Maria di Ísili di Cristian Mannu (Giunti, 2016)  comincia, in esergo, con un’invocazione alla Musa: la gonna di Jenny del Suonatore Jones di De André. È un’indicazione forte della direzione del romanzo – è anche, per lo stesso motivo, un potente strumento comparativo.
Non al denaro, non all’amore né al cielo è un album in cui il carattere struggente dei temi narrati si bilancia con delle soluzioni musicali di ampio respiro – si viaggia nel tempo: dai riferimenti settecenteschi e “classici” agli intermezzi psichedelici. La ripresa elettrica del tema del primo movimento dell’Inverno di Vivaldi, nel centro sputato di Un ottico, rappresenta forse l’esempio più chiaro della varietà di mezzi con cui De André (e Piovani, forse soprattutto quest’ultimo) sfumano i temi del disco – temi portanti anche in Maria di Ísili: passione, libertà, trasgressione, rimpianto, amore, radici, violenza, tradimento, morte, perdono.
Il pathos infatti, mentre gonfia il petto dei personaggi e ne fa da motore, rischia anche di renderli piatti – benché gonfi – prevedibili, privi di sfumature. Per sfuggire alla trappola del pathos, De André e Piovani giocano a allargare gli orizzonti e i riferimenti, a cambiare ritmo: così, la seconda ripresa di Vivaldi, nella chiusa di Un malato di cuore, è una sorta di digressione.
È riuscito Cristian Mannu a sfuggire a questa trappola?

Maria di Ísili, romanzo vincitore della ventottesima edizione del Premio Calvino, è un libro corale. Nello spazio di quattro generazioni, ognuno dei personaggi della vicenda ne racconta la propria versione, in prima persona. La moltiplicazione dei punti di vista permette alla storia di aprirsi, di arrichirsi di dettagli e sottotrame con discrezione, di cambiare ritmo e registro a seconda del narratore: si passa dall’oralità dialettale di Salvatorica Carboni, levatrice del paese, al registro più contenuto e solenne della lettera di Evelina, passando per la poesia. Questo passamano di voci, inoltre, contribuisce a distorcere la realtà, a dargli un carattere come fiabesco.
Qui è forse uno degli aspetti più interessanti del romanzo: l’aver quasi trasformato in fiaba una vicenda di rovina, miseria e sofferenza. La chiave, in questa trasformazione, è la Sardegna: come pochi luoghi d’Italia (la Sicilia, la città-stato di Napoli e poco altro) quest’isola suscita nei propri abitanti attaccamento viscerale, nostalgia patologica, speranza di rivalsa e di rinascita. Questo amore radicale per la terra, insieme ai panorami arrocati di Is Barrocus, ai nuraghi di Ísili, ai suoni esotici e antichi del sardo e dell’arbaresca, lingua dei ramai, danno alla storia un’aria da notte dei tempi – aria che Mannu intercetta e restituisce al lettore con abilità oltre che con trasporto.

Il tono fiabesco, smorzando i tratti più macabri della vicenda, la sublima; così facendo, però, finisce anche per darle un colore fin troppo rosa: in questo senso, il finale di Maria di Ísili ha il sapore de La meglio gioventù in salsa regionale. Gli stessi personaggi principali – le donne, in particolare – sono investiti da questo processo. Così, Maria prima ancora che donna nasce prodigio, eroina; sua madre, allo stesso modo, rimane immobile nei suoi tradimenti, immutabile nel suo dolore; e la sorella Evelina – forse vera e propria protagonista della vicenda, più di Maria – è prima santa e poi femmina. Questa idealizzazione dei tipi (la donna-stilnovo, la donna-Amazzone, la donna-suora o rinuncia, la donna-lutto) rende quasi insondabili – divine? fatali? diaboliche? – le forze che spingono queste donne a trasgredire i codici, e in ultima analisi indebolisce, appiattisce la portata delle loro azioni trasgressive.
Con questo, è il conflitto alla base del libro – la libertà di inseguire la passione in un quadro in cui la donna è meno che oggetto, è sfondo – a uscirne in parte svilito. Piuttosto che scavare le radici delle trasgressioni che muovono il libro, Mannu costruisce delle maschere in grado di giustificare queste azioni a priori. Ed è proprio questa scelta, alla fine, a far cadere Maria di Ísili con un piede nella trappola del pathos.