Ringraziamo Safarà Editore per averci concesso di pubblicare in anteprima il racconto “Sortita” di David Hayden, tratto dalla raccolta “Il buio a luci accese” in uscita giovedì 18 aprile 2019.

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Ne è passato di tempo da quando sono saltato giù dal cornicione.
Ho liberato la scrivania e salvato le cose importanti su una pennetta che tenevo nel taschino. Tutto il resto: cancellato. Ho individuato una finestra da cui, dopo ripetuti tagli, ho ricavato un’apertura e sono uscito sopra un angusto cornicione e, una volta in aria, ho provato una sensazione di sollievo, di perdita di peso. Ho iniziato a osservare l’edificio come se lo vedessi per la prima volta: i riflessi ambrati della pietra, i riquadri color terracotta, lisci e scanalati; i pannelli di vetro trasparente. L’occhio e la mente non facevano che spostarsi deliziati da un particolare all’insieme dell’edificio. Provai una gran gioia nel trovarmi per sempre fuori da lì.
Mi aspettavo di sentire freddo, ma l’aria era mite, la velocità gradevole, la freschezza immensa e commestibile. Ricordo di aver dato una rapida occhiata in alto e di aver visto i colleghi amministratori guardare allarmati dalla finestra della sala riunioni. Tutti tranne Andrew, che aggiustandosi il nodo della cravatta sorrise e salutò con la mano.
Di colpo mi sono fermato in aria, riguadagnando il mio peso, che pareva essere finito tutto in fondo allo stomaco; con le braccia e le gambe che mi penzolavano in avanti, ho guardato in basso e ho visto una donna con un caschetto castano e gli occhi rivolti in alto – di sicuro ero troppo distante per distinguere un caschetto castano. Lei ha spostato lo sguardo, sulle sue scarpe o verso la portiera di un taxi giallo che si era appena accostato al marciapiede, e io ho ripreso la discesa alla stessa velocità di prima; la portiera del taxi si è aperta, e salendo lei mi ha guardato di nuovo, e di nuovo io mi sono fermato a mezz’aria con uno scossone, udendo il tonfo della portiera che si richiudeva – probabilmente ero troppo lontano per sentire il tonfo della portiera che si richiudeva – poi ho ripreso a scendere ancora, con rinnovato piacere. Mi sono messo a cantare, e le parole vecchie e stantie mi si staccavano dalla bocca per risalire là, dove si era svolta la mia vita.
Alcuni fogli mi sono volati incontro. Ne ho preso uno e ho iniziato a leggere:

Dritto incrociato, più rapido della vista, e lui è lì in ginocchio che piange, il pubblico esulta, sono tutti in piedi, e lui è ancora lì in ginocchio, la testa tra le mani, quasi a volerne trattenere lo scoppio, lo spargimento del suo contenuto, mentre l’avversario con un balzo ha superato la rete ed è in piedi lì vicino, a guardare il vincitore che piange. Arrivano l’allenatore e la madre del vincitore, sono in piedi attorno a lui e il pianto continua finché il pubblico si zittisce. Lo sconfitto si avvicina e posa la mano sul capo ricciuto del vincitore e lui si calma, resta immobile; le lacrime si fermano.

Il foglio mi è sfuggito di mano.
Mi ero fatto l’idea di poter mantenere una velocità più o meno costante, con piccole variazioni a seconda della resistenza che opponevo al vento aumentando o diminuendo l’entità del mio ingombro; ma mi sono accorto che stavo accelerando. Eppure, dopo qualche istante, ho notato che il suolo era più lontano di quanto mi sarei aspettato e anzi, come se non bastasse, pareva allontanarsi a una velocità superiore a quella con cui stavo cadendo. Nel voltarmi di lato, ho visto l’edificio rimpicciolirsi e, nonostante la velocità che lo rendeva sfuocato, ho cercato di individuare, attraverso le finestre, i cubicoli illuminati dove c’era gente tesa, volti disperati, sorridenti, vuoti, impauriti, soddisfatti, di profilo. Tutto come doveva essere.
Molti raccoglievano borse e cappotti e si dirigevano verso le uscite. Un attimo dopo spingevano le tre porte girevoli del piano terra che davano sulla strada. Tornavano a casa.
Le case sono luoghi familiari perché vi si fa ritorno di continuo. Il tempo è nella fragranza del ritorno, e non si tratta di pane appena sfornato, bucce di limone, foreste di pini innevati o il collo della madre; non è solo caffè stantio, fumo stantio, sudore stantio, odore acre di detersivi o gli intensi, indicibili effluvi che negli edifici nuovi o vecchi si ripropongono nell’aria viziata del quotidiano; è il substrato che creiamo, da soli o insieme agli altri, con le esalazioni chimiche racchiuse nella nostra pelle, con le scelte che facciamo, o che qualcun altro fa per noi, ciò che assorbiamo, ciò che appare all’esterno e tutto quello che era lì prima di noi e che ancora possiede una traccia in grado di imporsi. La fragranza del ritorno a casa è tutto ciò che abbiamo fatto ed è stato fatto e che ci viene restituito in un attimo, appena la porta si apre.
La notte è scesa senza che me ne accorgessi. La luce arancione dei lampioni al sodio e il pallore effervescente della luna sono comparsi come conseguenza delle rispettive cause. A ogni piano qualcuno lavorava solitario, illuminato dalla lampada della propria postazione o della scrivania degli studi personali. Il mio ufficio, elegante e confortevole, stava in alto, vicino alle nuvole. Quella era la situazione, il momento e l’occasione perfetta per fare soldi mettendo in moto le cose. Ogni ora di lavoro era come il battito di un cuore, veloce e lento, a ritmo sinusale o incoerentemente asincrono, legato a tutti gli altri in apparente continuità, ma poi ogni volta spariva, spariva, spariva.
Quelli come me, che anche nelle scelte più semplici si lasciano guidare da antiche abitudini, sarebbero andati a dormire e, sebbene mi sentissi stanco, mi sembrava rischioso e poco educato cadere addormentato ora, cioè dormire mentre cadevo, così ho resistito fino all’alba, quando gli occhi sono diventati l’unica parte del mio corpo con un peso, tanto che li sentivo spingermi verso terra, sfere verso la sfera. Per un po’ sono rimasto privo di sensi e sognante – due cose del tutto inutili – e mi sono risvegliato ai primi chiarori cercando una coperta che non c’era, con la vescica piena e tutta contratta nel ventre. Mi sono girato, ho tirato giù la cerniera, e ho annaffiato la strada con sollievo, senza ritegno. Poi c’è stato un moto di entità maggiore nelle viscere e così mi sono abbassato i pantaloni, e mentre mi sforzavo di evacuare, guardavo la sostanza marrone volare via e piombare in strada dove, suppongo, sia deflagrata in schegge fecali. Solo mentre mi ricomponevo, ho capito di aver fatto una porcheria, ma un attimo dopo già non ci pensavo più.
Gli impiegati stavano tornando, reggendo tra le mani grossi tubi bianchi pieni di caffè. Raggiungevano chi era rimasto tutta la notte a lavorare su quesiti refrattari, esaminavano tutti i più minuti dettagli oppure facevano un passo indietro per guardare nell’insieme l’analisi di rischi o perdite, per trovare soluzioni in grado di scovare denaro ovunque esso fosse intrappolato: dentro corpi, componenti, cervelli o minerali; in idee, desideri, rabbia, semplici possibilità. Tutti impegnati ad aggiungere altro al troppo.
La strada era coperta di neve: candida, poi striata e infine ammassata ai bordi; grigia e nera e poi dissolta. Sui rami spogli degli alberi del viale erano germogliati riccioli verdi che stavano per schiudersi ovunque, ammantando il bosco e dando vita a boccioli, fiori e petali cadenti. Il sole ha sepolto la città col suo calore; la stella è impallidita, lilla nei sogni, giallo sporco in cielo. Le foglie sono diventate secche, degradando in una scala di oro, arancio, giallo e marrone, per poi cadere in grassi cumuli screziati. Ancora neve, bianco ovunque, silenzio, procedendo a ritroso verso il verde, l’oro e il bianco. Piccolissime vibrazioni del sole nell’aria, aria che preme verso il suolo, aria che preme su se stessa – gradi di umidità che vanno da secchezza cinerea a oceano dilagante, calore che si insinua e aumenta, corpi rigonfi e aria. Tutti i giorni dentro un unico giorno.
Le automobili sembrano più grandi: gusci lucenti e fragili che si muovono piano, simili nella loro grande varietà; poi diventano più piccole e veloci, punti lampeggianti che non si toccano mai tra di loro – sono sempre meno finché il viale si svuota di tutto ciò che è mobile, tranne qualche sporadica vecchia bici – ciclisti curvi sul manubrio, volti coperti da una mascherina chirurgica.
Mi volto e sorrido al cielo. Uccelli dalle ali possenti, ampie come nuvole, volteggiano nell’aria, il sole lampeggia sui loro corpi lisci, e nel girarmi mi accorgo di essere sceso di molti piani e che il suolo si sta avvicinando in fretta. Chiudo gli occhi e inizio a contare alla rovescia. Quando li riapro mi accorgo di essere sceso di molti piani e che il suolo si sta avvicinando in fretta.
Ne è passato di tempo da quando sono saltato giù dal cornicione. Tutto quello che mi stava a cuore, l’ho salvato.

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David Hayden
Il buio a luci accese
Traduzione di Riccardo Duranti
Safarà Editore
p. 200