Oggi pensavo a una Lega Nord Internazionale. Una lega dei cuori gentili, insomma, volta a scovare il Nord ideologico di ogni nazione. Il cuore del leghista è gentile come quello del grande ideologo, Claudio Gentile, e non ha nulla a che vedere con i gentili intesi nel senso degli ebrei: perché l’ebreo, come tutti ben sanno, rappresenta il sud del pensiero moderno.
Queste tre righe sono di per sé sufficienti a costituire il nostro manifesto.
A questa lega iscriverei i cavalieri di Malta, i miei colleghi amici della supercazzola e certe personalità irriducibili alla stregua del Minchia – nomen omen. Gente tutta d’un pezzo, contraria alla totalità sfiancante dei discorsi e sincera nei propri sentimenti di menefreghismo, villanaggine, cafoneria e disperazione. Gente che doveva crepare negli anni ottanta, quando l’eroina aveva ancora un valore morale ed epistemologico e morire era una scelta dignitosa.
Come siamo arrivati, invece, a questo punto? Cosa ha determinato la nostra sopravvivenza? Oggi la mia preoccupazione più grande si riduce all’evitare ulteriori rimproveri da parte di mia moglie: lei pulisce, lava, organizza, fa. Io, il più delle volte, non faccio altro se non sentirmi smarrito. Penso che si riduca a questo, di fatto, lo stato d’animo dei giovani Hitler: la totale perdita di fiducia nell’esistenza e la conseguente scoperta di una fonte d’energia inesauribile nello sviluppo di un progetto volto all’incubo assoluto. La vita che inneggia allo sterminio. Chissà per quale piccolezza il nostro pittore di grandi superfici ha riversato sul mondo tanto rancore: un pennello lasciato seccare, un conto sbagliato, una parola di troppo da parte di un passante o di un collega. Gli Anal Cunt, finissimo ensemble di musicisti d’avanguardia, hanno cantato tempo addietro come Adolph Hitler fosse una persona assolutamente sensibile; io sono d’accordo con loro nel dire che oggi, secondo una stima ragionata, avrebbe ascoltato gli Smiths e i Depeche Mode.
A pensarla così, però, si fa una fatica incredibile. Tutti i giorni così: INCREDIBILE, IMPREVEDIBILE. Un mio insegnante era solito dirmi che in me il principio di realtà è debole, e per questo motivo non riesco a prendere granché sul serio quella che invece, per la parte sana della società, è la vita vera e propria. Ciononostante io ci provo a tutti i costi, ad essere vicino a questo principio, e così a farlo mio: lo comanda la conservazione di sé. E sì, so che dicendo quello che dico sembra che voglia prendere le parti dell’uomo qualunque e del suo modo di pensare: lo stipendio, le relazioni, la stabilità. Il principio comune di realtà. Ma il pensiero dell’uomo qualunque io lo disprezzo, o meglio: non lo riconosco neppure come tale. Non è possibile discutere con l’uomo comune e prenderlo sul serio. Lo si può solo portare a spasso per delle chiacchiere, degli antani, vedere un po’ come risponde, i versi che fa. L’uomo qualunque è una questione sperimentale. L’unica cosa riconoscibile in questi esemplari di cristiano è un certo valore, una quantità. Questa è la quantità che condividono con la melma e con le carrozze dei pompieri, vale a dire la mera esistenza. Tutto il resto è una distrazione, è la chiacchiera dell’esistenza, che non può confondersi col pensare vero e proprio: ogni parvenza di pensiero articolato che non miri al centro di questa esistenza è un escamotage di quest’ultima volto alla riproduzione della specie e alla protezione della sua sciagurata prole.
L’esistenza, al contrario, fuori dalla chiacchiera, non distrae e non è distratta: quando penso all’esistenza delle cose penso a una corsa degli occhi infinita sulla pelle deserta di una donna eterna. Mi dedico insomma al pensare alla fica a livello panteistico. Penso, precisamente, alla carne intesa come carne e al peso di questa quando la si ha per le mani; alle ascelle, alla fregna, al buco del culo. E così all’infinito; a tutto quello che l’ignoranza degli uomini condanna di fatto a non vedere e a non sentire, o peggio ancora, in questa chiacchiera assordante, a non tacere.
E fin qui tutte belle parole, rievocando lo spettro di Luciano Rispoli: ma finiti i discorsi chi mi sfama? Cresciuto in un’epoca che in molti definiscono di crisi, come posso decidere di seguire il principio di piacere quando il mio salario è di ottocento yen l’ora? Ottocento yen sono sei euro e spiccioli, e capirete bene anche voi che questa miseria la si deve moltiplicare diverse volte per poter arrivare a fine del mese a pancia piena. Ma nei ministeri non ci pensa nessuno ai disgraziati che hanno incontrato il mistero dell’esistenza? Ci è stata tirata addosso una croce che non siamo costituzionalmente adatti a portare: mentre le nostre famiglie sperperavano lo sperperabile, le nostre forze venivano sottoposte a un saccheggio costante intrapreso dalla massa degli uomini e dalla società. Non posso dimenticare quel disgraziato stroncato dalle seghe e pure morto male che diceva che alla fine della dirittura, nelle corse dei cavalli, è inevitabile l’arrivo della curva. Nel mondo prosciolto dal grande inganno e dalla grande mistificazione, questo figlio del superumano aveva visto giusto. Ma noi, che nulla abbiamo del divino e viviamo brancolando, come gli zingari, questa dirittura l’abbiamo percorsa un poco appena: al primo accenno di fatica ci siamo fermati ad aprire i fagotti delle vettovaglie per mangiare un panino con la frittata (un onigiri, un falafel, il dettaglio non è importante: quel che capitava) senza avere la più pallida idea di quello che ci stava succedendo. Accampati nella polvere, qualcuno tra noi ha deciso di morire: gagliardo. Tra i sopravvissuti un paio di insospettabili sono stati ingaggiati dai gruppi di tifosi e spettatori a bordo campo per fare dei lavoretti, per sbrigare insomma delle pratiche assolutamente inutili e prive di senso: la formazione professionale li ha resi stupidi e infermi. Siamo stati iscritti in dei registri, abbiamo partecipato a delle attività di club, abbiamo percorso grandi distanze per strade della cui esistenza eravamo completamente all’oscuro: queste, con le loro curve e i loro tornanti, ci hanno fatto dimenticare che mai ci fosse stato un punto di partenza.
Vorrei dire che ci siamo dimenticati di noi stessi, ma come quando G. non mi disse nulla nonostante volesse farmi intendere come gli mancassi, mi pare che se lo facessi, se insomma lo dicessi, parlerei e di conseguenza penserei a tutti gli effetti come un ricchione. Non è per nulla vero che ci siamo dimenticati di noi stessi, ed è un modo di dire da ricchioni precisamente perché non è vero, così come non è vero che manco a G. In G. infatti non alberga nulla, e meno che mai l’idea della mancanza: voleva soltanto dire che mi vuole bene e mi ama, così come inevitabilmente si ama chi ci abbia mostrato una via di fuga dal principio di realtà facendo a meno di prediche e insegnamenti. E io alla pari amo G.: e il mio amore nei suoi confronti è lo stesso amore di cui si ama qualcuno che ci ha mostrato una via di fuga dal principio di realtà facendo a meno di certe fregnacce rimasticate da persecutori dell’esistenza. Fregnacce e porcherie dello pseudopensiero delle quali interminabili schiere di professori, autori, poeti e filosofi continuano purtuttavia a servirsi, solo ed esclusivamente a causa della debolezza dei loro corpi e del terrore atavico che provano di fronte alla vita che abbraccia il principio di piacere. Non a caso, i cori della curva del Palermo in occasione dell’incontro con Ibrahim Ba – che G. si limitò a riportarmi con un gran sorriso e che ora nemmeno ricordo – sono stati per me sufficienti a fare ingresso nella verità del suo mondo rivelato.
Pensandoci bene, in tutta la storia del pensiero ci sono al massimo tre – quattro? – personalità estranee alla grande mole degli scribacchini violenti e degli stupratori del principio di piacere. Non vado neppure a nominarle.