Intro: trapianto dei polmoni di Allen Ginsberg

Ho visto le migliori menti della mia generazione vibranti della propria salvifica follia, pulsanti di passione attraverso gli amplificatori, agitare rabbiosamente la testa per scuoterne via le spiegazioni di chi è stato chiamato a essere adulto prima di noi, ormai inadeguate a giustificare la nostra esistenza; rinnegarsi, abbandonarsi, lasciarsi crollare sui marciapiedi all’alba di un nuovo giorno il cui arrivo cerchiamo di rimandare il più possibile a lungo, con quella sensazione che tutto stia per cominciare di nuovo esattamente come prima, dal punto in cui l’avevamo lasciato prima che la notte ci confondesse tra le ombre; innalzare tra loro barriere intangibili, perché è infinitamente più facile lasciarsi morire quando non hai nessuno che si preoccupi per te, e subito dopo cercare in ogni modo di spezzarle, perché il dramma più grande che abbiamo è la continua ricerca di qualcosa in cui credere, per soppiantare quella vuota realtà in cui credere non ci è mai stato possibile; con sogni nati già morti e fiori recisi che non sopravvivranno agli incubi del risveglio, e droghe e alcol e balli a non finire: la distorsione di un momento in cui creare uno strappo nello Spazio e nel Tempo per trovare una risposta a quell’unica domanda – e la domanda è: perché?

[– ho visto Me Stessa sopportare tre ore di treno senza niente da fumare e poi smarrirsi su un viale, incastrandosi coi tacchi nelle insidie dell’asfalto cittadino, e tutto questo per poi perdere coscienza sul divano di un locale, vomitare quel poco di anima che le era rimasta e svegliarsi in una nuova dimensione come se fosse trascorso solo un battito di ciglia: ma nel frattempo una schiera di angeli aveva vegliato sul suo sonno simile alla morte, denudandosi per scaldarla, debilitandosi per sostenerla, sorridendo per rassicurarla; trovate, se riuscite, dieci differenze: tra i ruvidi poeti beat che scrivevano dell’orrore delle bombe su taccuini ad alta velocità e gli angeli metropolitani di questo nostro tempo che scrivono di una guerra invisibile agli occhi sulla propria pelle, con labbra brucianti e calchi di denti; tra il giovane Jack Kerouac nella notte di Pearl Harbour, seduto in un locale emozionando un vecchio blues, immaginando una ragazza dai grandi occhi scuri che carezzasse la sua fronte, e Me Stessa, incastrata nel suo ego su una pista da ballo, e le luci colorate le si schiantano attorno, pregando un atomo fluttuante di insegnarle, per una notte appena, a vivere di un alito come sa fare lui –]

***

Fede era un hardcore kid dai berretti di lana calati sugli occhi e i lunghi discorsi che non significano niente. Aveva un sacco di fratelli e sorelle e nella sua casa non giravano mai soldi a sufficienza. Non si curava di rimediarseli, lui aveva i suoi grandiosi progetti. Una volta suonava in un gruppo chiamato Thanx Anyway: giusto il tempo di tappezzare l’hinterland con i propri adesivi e poi il gruppo si è sciolto. Più che fare parte della scena musicale, a Fede piaceva starci dietro. Così si millantava detentore di uno studio di registrazione, ma in realtà usava i pochi spicci che aveva per affittare una saletta in uno scantinato e portarci le ragazze. Finché ha conosciuto Dani, che a Me non andava troppo a genio perché aveva sempre quell’aria sufficiente di chi ha imparato a compensare la mancanza di appeal con un sacco di altre doti. Ma soprattutto perché a Me Fede piaceva. Naturale, era il migliore amico del suo ragazzo, e Me ha sempre avuto un debole per i migliori amici dei suoi ragazzi. Nessuna amicizia è più stata la stessa, dopo che ci si è infilata dentro Me. Questo, Io non glielo ha mai perdonato.

[– credo che Me sia sempre stata invidiosa dei fratelli spirituali: avrebbe tanto voluto che Io la percepisse come l’altra metà dello stesso destino, ma Io non hai mai approvato nessuna delle sue scelte: quando Me si è trasferita a Milano Io è rimasta a Firenze e per un sacco di tempo non si è fatta più sentire, se non per accusarla di aver fatto una fucina di cazzate –]

Ale era un punk in pensione. Lo era, in pensione, da quando aveva conosciuto Me. Pensava che quel suo antico ideale non si coniugasse con l’idea che voleva dedicare a Me il resto dei suoi giorni, e magari costruirci una famiglia. Del suo passato sovversivo restavano soltanto tre codini rosso fuoco alla base della nuca e quel giubbotto con gli inserti catarifrangenti di cui Me si era innamorata quando ci stava dentro lui. Me non sopportava il modo in cui Ale rinnegava i propri trascorsi, perché era lo stesso in cui anche Io lo faceva con i suoi. Il giorno in cui lui la costrinse a tagliargli i codini per presentarsi al meglio a un colloquio di lavoro, le cose dentro Me iniziarono a cambiare. Ale aveva voluto che fosse lei a tagliarli, perché era per lei che lui stava cambiando. Ma lei non aveva mai preso in considerazione l’eventualità che il punk potesse cambiare.

La saletta di Fede era un mito, così come la casa di Luca in quella merda di canzone. A volte ci andavamo tutti assieme, con una scorta di birra e qualche CD. Si doveva scendere una rampa di scale e sulla sinistra c’era la saletta, mentre sulla destra una porta dai vetri infranti si apriva sul nulla. Un giorno Ale prese Me per mano e ce la portò dentro. Quel giorno Me scoprì che il buio è una nozione soggettiva. La gente non ha idea di quante sfumature di buio esistano al mondo finché non incappa in un buio come quello, il buio più buio che avesse mai visto. Tutti i concetti di spazio e di tempo venivano a cessare. Sospettava che, se si fosse portata una mano alla faccia, si sarebbe passata attraverso.

In estate Me disse ad Ale che voleva lasciarlo. Fede disse qualcosa di simile a Dani. Ale e Dani scapparono dal mondo a consolarsi dai capricci dei rispettivi compagni. Al suo ritorno Ale disse a Me che lui e Dani avevano fatto il bagno nudi nel mare. Me si chiese se questo avrebbe dovuto cambiare le cose. Il giorno seguente, dietro richiesta di Ale, Dani andò a trovare Me e la pregò di ripensarci. So come si sente Ale, disse, perché tu e Fede sembrate afflitti dalla stessa inquietudine. Si chiese se questo avrebbe dovuto significare qualcosa.

Fede aveva un profilo greco. Ale aveva iniziato a guardare a lui con occhi nuovi dopo aver letto quella cosa sul diario di Me.
Lui ti piace, non è vero?, disse.
Me fece spallucce, disse: piace anche a te.
Ale rifiutò quel paragone.
Come diavolo fa a piacerti un tipo così?, disse. Non porta a termine mai niente.
Me si chiese se questo avrebbe dovuto sembrarle determinante.

Quando Me se ne andò, Fede non venne a salutarla. Le sue ultime parole le furono riferite attraverso la voce di Ale: abbiamo sempre parlato un sacco, ma di te non ho mai saputo niente. Si chiese se questo faceva anche di lei un hardcore kid.

Ending #1

Io sa quello che vuole e non sta ad aspettare che cada dal cielo. Io è quella che mi piace di più. Ma Me è subdola, sa come far leva sui sentimenti degli altri e costringerti a desiderare di prenderti cura di lei.
Me vive in uno squat dove ci piove dentro, ma lei vi dirà che ci sono graffiti colorati su tutte le pareti. Pensa che Milano sia bella alle sei del mattino. Pensa che tutto sia bello alle sei del mattino, ma solo se ci arrivi passando attraverso la notte.
Io si sveglia nel sole, quando Me sta andando a dormire. Io crede ancora che il mondo possa essere un posto migliore. Per questo non smette di fare la guerra.
Me pensa che, logorando il corpo, Io desidererà abbandonarlo. Io non pensa mai, è sempre convinta. È convinta che rafforzando il corpo la parte malata verrà riassorbita. Io è quella che si sbaglia di più.
Su una cosa soltanto sono entrambe d’accordo. Di recente hanno trovato una canzone che avevano perduto. Si sono incontrate, soltanto un momento, su quel labile confine che separa l’orizzonte dalla notte. Se chiudo gli occhi, mi sembra ancora di vederle danzare.

Ending #2

Hey, that’s me, I’m driving in my car. In the seat next to me sits a blue eyed brunette.
I know that she’s yours, know that she’s yours, know that she’s yours.
But she likes my Mustang more than your glittering Corvette.

– Undeclinable Ambuscade, Car race

Se la cantavano addosso, Ale e Fede, questa canzone qui. Nella macchina di Ale, mentre ci schiantavamo contro un tizio che non aveva rispettato uno stop all’ingresso di Milano. Ma Fede non aveva una macchina. Lui se ne andava in giro per il mondo in bicicletta, coi suoi berretti di lana calati sugli occhi, e quella sua inquietudine che un po’ mi assomigliava.