Sono le trippe, le viscere che mi vuole sgozzare, lo sento.
Anch’io ho le mie lame. Correndo una mano carezza il contorno di un coltellaccio per scuoiare, richiuso a molla nella tasca. Lo uso per i conigli e le unghie. Lo userò per lui quando sarò pronto, semmai le mie trippe non saranno ancora scoppiate.
Ho le mie lame – e le cosce forti. Se scattassi di nascosto, con un salto da un buco o una nicchia, potrei colpirlo di taglio alla gola. L’idea del siero colante mi fa sboccare impedendo la corsa – ho freddo e nemmeno il tempo di vomitare. Ma è l’idea che sarà solo il mio sangue a colare a farmi correre avanti. Devo affrontarlo in un luogo stretto, sfruttare la sua mole al contrario. In un mulino o in una delle torri che ogni tanto appaiono nel bosco, potrei nascondermi nell’incavo tra due pietre massicce, in alto sopra gli stipiti di una porta, attirarlo dentro con l’inganno di un rumore accidentale – un grido, la gravità di un oggetto. Se non trovassi altri oggetti potrei lasciar cadere dall’alto, nella torre o in un mulino, la mia lama per scuoiare. Il metallo inganna col rumore. Poi non mi resterebbe che la gola – la sua – e le mani. Ma il suo collo, e le mie mani… Devo trovare un oggetto per terra, un guscio, una pietra appuntita o finanche levigata. Il coltello a molla tra le mani, potrei venirgli addosso da dietro, il braccio destro stretto intorno al collo – il gomito non è muscolo, o tiene o si spezza. A quel punto potrei scegliere. Se il fiotto a cascata dalla gola mi fa sboccare, potrei forse prendere le tempie e la materia grigia, quella zuppetta di agenti fosforizzati. Avrò tempo per non più di tre colpi prima che la tensione di certe fasce di muscoli degli arti e del tronco di lui non mi schiaccino il cranio su una delle sporgenze pietrose. Se potessi vendicare la paura, colpirei appena sotto l’ombelico, per mischiare la merda col siero, ma non è detto che ne abbia il tempo. Potrei attardami sul colon dopo averlo finito alla gola o al cervello con tre colpi, fino alla secchezza. Potrei lasciare il mulino appena prima della putrefazione e poi – poi piove ghiaia e polvere pietrosa dall’alto di uno scoglio alto di roccia. Corro e non penso. Una scheggia di legno o di roccia mi fende lo stomaco. Mi accovaccio a scudo correndo. Una pietra più grossa mi stecca tra l’appendice e lo scroto, sulla via del canale del seme. È lui.
Basso sulle gambe, correndo a testuggine, intravedo la sua sagoma mentre saltando discende la rocca. Appare e si dissolve nel fitto del bosco. C’è il sole e non basta a vedere. Sibila, fende, è vicino. Mi infilo in un fitto di alberi, sento i suoi piedi pesanti smuovere il fango, le mie viscere rispondono più forte – il ricordo di conigli crudi quando ne trovo. Mi stripperà.
È dietro di me, la sua lama a luna calante smuove l’aria acquosa. È di fianco, rallenta. Grido per liberare: la voce sciolta rinforza le fibre, la paura stessa rimpolpa la forza. Corro per le file storte di alberi e lui in parallelo sul binario. La paura mi fa voltare – non dovrei, è il richiamo a calamita della morte – lo vedo a un palmo sudare di fianco, lo guardo negli occhi. Non posso nemmeno gridare. Lui comincia una danza diversa: con la lama mi sfiora sul lato, poi si fa indietro e minaccia i talloni, i polpacci. Torna di lato e davanti, mi circuisce – sono un uomo ambito: è la sfida, lo scontro. E il cerchio: sono il centro, non c’è scampo. Corriamo per secoli, il cuore allo spasimo, le trippe gelate e bollenti. Sostienimi ancora, non scoppiare ora. Corro mentre piango, il mio cuore invincibile. Gettandomi avanti coi reni crollo, i denti nel fango. È il siero secco che devo assaggiare. Mi volto: lui è scomparso, se n’è andato, il clarino sempre più distante mentre scocca la luna del bosco.

Inevitabile

Illustrazione di Andrea Moriello

Ho dormito ancora. Questo corpo ha la forza di disobbedire alla paura, mi sorprende. Cos’è il sonno altrimenti? Le palpebre incollate si aprono ai primi chiarori del giorno, girano tutto intorno allo spiazzo erboso dove mi trovo disteso, orizzonte largo senz’alberi dietro e davanti. Il sonno è quella disobbedienza, quel viaggio a ritroso fino allo stadio più piccolo, alla pozza di elementi che hanno fatto, una volta, la vita – sono un uomo appena nato, ora disteso in uno spiazzo verde. Le luci del giorno, lo spazio aperto – mi ha portato in un luogo dove la sua mole non lascia scampo, la sua tana. Il corno suonerà. Non c’è una torre, un albero, un arbusto. Tutto vuoto e aperto davanti, senza uscita. Il siero liquido – non ancora fango – riprende a impazzare, la paura fottuta. Non ho scelta né alternativa né strategia. Mi stripperà. Non mi alzo, non resto seduto, non so cosa sto facendo. Come in sonno, il corpo riprende la disobbedienza: è la paura, ora; era il viaggio a ritroso prima, dietro al punto in cui tornerò non appena lui arriverà in questo spiazzo dove mi ha lasciato: la pozza fangosa, la secchezza tesa come la morte. Dietro, distanti, ricordo gli alberi che ho oltrepassato di notte – niente, non c’è buco, covo, appiglio. Se dormissi scaverei un fosso della mia taglia con un unico colpo di vanga, e un soffice manto verdastro lo ricoprirebbe del tutto. Lo sentirei passare correndo in superficie, il battere dei piedi appena sopra la mia testa al sicuro nel fosso. La corteccia della materia grigia sbatte a vampate e i suoi emissari impazzano avanti e indietro. Le mie trippe pensano, sono immobile. Poi qualcosa come un’onda mi trapassa per intero – un pensiero, il pensiero che non c’è colpa né causa, solo lo scontro. Che lui insegue me come inseguirà chiunque altro; lo spazio aperto è la sua tana. Un’onda calda mi attraversa nel bosco, mi metto in piedi riunificato: uno scopo, lo scontro. Devo affrontare l’inevitabile. Dalla materia grigia – la nebulosa elettrica – ogni agente s’inchina e risponde al comando. È come la nascita della coscienza, qualcosa – il clarino. Ora suona, rimbomba: sta venendo, è il momento. Mi spezzo di nuovo, le trippe per prime prendono il largo.

Viene e già non c’è tempo. Il pensiero è dei morti e dei sedentari. La paura un ricordo, il ricordo viaggio a ritroso, sonno. Tutto è momento: la pietra per terra che raccolgo nella mia sinistra, nella destra la lama per scuoiare; il suo fare circoli intorno a me, riducendo il mio spazio come in una spirale; la sua mole – un sacco di cuoio gli sbatte sonoro sulla schiena senza impacciarlo; i suoi capelli neri impolpati d’acqua del bosco mentre mi circuisce. Fende nell’aria la lama a luna calante e riduce lo spazio, mentre io mi muovo su un lato e sull’altro per sconvolgere le simmetrie. Mi studia e non attacca, mi attende. Devo scoprirmi: il primo ad attaccare è il primo a smuovere un poco il caso, e io non ho scelta. In questo gioco lui muove le mie mosse – lui può aspettare e incassare e infine strippare. Raccolgo le truppe nella sinistra e muovendomi a scatto di lato lancio la pietra. La sua fronte si scheggia e sanguina – anche lui è fatto di siero scrociante. La vista impazza, insieme con la milza e il colon minacciati. Mi butto in avanti con le cosce potenti e salto – il mio coltello a molla gli sfiora il torace, sento lo strappo e lo schizzo leggero e non mi fermo. Tornato sui piedi mi lancio di nuovo in avanti, sul collo, e il mio braccio si tende infinito e – l’impatto. Le sue dita grosse sull’avambraccio, l’arto impedito nel movimento. Lui fende la lama a luna calante e sento lo squarcio. Il primo squarcio, alla clavicola. E il deltoide, questo trapezio oblungo si apre. Il primo fiotto. Pezzi d’osso spuntano fuori a tronco. Non è il dolore ma il suono dello scroscio, questa liquida vita che mi abbandona. Una nausea nuova mi prende, imbattibile. Mi libero con un calcio e sono di nuovo nel mezzo, roteando la lama con la sinistra, la destra disarticolata. Gridando – o pensando – mi affaccio di nuovo appena sotto la sua gola. Devo colpire ora, ristabilire la simmetria, la sfida. Lo scontro è l’unica cosa. Lui salta all’indietro – dal sacco di cuoio risuonano onde vitree, fredde – e la mia lama diritta sfregia il torace, dove il cuore ma non abbastanza profondo. Ride mentre io ricado supino all’indietro. Penso, per un attimo, e lì muoio – il pensiero cosciente che ingorga i canali del movimento – penso alla mossa successiva, al fallimento della precedente. E mentre ingolfo il movimento con la coscienza infelice, la schiena sul suolo del bosco, lui mi è addosso. Le rotule pietrose sugli inguini, le mani sui polsi. Penso di volare mentre mi getta più avanti e la schiena scrocchia all’impatto con la terra. Vedo la lama a un palmo, la sento iniziare il lavoro di strappo.

Le trippe per ultime, gli inguini invece per primi – il canaletto del seme si straccia e dove incontra la vescica viene allo scoperto. All’aria, lo spazio aperto. La testa reclinata, non vedo i miei organi esultare fuori nel letto di siero scrosciante, vedo solo lui chino sul mio addome: mentre metodico si adopera con le lame, il sacco di cuoio riposto di lato tintinna di vetri scossi, un rumore più freddo ancora dello strappo. Immagino i miei organi, li localizzo per mezzo degli agenti fosforizzati. È il traffico ora, l’ingorgo di segni. È il dolore che grida, ma non lo sento – vedo la vista annebbiarsi, infittirsi di grigi e bianchi sporchi – di vetri – e il naso riempirsi di odori freddi, acuti, odori per lo stomaco. Penso di gridare eppure ogni sforzo si tiene nella camera grigia. Quando sento – localizzo – le viscere aprirsi al sole calante del bosco, la paura fottuta scompare. Mentre la vista si sfoca e ancora ingrigisce – vedo l’intestino crasso denso e levigato, sollevato in alto dalle mani di lui, dello stesso colore del cielo aperto – penso di gridare e lottare come mai prima. Sono immobile, morto, e non temo niente. Il coltello sguazza nel buco del mio addome aperto per cacciare le trippe più lunghe, e io lo sento. Sento gli strati, l’epidermide scuoiata cambiare colore al contatto atmosferico, sento lo scatto della lama al passare attraverso gli strati adiposi e i muscoli. E mi dimeno – non mi muovo ma penso, mi ribello, è il concerto della materia grigia, della nebulosa e dei suoi agenti, e il dolore è niente, è il vociare del pubblico all’assolo della lama a luna calante. Il pubblico è niente, come il dolore – lo spiazzo è vuoto. Vedo nei toni sempre più antraciti l’intestino tenue alzato contro il cielo del bosco, ed è il trionfo.

Disseccato, aperto come il fango vischioso, i miei occhi non servono più, non si aprono. Sento odori di laboratorio, acidi, idrossidi. Immagino: quell’uomo di fianco – sento ancora di lato e di sopra l’odore del bosco – cacciare fuori gli strumenti dal sacco di cuoio, ripulire ogni pezzo e riporlo in vaschette di vetro. Vedo i pezzi limpidi, tagliati con cura, simmetrici, disposti nel liquido brillare per sempre. Gli organi farsi pallidi e vitrei. Quell’uomo dispone ogni cosa con cura: la nocciola dello scroto in una boccia più piccola, fegato e stomaco insieme come germani, e infine le trippe – le chiatte e le lunghe – in due vasi diversi, i più grandi. Sono il suo dovere, il suo trionfo. Mentre la camera della materia grigia pare chiudersi e spegnersi penso a quell’uomo di fianco, virtuoso dello scontro e inevitabile – ora che hai vinto il mio corpo, combatti con un altro.

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L’inevitabile è apparso su Ô Metis IV, Forme brevi