[Ti ho chiesto tante altre cose/ del cisto, del mirto, /
dell’inula viscosa, /nomi senza economia. r. scotellaro]

La madre la guarda con rammarico, parla e Stella le gira attorno; apparecchia il tavolo con la tovaglia bianca. La madre fa finta di seguirla ma ha nelle orecchie il bosco e il crepitio delle fiamme, l’abbaiare assillante dei cani, un temporale che ha vagolato sulle montagne senza speranza e si è sciolto in un muro d’afa, pesante sopra gli occhi. Stella le dice di smettere, che il fuoco non sarebbe mai arrivato alle case, anche se va avanti da giorni, e le guarda i seni ancora freschi, quel solco sfrontato, per nulla volgare, che esce dal top. “Come ci siamo fatte belle!”, dice cantilenando. “Smettila”, si schermisce lei, tirandosi indietro i capelli e arrossendo. Da quando l’aveva sorpresa a rovistare nei suoi cassetti, Stella provava tenerezza. “Hai preso un’altra volta le mie calze, mamma?” Lei un po’ nega e un po’ arranca scuse, si scende d’istinto la gonna: “Colpa mia se le fanno di niente? Ho le mani pesanti alla mia età, che credi?” Ha un’aria sbadata, fragile: “Mettiamo il linoleum, anche in bagno. Giuseppe dice che adesso lo fanno di una soluzione in legno smaltato che assorbe l’acqua…” – si ferma, passa i piatti a Stella, sospirando – “il parquet è sempre stato il mio sogno. È ora di svecchiarla ‘sta casa!” Stella rimane zitta e continua a portare le cose in soggiorno, poi torna alle spalle: “Non è nostra, mamma. Non puoi cambiare il pavimento, questo lo sai, vero?” “Lasciami fare! Giuseppe ha parlato con l’ufficio tecnico. Dicono che nelle more…” Stella la interrompe irritata: “Seh, nelle ciliegie… Ci ha parlato Giuseppe?” La madre annuisce e si fa piccola, alza disorientata le spalle. “Giuseppe impone, mamma. È diverso!”. D’un tratto, quella cappa scura che rovinava l’attesa – Giuseppe è già nelle scale – sparisce. Rimane il puzzo di bruciato, e il pensiero nemmeno troppo remoto che l’incendio possa saltare il fiume e arrivare ai primi orti del paese.

Tra le case pencolanti del centro storico e le palazzine bianche rialzate di un piano della zona nuova, ristagna da giorni una nuvola flaccida di resina e fumo. Un odore irrespirabile di legno incenerito penetra nei muri, attraversa le cassette delle persiane e si infila dappertutto: nei gangli olfattivi, nelle mucose, nei vapori del cibo, sulla pelle o nei panni appena sfilati dal comò. Ti aspetta sotto le lenzuola: persino i sogni, certe notti, a Stella sanno di bruciato. Il paese è stretto tra due masse scure di boschi, fumanti e ostili. Nottole, tassi, martore, cervi, scoiattoli, cani senza padrone e ogni specie di quadrupede che non ha mai visto l’asfalto, come in esodo, scappano dalle tane e sconfinano nel fondovalle. Quando cala il buio e in giro non si vede nessuno, i mattoni forati delle stalle saettano con gli occhi di cento bestie spaurite, in attesa di eventi sicuri. Di notte, per il vento, il fuoco avanza dal cielo basso con sfiammate simili a detonazioni; è un assedio continuo dai pendii delle montagne: i canadair non fanno a tempo a passare che già un focolaio brillanta in un punto diverso, con cadenza studiata, con neutra determinazione, in un moto perpetuo che sfianca i nervi e ogni civica resistenza – non si è mai visto su quelle montagne un dispiegamento così massiccio di volontari e forestali.
Stella ogni sera esce in terrazzo e ascolta il fuoco, poi le frasi sconnesse dei vicini sull’incuria dei boschi e la storiella dei pascoli abbandonati che creano scompensi idrologici. Con una strusciata d’avambraccio toglie la cenere dalla ringhiera e si appoggia sul vuoto dell’aperta campagna; fuma indifferente, le spalle squadrate, il corpo che curva su due gambe nervose e troppo lunghe – la posa è tutta del padre – dinanzi a quel brulichio uniforme e continuo sulle creste spelacchiate che ha già divorato i tornanti della provinciale e la ridda di tutte le ipotesi.
La sua abitazione è l’ultima, si perde in fondo a un alveare di calcestruzzo e cemento armato, un’area modernissima e in eterna espansione. Prima del fuoco, il paese odorava di nuovo e di calce asciugata, le notti d’estate di fieno sfrangiato, i fossi di timo e dei polloni del faggio.
Gronda di sudore, Stella, anche a stare ferma, e ha il cuore che martella dentro, ora che la vita le viene facile e le unghie scrostate di smalto, con quell’afa, si asciugano fuori in un attimo: nella legge della sua solitudine ha ormai imparato che le paure sono un dettaglio in più della sua esistenza: poche amiche, modi spicci e parole franche circoscrivono l’essenziale, stabiliscono distanze. Un imperativo necessario nella reticenza di quelle montagne, da cui non puoi cavare nulla, nessuna ambizione, nessun desiderio, nessun assillo di competizione, e un diploma finito basta e avanza. Sua madre e Giuseppe la invocano in soggiorno, parlano di ammodernamenti, lei ha bei gusti e ha ordine nelle pratiche, e poi ci sono il Ferrari e le paste. Lei fa finta di niente, rimane fuori a fumare. Sul terrazzo arrivano le risate sguaiate di sua madre, la sua voce stridula che dissimula e starnazza e la richiama a sé: “Ancora buttano acqua sui roghi? Povero mare, lo staranno svuotando! Ma Giuseppe dice che non ce n’è bisogno, domani il fuoco sarà spento…” Stella abbassa il capo, stira impassibile il sorriso. Si sente d’ingombro, capisce che è meglio farsi un giro.

L’umanità è un bluff – le diceva il padre con una voce che innamorava – e ogni uomo, nella stupida convinzione che sia solo e libero, in realtà è un uomo nelle mani di un altro. Basta un cambio di prospettiva, un’angolatura sbiellata rispetto al proprio punto d’osservazione e ti rendi conto come nel raggio della tua esistenza a salvarsi (o a redimersi, se esiste un creatore; un’etica o una parvenza di senso, quando il mondo comincia a sbandare) in fin dei conti non resta proprio nessuno. Nel risultato finale di una serie di minime scelte e continui sforzi a non fracassarsi nelle delusioni, il bello è proprio veder reinquadrati i rapporti, domando la vita di sponda, con tecniche assai semplici di sopravvivenza: entrare nella testa di chi ti sta fregando, ad esempio, e accorgersi che quella piccolissima parte da preservare sia nulla di più che un privilegiato punto di vedetta. Un fortino – nel pieno dissolvimento – che ti consente di vagliare, giocare le tue carte, sottrarti a un presunto sentimento collettivo, fino a rubare il mestiere a chi ti sta di fronte, a replicare l’incastro per tenerti viva.
A questo ha pensato Stella quando una sera Giuseppe Aragno ha portato fuori a cena sua madre – e lontano, dalla parte del mare. Sono rientrati al mattino: lei, goffa e struccata, si voltava indietro in un gesto di resa, una mano davanti alla bocca, le scarpe nell’altra; lui la salutava dal vetro del Q5, giù nel cortile, inseguendola con un sorrisino pieno di certezze fin sopra la veranda forata.
Il primo segnale che qualcosa stava accadendo Stella lo ha avuto quando nella casa disadorna, invisa a scalpitanti locatari a ogni cambio di giunta comunale, Giuseppe aveva chiesto il permesso di metterci mano purché non ci si rodesse più il fegato. “Bisogna sapersi valorizzare nella vita…” – se ne era uscito sibillino, e poteva pure non voler dire niente –, e nel rimettere a posto le carte, in una catena senza fine, era passato in breve tempo dalla faccenda di quel buco agli appalti delle martellate comunali, sparigliando la concorrenza e accaparrandosi dieci anni di piano di assestamento forestale, un capitale spropositato che tra taglio, vendita e indotto dava ormai lavoro a un paese intero – e questo poteva dir molto.

In quei mesi scombussolati, al primo accenno d’inquietudine Stella usciva con appena un’ombra di trucco, il petto ostentato per fare notte e circoscrivere, al solito, quel vago malessere in respiri profondi, un po’ per prepararsi all’idea di quella deviazione improvvisa che sarebbe presto arrivata e un po’ per l’ansia di vedere in opera finalmente il virtuosissimo consiglio paterno. Ogni sabato sera, su un pianoforte mezzo scordato, pestava gli accordi in croce, canzone per canzone, di un disco intero di De Gregori. Il disco era Bufalo Bill e lei lo sapeva a memoria dalle medie: cantava con una grazia e una musicalità che mettevano soggezione e allontanavano qualsiasi tentativo di farle il coro o il sottofondo d’insolenza di qualche screanzato che poteva scambiare l’ispirata mimica di Stella per un ammicco, la pelle nuda che usciva dai jeans a cavallo basso, seduta sullo sgabello del piano, per una provocazione. Lei e la sua voce tenevano impalati l’unico pub del paese, gli irriducibili che non scivolavano sfatti nel sonno e che su quelle panche sporche di cera di candele le portavano il ritmo con forchette e bicchieri. Accettava di tutto, anche due tiri di fumo, ma se sentiva toccarsi si alzava di scatto e volava via a casa, lasciando un vuoto attorno al piano che pareva la fossa di una granata esplosa. Fragilità e talento sono la stessa cosa: palcoscenico e destino si intrecciano quando cala il gusto feroce di annientarsi, la spietata consapevolezza di sentire per una volta il mondo e gli uomini lontani, gli uomini che scambiano la vita – per tornare al fatto del padre – con la pianificazione di obiettivi strettamente personali.

Giuseppe Aragno era nel locale quel sabato sera. La sentì cantare, attese che finisse e le offrì da bere. Le disse che aveva una voce pulita, che teneva inchiodati. Lei lo guardava dritto negli occhi: “Torci un capello a mia madre e ti levo dal mondo!”, disse brusca. Lui invece era contento: “Dovresti volerti bene di più, Stella, pensare che si ha pure bisogno d’affetto su questa terra…” “Vedi che tu non mi incanti”, troncò Stella, gli occhi più lucidi e non per la birra e non per il fumo. “Mamma mi ha detto che sei brava a scuola, hai i voti più alti nella contabilità”. Lei negava con la testa, rabbrividiva dinanzi a quel ghigno ridicolo, a quell’esaltazione sospetta; rispose in sua vece il barista, invadente: “Che vuoi ancora da noi due, Giuseppe?” Giuseppe si offese. Del tono di Stella, della sua rabbia irrispettosa. Era stufo d’essere un osservato speciale, guardato con curiosità e fastidio in quel paese alla deriva, che immalinconiva e cadeva a pezzi. Lui era uno che spianava, grazie a un intestardito piglio imprenditoriale, piazzali nel demanio, che spalmava gli investimenti nel posto stesso dove faceva affari mettendo a repentaglio il valore del capitale, gli andava fatta una statua. Non era fanfarone; l’economia vinceva sulle autorizzazioni: i tagli rasi nelle fustaie secolari, contrariamente a ogni normativa, passavano come puliture, infoltimento del bosco. Non aveva i capelli tinti e alle dita non portava anelli e questo sembrò sufficiente a Stella per continuare a guardarlo negli occhi, rimanere l’intera notte con lui, solo a parlare della madre.
Basterebbe lasciarlo da qualche parte, l’uomo, scordarselo nella jungla o su un ghiacciaio – diceva con dolcezza il padre, sfumando pessimista sul finale – cavargli dagli occhi il desiderio, e avremmo un essere insignificante, meno pericoloso, senza l’arte del condizionamento, comandato solo dai bisogni vitali, dalle regole della biologia, dalle combinazioni delle cellule o dalla ferocia della natura: insomma una bestia e niente più.

Stella con l’alternanza scuola lavoro riesce a giustificare l’ormai indispensabile presenza in ufficio. Giuseppe è sempre via, le incombenze più delicate le lascia a lei. È diventata esperta, prepara le buste per le gare. Manda personalmente ai sindaci – azzeccando, con intuito femminile, i gusti delle signore – i cesti a Pasqua e a Natale. Non esce quasi mai, caparbia e risoluta ogni volta che si mette a fare qualcosa – il pianoforte, la scuola, l’aerobica, i regolamenti forestali. “In questo ha preso da me!”, dice mugolando di tenerezza sua madre, e a volume alto, mentre Stella infila il portone e lascia i due, mano nella mano.Giuseppe Aragno ha un sorriso così grande che l’abbraccia tutta, lo stesso di quando guarda le montagne, di quando, giocondo come un bambino, inizia a spremerle, quelle montagne, e fa credere agli uomini che la vita sia solo un difetto in partenza, che va raddrizzata riducendo semplicemente le cose a un insignificante elenco di nomi.

Stella è sul vialone deserto delle case popolari, ammutolito dalle saracinesche abbassate, dai semafori spenti. Guarda il cielo e vede che le cime più alte cominciano a schiarire, la coltre di fumo si dirada e alleggerisce un poco la morsa del caldo. Avverte nella bocca quel retrogusto di carbonella, un’aria terrosa e soffocata, nostalgie infinite. Si accende, per non provare disgusto e non guardarsi indietro, un’altra sigaretta. In questi ultimi giorni le è parso di venir trascinata fuori dal mondo, staccata dalla sua esistenza, turbata da un leggero cedimento all’angoscia. Ma non dice più che di questo posto è stufa. Sente che tutto si sta rimettendo a posto, lo percepisce nell’aria, di colpo il cuore si allarga. Giuseppe non sarebbe venuto a cena, d’altronde. Non trascura mai il lavoro. Gli occhi oltrepassano quella cappa di calore che fumica ancora di lapilli e cenere e scorge come un’ombra, dentro i campi bruciacchiati, il tendone del palazzetto dello sport, lindo, senza uno strappo e poi dietro l’insegna luminosa del centro sociale, ancora da inaugurare. Dalla parte del mare, ricominciano le nuvole tormentate dai tuoni. Sotto i lampioni tornano a sbattere vorticose le falene, la gente dorme con le finestre aperte, gli animali riprendono la via per le tane. Sale ancora l’odore di calce e giunture saldate e poi quello della plastica degli imballaggi che fermenta nella continua espansione, in lei la pienezza di sentire il mondo a portata di mano. Ogni cosa riprende il suo corso, torna il gioco figurato del paese che cresce. Sui cartelli stradali l’elenco dei nomi si allunga. Nomi senza economia, farfuglia Stella, e ha una consapevolezza lucente come la luna che dopo tanto si riprende il suo posto nel cielo, spietata come il padre.