Donna D.

Una ragazza bionda spaccava ghiaccio dietro il bancone con un pezzo d’acciaio dall’aria affilatissima, un affare acuminato tipo uncino di Capitan Uncino; ma lei gli occhi li aveva entrambi: occhi pericolosi, occhi enormi come prati tormentati da vortici di rugiada. Tutti i coccodrilli dell’isola che non c’è le avrebbero consegnato piramidi di sveglie caricate a molla, rigurgitandogliele ai piedi in segno di resa, prima di svignarsela verso più ospitali lidi inesistenti.
Alzava e abbassava il braccio uncinato con ammirabile zelo, come stesse scolpendo una viva figura michelangiolesca, come se desiderasse dare una dignità ai frammenti di ghiaccio la cui forma sarebbe presto stata accidiosamente diluita in un Vodka Red Bull o, nel migliore dei casi, shakerata nelle secrete vie di qualche cocktail sperimentale.
Dicevano che era una nerd persa, per giunta antivegana e anche un po’ pornovamp; una che non si asciugava mai i capelli, che detestava i fagioli al pomodoro, una che prima di andare a letto indossava una sottile sciarpa di seta. Per libera associazione con la defunta principessa del Galles, iniziarono a chiamarla Donna D., e a lei non dispiaceva, o forse non le fregava più di tanto assomigliare a un cadavere pieno di vita, che dopo aver squarciato la bara si mette a vagabondare per il mondo con le tasche piene di lapidi.
Allupati backpacker con volto da hipster incolto e conto in banca sbrilluccicante, narravano che fosse arrivata dalla città in sella a un cavallo nero, barattando il destriero per vitto, alloggio e un posto full time da rompighiaccio, nonché barista, presso il pub del campo base. Le era stata assegnata la camera 9; a lei era parso logico tatuarsi quel numero sul collo, appena sopra la sommità della clavicola sinistra.
– Ehi, bello il tatuaggio!
– Cosa?
– Sì, be’, sembra un 9, ha qualche significato?
– Non vorrei essere scortese, ma sto lavorando!
– Eh lo vedo, ci metti una bella energia!
– Distruggere mi tiene sveglia!
– Come? Scusa, ma quest’indie rock islandese spacca i timpani!
– Ho detto che distruggere mi tiene sveglia!
– Okay, e quello era un sorriso!
– Sì, forse hai ragione!
– Perché ti chiamano Donna D. da queste parti!?
– Perché Lady D. era già preso!
– Gira voce che sia il tuo ultimo giorno!?
– Esatto!
– E dove pensi di andare?!
Lei interrompe la distruzione del ghiaccio, uncina al collo il backpacker allupato, lo avvicina a sé e, nel frastuono generale del pub, doviziosamente lo bacia.
– Offrimi una birra!
– Bionda o scura?!
– Secondo te?!
– Ho taniche di benzina sufficienti a portarti in Messico!
– Mi dispiace, ma la tequila sale e limone non la bevo!
– Fidati che è buona!
– Il sale è da sfigati!
– Tu dici?
– Mi è venuta un’idea migliore!
– E io sono qui per soddisfarla; dopotutto è il tuo ultimo giorno, no?!
– C’è una cosa che desidero fare; adesso!
– Vai!
– Saliamo sulla tua Jeep e rincorriamo il sole che tramonta!
– Ma ormai è quasi buio e sarà tutto pieno di ghiaccio!
– Non importa: ne spaccheremo quanto basta, lo faremo insieme!
– Ne sei sicura?
– Sì, è il mio ultimo giorno: voglio sparire con te alla fine della notte!

Old Fashioned

Eravamo solo al terzo giro, ma il mio compagno d’avventura – che per praticità antropomorfica chiameremo il Condor – sembrava già sul punto di strippare. La specialità della casa, un Old Fashioned troppo speziato servito in barattoli di marmellata certamente poco sterili, scintillava in una micropolla di bourbon adornata da coroncine di scorze d’arancia. Aveva un retrogusto di squalo putrefatto.
La casa consisteva in un locale seminterrato, grumoso di cicche spente, con bancone arancione accesissimo a destra; i tavolini erano disposti a semicerchio, agghindati come in una sala da tè di primo Ottocento. Il dj si lanciava in opinabili mashup di musica leggera, che però non animavano come speravo i 3mq di pista da ballo; così faccio per alzarmi dalla panchetta di velluto a coste per andargli a suggerire un ritmo meno blando, ma il Condor mi strattona:
– Ehi!
– Che?
– Dove vai?
– A dire a quel bomber di correggere ‘sta ninna nanna con un po’ di Latte+!
– Mi sa che sto per strippare, figa!
– Sul serio?
– Ma quella tipa all’angolo? Se le apri le gambe ci trovi più ragnatele che nel dispenser dell’uomo ragno!
– Che poi l’hanno pure ucciso!
– Esatto!
Ci diamo il cinque, con la consueta virilità elevata al cubo; pare essersi ripreso, ma il Condor è imprevedibile nel suo bauscismo da esportazione, quindi decido di andargli a prendere un grosso bicchiere d’acqua lo stesso: voglio godermi lo spettacolo quando, lustratagli la carogna sotto gli occhi, non riuscirà ad affondarci gli artigli storpi. Infatti, dovete sapere che il Condor, campione subregionale di parapendio, si è frantumato una caviglia durante uno dei suoi folli voli; ci è rimasto quasi secco, poveraccio, e va in giro con delle stampelle bioniche. Ma non solo per questo è diventato mio intimo amico.
– Okay, adesso vado a prendere un po’ di benzina!
– Vai, portane anche per la tipa qui!
Figurati, penso. Quella è arrivata già fradicia, ubriacandosi di vodka e succo d’arancia comprati al supermercato, da sorseggiare in Skype call intercontinentale col fidanzato, un PhD candidate in biotecnologie conosciuto su Tinder; un tipo superbrillante, uno che non la getterà via come un Kleenex, perché non si farà mai quei novemila km per andare a scoparsela; e questa certezza, diluita dall’adrenalina alcolica e dai complimenti distorti dal buffering, non può che farla sentire una trentacinquenne ancora in canna, nonché rispettata in quanto donna nell’esclusività della coppia aperta.
– Ci hai messo un secolo!
– Mi è venuta un’idea!
– Mamma mia questo Old Fashioned è proprio una merda!
– Ti ho portato l’acqua, diluisciti un po’!
– No, sto bene, mi fa solo un male cane la gamba!
– Ecco, mettila sulla mia, come Dio che gioca a Lego con il mondo, così stai più comodo!
– Guarda che sono omofobico!
– Fai come ti dico, sparati un Oki e osserva!
Il tipo con cui la ragazza all’angolo aveva fatto finta di passare la serata se n’è andato via da qualche minuto; il dj attacca Magnifico di Fedez feat. Francesca Michielin; inarco le sopracciglia, allungo un Old Fashioned bevuto per 3/4 sulla tovaglia bianca e nera quadrettata, lei mi striscia vicino.
– Vieni spesso qui?
– Tu abiti lontano?
– Cosa fai in città?
– Nulla!
– Sei la bellezza a due passi, a portata di manicure!
– Pensavo fossi interessato ad altro!
E così le infilai la lingua in gola, allungando una mano sotto al suo seno destro; l’altro braccio attorno al collo del Condor, che faceva gargarismi con l’Oki.

Ceci est une pipe

Il panorama ammirabile dalla scala antincendio condominiale, corridoio 3Abis, solitamente offriva deliziosi quadretti di genere (o sottogenere) quando lei, trentenne ex modella di Valentino che vantava un passato non poco mistico negli scout, si rifugiava in quel cubo metallico a fumare la sigaretta della staffa in accappatoio bianco a nido d’ape.
Diluviava – o meglio, piovevano cani e gatti, come si diceva da quelle parti – ma una coppia di adolescenti (o due gnomi delle fogne) non parevano curarsene: incappucciati nelle loro tute rosso fosforescente laggiù in fondo alla piazza, sotto la luce intermittente di un lampione, si chinavano a trangugiare quello che avrebbe potuto essere un Big Mac così come un cervello di scimmia ancora sfrigolante sotto i goccioloni battenti.
Quella sera osservò la montagna di cenere incandescente disintegrarsi sulla punta della Camel Blue con una certa malinconia, mentre con la mano sinistra ghermiva delicatamente la grata arrugginita, più che per il timore di cadere (o l’impulso a buttarsi), per mostrare a se stessa il piercing che aveva deciso di farsi quella mattina, prima di arrivare in ufficio in ritardo e con la manica del tailleur sgocciolante di sangue: le trapassava il polso come un ruscello sotterraneo, e dava segno di sé spuntando in due capocchie gialle, da un estremo all’altro.
Le venne da sorridere, forse per la faccia che avevano fatto i colleghi, forse perché si compiaceva del fatto di essere un po’ matta oltre che bionda, o forse perché la presenza aliena di quel ruscello d’acciaio inox sotto la pelle la faceva sentire più forte, una specie di supereroina votata alla redenzione degli gnomi delle fogne.
La cenere le cadde sul piede sinistro, nudo e umido sulla grata del pavimento (più spessa e meno morbida ma sempre arrugginita), e per riflesso condizionato ruotò di 45°, una mezza pirouette; inavvertitamente guardò giù, scorgendo l’ombra di una donna di colore, avvolta in una crisalide di sciarpe rosse, gialle e blu, che fumava da una pipa lunga come una mazza da baseball:
– Scusa, io ora vado via, non volevo disturbare.
– Tranquilla, nessun problema, davvero.
– È tabacco del mio paese, lo devo fumare per gli spiriti buoni.
– La scala antincendio è il luogo ideale per fumare, non trovi?
– Il tabacco del mio paese si può fumare solo con questa pipa: ceci est une pipe!
– Lo vedo, è molto bella; è proprio una bella pipa.
– Anche tu hai figli, che strillano e corrono con le scarpe sporche dappertutto?
– Sono avvocato penalista.
– Ah, no no no, scusa io ora vado via.
– Per favore, resta, parlami degli spiriti buoni.
La donna di colore protese le gigantesche orbite oculari verso l’ex modella, quindi espirò una nuvola di fumo denso, e spalancò la bocca come per ridere in silenzio, quasi per assorbire il suono dell’acqua che filtrava nei canali di scolo. Le finestre della BT Tower rimasero accese. L’ex modella, accasciatasi in rilievo alla destra di quel rettangolo di profili urbani sfasciati dalla pioggia, pensò che il tabacco del suo paese dovesse essere una bomba, ma la donna di colore era troppo lontana, perciò si limitò a inspirare avidamente, abbandonando a ¾ la Camel Blue ormai zuppa.
– Cosa vuoi sapere degli spiriti buoni?
– Be’, faccio incubi, incubi tremendi, loro potrebbero aiutarmi?
– Gli spiriti buoni ti aiutano se tu credi negli spiriti buoni: tu credi negli spiriti buoni?
– Io potrei credere a quasi qualsiasi cosa.
– Fammi un esempio.
– Credo che due amanti possano fare l’amore come due petali di rosa sul dorso di un elefante.
– All’elefante non farebbe piacere, te lo assicuro.
– A loro sì, però: scorrerebbero l’uno sull’altro fino a scorticarsi dall’alto.
– Credi che sia l’idea di questo piacere la causa degli incubi?
– Credo che farlo come potrebbero farlo le rose mi farebbe diventare uno spirito buono.
– Capisco, e in cos’altro credi?
– Credo che innamorarsi coincida con la sentimentalizzazione dell’esperienza estetica.
Forse aveva appuntato questa frasona sul Moleskine, durante una delle sessioni dalla psichiatra che le era stata assegnata d’ufficio dopo il TSO prenatalizio di tre anni fa: il fidanzato lavorava come operaio in una fabbrica di cisterne; durante un collaudo era affogato.
– Tu non credi negli spiriti buoni, ma provaci.
– Ho paura.
– Parlerò io con l’elefante: lui ti aiuterà.

Paper Plane

Non avrebbe mai pensato che un paio di scarpe strette potesse rovinargli una serata così gloriosa. Il concerto era stato un sold out confezionato coi controfiocchi, e benché fosse finito da quasi tre ore, la gente aveva ancora voglia di spaccarsi gli organi il più chiassosamente possibile, a cominciare dalla ragazza che stava decorandosi il corpo nudo con croci di scotch rosso; una specie di performance metodo Stanislavsky su cubo di plexiglas roteante; e non riuscivi mica a staccarle gli occhi di dosso. Interpretava una sexy non morta in fase di resurrezione, forse: tipo che i pezzi di scotch incrociati simboleggiavano le arterie concettuali della non sacralità postmoderna, o qualcosa del genere.
Lui – front man del complesso folk metal che aveva glorificato la serata, e che d’ora in poi chiameremo Jack – la immaginava con una biglia di miele d’acacia nascosta sulla lingua, dietro quel sorriso da dischiudere a morsi, un sorriso da squarciare almeno fino all’alba. La base dei New Order alimentava simili visioni (era Bizarre Love Triangle, credo). Eppure, quelle Clarks nere troppo nuove, che con quel mezzo numero in più sarebbero state perfette, gli stavano spappolando il cervello. Sentiva i piedi pulsarci dentro come palle da bowling ormai ricoperte di sangue; l’osso scoperto della caviglia, trinciato dai passi, appiccicava la pelle viva sul cuoio.
Ma Jack non poteva certo dare segnali di debolezza, attorniato com’era dai suoi accoliti, più o meno adoranti, più o meno imbottiti di acidi. Era riuscito ad accavallare le gambe su un angolo del tavolino, rovesciando il relitto di un Negroni sul prato e, puntellando il gomito destro sul cuscino zebrato, era altresì riuscito non solo a simulare una stoica posa scialla, ma anche a trovare la prospettiva affinché la sexy non morta si esibisse nel punto medio della bisettrice del triangolo isoscele disegnato dalle Clarks accavallate.
Poco sopra il gomito destro, Jack si era fatto tatuare un aeroplanino di carta stilizzato: l’ultimo giorno di liceo, quando era ancora un po’ goffo e perfino illuso, aveva scritto un bigliettino Ti vuoi fidanzare con me? con un quadrato lasciato bianco per il SÌ e uno per il NO; lei il lapis lo aveva abbassato, ma poi le sue unghie affilate avevano trasformato il bigliettino in un piccolo aeroplanino di carta, e la risposta era volata fuori dalla finestra al suono della campanella. Jack non aveva mai avuto il coraggio di cercare la ragazza dopo quel giorno e, rimossala da Facebook in lacrime, aveva proposto agli amici della band di chiamarsi Paper Plane; da allora cominciarono a girare il mondo in tournee e a fare la fortuna del folk metal così come lo conosciamo oggi.
La sexy non morta era riuscita a foggiarsi una specie di abito corto in scotch rosso, e aveva tutta l’aria di aver terminato la performance, perché la sua sagoma si era allargata sempre più rapidamente nell’armonia prospettica delle Clarks; e, con sommo dolore di Jack, si protese oltre la quasi perfezione del triangolo fittizio strizzandogli la punta delle scarpe:
– Ehi, tu devi essere Jack!
– Beccato!
– Perché questa faccia distrutta, non ti piaccio più?
– Scherzi, stai una favola!
– Forse hai bisogno di fare due passi, ti accompagno.
– Gentilissima, magari dopo.
– Ti è piaciuta la performance?
– Più di quanto tu possa immaginare.
– Davvero?
– Hai talento.
– Be’, ho fatto la NABA.
A quel punto Jack non resistette, e volle verificare personalmente la presenza della biglia di miele d’acacia sulla lingua di lei; la biglia c’era: dolce, luminosa, destrutturabilissima.
– Dimmi a cosa hai pensato mentre mi baciavi.
– Non so se hai presente.
– Cosa?
– Quell’ultima goccia di pioggia che dopo la pioggia ti scivola sotto il cappotto.
– Bella! Sembra il ritornello di una canzone, dovresti scriverla!
– Dici?
– Sai, mentre mi preparavo per la performance, ho frugato un po’ nel tuo camerino e ho trovato questo aeroplanino di carta in una scatola di Clarks.
– L’hai aperto?
– Ho pensato che magari rischiavi di perderlo.

Terminal 3

– Scusa, dove posso trovare una farmacia?
– Terminal?
– Questo.
– Bea?! Sul bicchiere di carta c’è scritto Bea: ecco il tuo espresso doppio!
– Grazie, è sempre esaltante prendere un caffè da Starbucks.
– Come?
– Niente.
– Dai, spara!
– Voglio dire che puoi inventarti nomi di fantasia, o addirittura usare il tuo, sapendo che prima o poi qualcuno ti chiamerà per darti qualcosa, e quel qualcosa spetta solo a te.
– Non ci avevo pensato; forse qui i pensieri scoppiettano come miniciccioli nello sbrilluccichio del duty-free, lasciando tanti piccoli buchi neri.
– Senti, io credo di aver bisogno di una farmacia.
– Be’, qui al T3 di farmacie ce ne sono 9, dipende da cosa stai cercando.
Bea si voltò a controllare il gate del suo volo su un pulviscolo di schermi a scorrimento troppo rapido e in lingue che non riusciva a decifrare; alle sue spalle, dietro quegli schermi, troneggiava un gigante orsacchiotto di peluche, nero e beige, in mezzo a quella che avrebbe potuto essere la riproduzione di Place des Vosges in versione manga. Lei strizzò gli occhi, ma come risultato ottenne solo un piacevolissimo slittamento della lente a contatto sinistra verso un angolo remoto della cornea. L’orsacchiotto gigante reclinò il capo su una spalla e le rivolse una smorfia acrilica, squarciando l’atmosfera poco sincera di quel Terminal. Mettendo mano al portafogli, un quasi abbondante shot di caffè le si rovesciò sul completo di Armani, ma, prima che avesse il tempo di crocifiggere tutte le madonne, le braccia da ex giocatore di rugby del barista la cinsero da dietro.
– Bada di non guardarlo troppo negli occhi: quello è un cyborg che con un clic ti clona carta di credito e DNA.
– Balle, toglimi le mani di dosso, stiamo dando nell’occhio.
– Pensi che qui importi qualcosa a qualcuno?
– Sì, importa a me, e adesso lasciami!
– Sei una spia postmoderna?
– No, ma mi diletto nell’intaglio degli avocadi.
– Capisco, non deve essere semplice senza un complice.
– Il mio fidanzato mi ha appena inviato un messaggio vocale.
– La mia bocca è troppo vicina al retro del tuo orecchio per lasciarti andare.
– È l’ultimo di Yves Saint Laurent.
– Ogni aeroporto un tester diverso, altrimenti Air Berlin ti traccia?
– Qualcosa del genere.
– Comunque non c’è bisogno di scannerizzarti per capire che sei stata mollata.
– Ti sbagli, sono felicissima.
– Davvero?
– Sì, sono felicissima.
Con uno strattone si libera dalla presa dell’ex rugbista, descrive una semicirconferenza e si ritrova a faccia a faccia con lui: volto da volpe artica, fisico wow, occhi grigi solcati da folate di vento incessante, odore di erba sanguinante; una di quelle bestie con cui ti tufferesti nell’Acheronte, per assaporare nelle fauci che ti sbranano prima della riva la verità del piacere più assoluto.
– Okay, bellezza, sarò breve.
– Non abbiamo molto tempo.
– Le assassine bionde sono sempre le più smart.
– Smettila, dimmi quanto vuoi per il tuo silenzio e finiamola qui.
– Scommetto che non sei bionda e che non sei nemmeno Bea.
– Sai che non potrebbe funzionare.
– Invece sì.
– Come?
– Scriverò il tuo nome su tutti i bicchieri di carta, così sarò te anche solo per la durata di un sorso.
– Ma io non sono Bea.
– Se è per questo, non sei neanche felicissima.