di Yannick Garcia
traduzione di Francesca Regni

Oggi è il giorno della Luna e mi sveglio con mio figlio. La stanza da letto è come immobile; nei momenti in cui le cose accadono per la prima volta, è sempre così.  Mio marito si è svegliato un’ora prima, si è fatto la doccia, si è vestito ed è partito per la Danimarca, dove starà una settimana per lavoro. Mi ha fatto notare che si trattava di cose importanti. Prima di partire mi ha portato nostro figlio, appena arrivato, nel letto e l’ha lasciato al mio fianco. La sua testolina si è adagiata nella cavità che, alcuni minuti prima, mio marito aveva lasciato sul cuscino, anzi, una parte ne è rimasta scoperta. Mi ha dato un bacio e mi ha detto che lo infastidiva molto doversene andare, che non sapeva se avrebbe sopportato stare tanto tempo lontano da noi. Io gli ho mordicchiato l’orecchio e gli ho dato un buffetto per farlo partire una volta per tutte, poi  ho ripreso a dormire, non senza aver prima appoggiato il mio mignolo sul palmo della mano destra di nostro figlio. Ci si è attaccato come una scimmia a un ramo.
Quando finalmente mi sveglio,  Àngel mi guarda con gli occhi spalancati. Non ride molto ancora, si limita a osservare con cautela. Forse per ora non si fida. D’altronde è con noi da appena un mese e mezzo. Aveva due settimane quando ce lo hanno affidato. Abbiamo avuto fortuna, era piccolino. Di solito sono più grandi e nei corsi preparatori ci dissero che, in quei casi, il bagaglio di vita che si portano dietro esige molta pazienza. Quella che sì è cambiata, in questa settimana, è la complicità. Forse è la nostra immaginazione, ma si cominciano a tessere fili invisibili, leve che si attivano con uno sguardo o un tono di voce. Si tratta di connessioni impercettibili, come gli infrarossi di sicurezza di un museo.
Lavoro da casa e sto accettando meno lavoro per poter godere appieno di questi primi mesi con Àngel. Vivere nelle montagne di Vallvidrera ci permette di uscire a passeggio spesso. Mi piace che venga bagnato dal sole e che non debba sentire troppi rumori. Ho solo avuto paura l’altro giorno, quando ci siamo imbattuti in dei cinghiali. Gironzolano sempre per il quartiere, a volte a pochissimi metri dal giardino, però non avevo avuto mai paura, fino a che, un giorno, mentre stavo portando Àngel col passeggino, un senso di assoluta vulnerabilità mi avvolse di fronte alla possibilità che si innervosissero. Ma ci ignorarono completamente.
Anche se alla fine non è successo niente, mi lasciò un retrogusto amaro in bocca.
Oggi devo inviare una cronaca su alcuni blog scientifici che mi intrigano, però ho tempo. Prima facciamo colazione insieme e gioco un po’ con lui. Dopo ripasso i temi che voglio inserire nell’articolo, un blog su argomenti di salute domestica, uno sulla nanotecnologia nel settore farmaceutico, l’altro su uno stravagante ingegnere che inventa apparecchi (ancora oggi). L’articolo analizzerà la creatività giornalistica dei redattori amatoriali, me l’ha incaricato una rivista con la quale collaboro sporadicamente. Vogliono sapere se noi, i professionisti, li vediamo come una minaccia e che ruolo abbiamo in tutto questo. Il foglio bianco è per tutti? Che funzione svolgono i filtri di fronte alla valanga di informazioni che girano oggigiorno? Cose del genere. Un articoletto in più. Nessuna sfida preoccupante che impedisca di affrontare la giornata. E, di fronte all’asepsi intellettuale, ho solo voglia di giocare con il mio angioletto ed esserci quando farà il suo primo sorriso, che oramai si fa aspettare da un po’.
Dopo poco ascolto un gorgoglio proveniente dalla culla. S’impone un cambio di pannolini. Approfitto per staccarmi un momento dal computer e prepararci un bagno caldo. Metto un po’ di musica in sottofondo ed evito di bruciare incenso, sospetto che non gli piacerebbe. Ha ancora le cavità nasali deboli. Quando, poco fa, ho letto il blog sulle industrie farmaceutiche, la ragazza che lo gestisce parlava di alcuni microchips intelligenti che, in un futuro prossimo, scopriranno il punto focale del dolore all’interno del nostro corpo e doseranno le quantità di farmaci che sarebbe necessario dispensare in ciascun caso. Non parlava in nessun momento della sorte destinata ai chips una volta eseguito il loro dovere; se li evacueremo dalla via più scontata o se saranno biodegradabili. Non mi piace pensare che, in un momento dato, potremmo avere delle schegge metalliche che ci pattugliano il corpo e che si muovono liberamente in esso, però non posso farci niente adesso. È un annuncio del futuro, non il futuro in sé.
L’acqua è molto calda e cerco di fare attenzione quando immergo Àngel, che, non senza inquietudine, ci sguazza dentro. Muove le labbra solo soffiando. Fa dei gesti molto adulti, o perlomeno, a me sembrano tali. Soffia come farebbe un ottuagenario in una sauna. Prima lo bagno ben bene e poi, mentre canto, stonando clamorosamente, lo insapono. Mi rallegro del fatto che ancora non abbia orecchio musicale e non mi giudichi. O, come minimo, che non lo manifesti. Sembra contento.
“Chissà, forse nonostante tutto, potremo essere una famiglia per davvero”, penso.
Mentre lo asciugo, noto che sull’unghia di un dito del piede (il dito indice del piede sinistro) c’è una macchia. È piccola, in forma di mezzaluna e di colore violaceo. Si fa la pipì addosso all’improvviso, e smetto di pensare a quella macchia.
Dopo un po’ torno davanti al computer e leggo le raccomandazioni della seconda pagina web: I consigli del dott. Casalingo. Ti fanno male gli occhi da quanto scrive male, però riconosco che ha qualcosa di intrigante. Non è facile captare l’attenzione mediante trucchi di igiene domestica, almeno quella dei lettori che non cercano risposte a nessuna domanda e che si limitano a rimbalzare nella blogosfera. I suoi post sono freschi e rivelano un’adeguata dose di cinismo e critica sociale. Ti fanno sempre sentire leggermente colpevole di fare o smettere di fare non si sa cosa, però la critica è costruttiva, ti riserva sempre la possibilità di redimerti effettuando un piccolo investimento economico o cambiando qualche semplice abitudine. È divulgazione efficace e mi viene il dubbio del fatto che non tutti noi, appartenenti ai grandi mezzi di comunicazione, siamo in grado di raggiungere lo stesso effetto. Gli farò fare una bella figura e approfitterò per raccomandarlo a qualche buon correttore che ne ripulisca gli errori.
L’ultimo dei suoi post che leggo, tratta di allergie cutanee ed è l’ultimo perché mi porta di nuovo, irrimediabilmente, a pensare alla macchia violacea. Mi avvicino al lettuccio di Àngel, gli scopro la gamba e gli tolgo il calzino per osservarla più da vicino. Ha un brivido. Anche se sembra impossibile, lo so, giurerei che è più grande di quando l’ho vista per la prima volta. Si sveglia spaventato e piange un po’, ormai collego i suoi strilli alla macchia, tanto vale andare dal medico, così mi tolgo ogni dubbio. A quest’ora sicuramente non ci sarà un’anima.
Mi sbaglio, una rarità. La sala d’attesa è abbastanza affollata; adesso capisco che deve essere così in ogni momento della giornata. Mi sforzo di leggere la stessa pagina di un romanzo leggero, mentre cullo Àngel, al quale devo contagiare sempre più il mio nervosismo, infatti non sta mai fermo. Mi sembra che tutti mi stiano guardando e mi stiano recriminando la mia poca idoneità. Non ho ancora guadagnato il fatto che mi possano vedere come genitore a tutti gli effetti. Sono in prova.
Alla fine ci viene incontro un medico di una certa età e con un’alopecia abbastanza avanzata, ha una lentiggine, che sembra un tartufo, sulla guancia. Mentre gli racconto cosa mi preoccupa del bambino, m’impappino, condotta che dice pochissimo di me, come se nascondessi qualcosa. Il medico gli analizza il dito con attenzione e mi dà un colpetto sulla spalla per tranquillizzarmi, però invece di lasciarci andare mi chiede di aspettare ed esce dall’ambulatorio senza darmi troppe spiegazioni. Mi dico che sarà andato a prendere delle caramelle per Àngel, senza badare al fatto che alla sua età non sarebbe un regalo molto adeguato. Preservativi? Non ancora. M’innervosisco, penso stupidaggini. Dopo alcuni istanti ritorna affiancato da un collega più giovane, più abbronzato e con dei denti orribili – ciò nonostante, anche lui ha un sorriso appiccicato alla bocca mentre mi saluta. Mi chiede permesso per esaminare l’unghia in questione e fa delle piccole pressioni, che non so proprio a cosa servano. Àngel piange sempre di più. Non mi azzardo a rimproverare il medico, che evidentemente gli sta facendo male. Si parlano sottovoce alcuni secondi dandomi le spalle. Alla fine mi dicono di sedermi e mi danno la notizia.

Quando mi sveglio da un sonno breve e agitato, il giorno di Marte brilla già dalla finestra.
Àngel è sorprendentemente tranquillo, fino al punto che gli metto il dito sotto il naso e lo scuoto per vedere se reagisce. Per fortuna fa solo delle smorfie e si riaddormenta. Ne approfitto per tracciare una strategia. Ieri, quando mi ha chiamato Arnault, gli ho detto che non potevo stare al telefono, che stavo preparando la cena e il bambino aveva fame, però ci siamo messi d’accordo che ci saremmo sentiti con calma oggi, verso mezzogiorno. Ancora non so esattamente cosa gli dirò.
Mi alzo con cautela e accendo il computer. Ho gli occhi appiccicati e i capelli mi prudono. La prima cosa che faccio è chiedere scusa alla gente della rivista per non aver consegnato ieri il mio pezzo e prometto loro che oggi stesso invierò qualcosa. Il responsabile del contenuto è gentile e mi risponde subito per dirmi che, se ce l’hanno prima delle 12.00, guarda, di lusso! Poi mi preparo un caffè americano e mi metto a cercare gli agghiaccianti termini medici che hanno pronunciato i dottori e che dubito di ricordare con esattezza. In mezz’ora ho aggiunto al mio vocabolario mostruosità ortografiche come “nevus”, “telangiectasia”, “neurofibroma” o “schwannomatosis”. Nessuno di questi rispecchia la diagnosi che mi hanno dato, però ogni pagina rimanda gradualmente ad altre pagine, che mi aggrovigliano le budella sempre un po’ più forte, fino a che sento che arrivano i conati di vomito ed esco correndo verso il bagno. In ginocchio, mentre mi asciugo la bocca, sento Àngel che si sveglia e il telefono che squilla, non so in che ordine.
Scelgo nuovamente di non rispondere perché voglio approfittare del fatto che il bambino sia sveglio per esaminarlo con attenzione. Gli tolgo i vestitini e lo illumino con una lampada per vedere meglio, dato che il bambino dorme in un angolo abbastanza riparato. Con lo scintillio che entra dalla finestra le particelle di luce si dileguano. Non gli vedo altre macchie a parte quella. Il dottore dagli orribili denti mi ha detto che era ancora troppo presto, che aveva solo la macchia in quell’unghia e che non si era estesa, e che era una buona notizia. A ogni modo non sembrava troppo entusiasta. In più, mentre cercava di spiegarmelo, si ingarbugliava. Brutto segno.
Quando mi accorgo che il numero che appare di nuovo sullo schermo del telefono è di Arnault, lo chiamo io dal mio, così non può sospettare. Prima che mi faccia domande gli dico che ero in bagno (così non gli mento) e che tutto va di meraviglia (in questo un po’ sì). Non è che avessi voluto mentirgli, ma la frase si è pronunciata da sola, come fosse prefabbricata, non ho la sensazione di averla articolata in maniera cosciente. Però l’automatismo non finisce qui. Gli racconto la giornata di ieri, fittizia, nella quale ho soltanto camminato, ho contemplato, intrattenuto, cucinato e  riposato. «Come ti tratti bene!», mi dice e mi confessa che gli manchiamo.
«Àngel e io non vediamo l’ora che torni», gli rispondo. Altra bugia. In questo momento non voglio rivederlo. Non posso, non fino a che non riesca a risolvere questo imprevisto. Non fino a quando non abbia incontrato qualche soluzione, o, almeno, qualche buon alibi. Mi saluta senza mostrare alcuna fretta di buttare giù. Sembrerebbe che in Danimarca faccia più freddo di quello che si aspettava. Ha dovuto comprarsi una sciarpa e dei mutandoni fino ai piedi.
Questa giornata è lunghissima e inutile. L’unica cosa che riesco a fare è pensare alla macchia. Cerco di sollevare leggermente l’unghia per vedere se riguarda solo la cute o se il colore indica la presenza di un tumore nascosto più in profondità, però è molto in dentro e lui mi dà dei calcetti perché crede che sto giocando. Nel pomeriggio proseguo con le mie ricerche su internet, questa volta voglio vedere se tra le immagini trovo una macchia che sia identica a quella che ha mio figlio nuovo di zecca. Quando appaiono tutte le miniature in fila, scoppio in lacrime. Quanta carne putrefatta, quanta pelle annerita, quanto corpo andato a male.  Non mi ero mai soffermato a pensare a questo, io mai…
Sto malissimo. Devo fare qualcosa.

Sono le prime ore del giorno di Mercurio e io le saluto di fretta, con Àngel infagottato tra le mie braccia, schivando il camion che scarica il pesce nel negozio del paese. Vado in direzione contraria a quella del mio medico di base, perché non voglio creare sospetti. Quando sarò nello studio dell’altro medico, che sta poco più lontano, vedranno che si tratta di un’urgenza e capiranno che siamo andati all’ambulatorio che affermerò essere più vicino, invece di  quello che ci corrisponde per domicilio.
Àngel urla come un maialino mentre entriamo al Pronto Soccorso e io ho l’anima sotto i piedi. Un sorvegliante della stazza di un armadio mi dice di calmarmi e mi obbliga a sedermi in una brandina di cuoio che c’è dietro a un paravento. Alcuni secondi dopo arriva la dottoressa. A giudicare dal colore della sua pelle si direbbe che sia mediorientale, anche se ha un accento delle Canarie. Àngel lancia un urlo e si zittisce di colpo. Lo scopro così lo può vedere e io stesso devo mordermi le gengive per non gridare, perché il sangue si è raggrumato e ha la carne del dito escoriata. La dottoressa pronuncia un «ui!» e mi guarda con la coda dell’occhio, esigendo una spiegazione che ho ripetuto tra me e me per un’ora e che però alla fine cambio raccontandola. Riguarda una babysitter molto giovane della quale io non mi fidavo molto, bipolare, figlia di alcuni amici ai quali abbiamo affidato la cura di nostro figlio, per darle un’opportunità. Nessuno credeva in lei, da giorni faceva dei commenti infelici, apparentemente innocenti, però detti da lei un po’ troppo connotativi: «questa cosetta me la mangerei», «ti strapperò quelle unghiette e ci farò una collana», etc…
La dottoressa per prima cosa cura la ferita del dito di Àngel e io, per alcuni secondi, mi convinco che tutto andrà bene. Dopo che tutti si sono calmati, le chiedo se vede qualcosa di strano nel dito. Qualche tipo di colore che le faccia venire dei dubbi. Qualche protuberanza. Mi dice che a semplice vista niente di tutto ciò, però che potrebbero fargli delle prove, se così mi sento più tranquillo. Mi dice anche che avviserà la polizia. Io insisto dicendo che lo farò io, che non si preoccupi, che l’importante è che il bambino stia bene. Glielo ripeto, storce la bocca e credo sia arrivato il momento di andarcene. Quasi scrollandomela di dosso, esco spintonando una signora bassina nella sala d’aspetto, con Àngel che continua a piangere avvolto nella coperta della nonna.
Per fortuna  il pomeriggio è tranquillo. Lo stomaco mi si è aperto, abbastanza per ingerire un piatto di fagioli con uno spruzzo d’olio. Arnault non ha chiamato e io ho potuto terminare di leggere il blog dell’inventore. Parla solo degli oggetti brevettati, ovvio. Quelli che ancora non ha finito, si limita semplicemente a insinuarli attraverso formule poco compromettenti, come per esempio: «leggere in piscina da sempre è una seccatura» o «a chi non piacerebbe svegliarsi galleggiando?». Le immagini che aggiunge sono di buonissima qualità, con dettagli e prospettive che in nessun momento mi hanno fatto pensare ai cataloghi industriali di ferramenta. Penso che ho visto abbastanza per trarne conclusioni grandiose e togliermi di dosso l’articolo.
Alle sei del pomeriggio, mentre correggo l’ultima versione, Àngel dorme. Era esausto e gli ho dato il calmante che mi ha prescritto la dottoressa. Una pasticca e mezza, così può riposare meglio. Dato che io ho preso la metà che avanzava, adesso faccio fatica a formarmi un’opinione solida sull’articolo. Una mosca che mi passa vicino mi distrae. Mi sembra che il dott. Casalingo meriti più attenzione. Rileggo alcuni dei suoi posts a caso e mi soffermo su uno che parla di una bomba di farmaci anticancerogeni. Il farmaco s’insinua nel tumore come un cavallo di Troia ed esplode. Uccide il tumore senza danneggiare le cellule sane. Non vedo relazione alcuna con l’igiene domestica, così cambio d’opinione: decido che, nel mio articolo, lo spazio destinato al suo blog lo occuperà una critica ai giornalisti senza carriera, i quali non offrono il prodotto che promettevano all’inizio, ma, invece, approfittano della tribuna pubblica che gli offre la rete per sfoggiare una conoscenza strettamente enciclopedica. L’accumulazione di dati senza valore aggiunto non interessa nessuno. Si deve fare molta attenzione quando si intercetta l’attenzione dei cittadini nella rete e quando questi regalano dei secondi di connessione. Se cerchi di fargli passare il gatto per lepre, sparisci di colpo con un click.
Nonostante ciò, leggo i commenti che alcuni lettori hanno lasciato alla fine del post. Profe34 mi dà ragione: «Niente che non abbia letto in The Lancet. Devo comprarne uno per l’armadietto delle medicine di casa?». Gli altri sono fan incondizionati: «Molto interessante, come sempre», «Grazie ancora una volta, dottore. Lei ci azzecca sempre». L’ultimo è di una mamma disperata: «A mia figlia le hanno trovato una oligodendroglia. Le convulsioni sono fortissime, non smette di piangere dal dolore. Mi aiuti, la prego. Cosa devo fare?». Il commento è di due mesi fa, da allora nessuno ha scritto più niente.
Nella cameretta di Àngel, le imposte sono ben aderenti e non lasciano entrare che un filo di luce dal lampione. La valle scintilla con l’elettricità del crepuscolo. Àngel mi guarda sfiduciato, però senza timore, in stato di allerta, tutto qui. Mi sfida a che qualcosa succeda, a chi fa la prima mossa, lo vedo. Io mi fermo a osservarlo per un lungo momento, sondandogli l’anima, fino a che, alla fine, mi rendo conto e, senza alcun dubbio, che il problema non era l’unghia.

Inauguro il giorno di Giove con lo squillo raccapricciante del telefono. Arnault vuole darci il buongiorno, e io non ho il coraggio di mentirgli nuovamente. Il sudore si è seccato tra le pieghe del mio corpo, ho come delle croste da tutte le parti e so di marcio. Mi dice che ha moltissima voglia di tornare, io gli rispondo in automatico con tono robotico, che manca solo un giorno, che domani arriverà anche se tardi, però che sarà presto qui.
Àngel ha smesso di piangere, per fortuna. Quando sono sul punto di sfogarmi, Arnault mi dice che lo chiamano dalla reception, e che parleremo dopo. Gli dico di non stancarsi troppo. Prendo mio figlio abbattuto, immobile come un feretro, e prendiamo un taxi in silenzio.
L’ambulatorio della mia amica si trova a Guinardó, però non mi apre nessuno quando arrivo davanti al pianerottolo d’ingresso. Chiamo al telefono che ho memorizzato, che è quello di casa sua, e mi risponde suo marito, che ho intravisto solo una volta a un cocktail, una notte, tra alcuni vigneti, però non lo conosco per niente. Lo prego per favore di avvisare la sua signora che è veramente urgente e che l’aspetto all’ambulatorio. Cullo Àngel con dolcezza, come se stesse dormendo e non volessi svegliarlo. Un vicino dalla pelle meticcia apre la porta e mi chiede se voglio accomodarmi fino a che non arrivi la dottoressa. Dall’interno del suo appartamento trasuda un odore di spezie. Rifiuto con gratitudine. La mia amica mi chiama e mi avvisa che arriverà non appena riesca a trovare un parcheggio.
È più di un anno che non ci vediamo, in fin dei conti non siamo poi così amici. Le cadono le chiavi dalla borsa fino a che riesce ad aprire la porta. Non sapeva che avessi un figlio. Le supplico assoluta discrezione, non le potrò dare nessuna spiegazione di quello che vedrà, però lo deve salvare a tutti i costi. Per favore. Tolgo la coperta a Àngel. Gli occhietti citrini del mio bambino si sono induriti. Ha le braccia pallide e una gambetta gonfia. Scosto il groviglio di bende fradicie che gli coprono il piede. L’amica manda giù saliva e si scusa: è endocrinologa, non ne ha idea e tantomeno è equipaggiata per curare questo genere di casi. Nell’appartamento sottostante vive un’infermiera, dice, probabilmente ancora la troviamo in casa. Esce dall’ambulatorio per andare a cercarla. Mi chiede di sedermi e aspettare. So che potrebbe non tornare o portare rinforzi, però oramai non ho più forze, non ho altra scelta se non quella di correre il rischio.
Dondolo Àngel tra le mie braccia e gli canto qualche canzone degli anni ’80, una dei Simply Red o una dei Cure, che sorprendentemente compiono la loro funzione di ninna nanna. L’amica ha le pareti dell’ambulatorio tappezzate di animali disseccati. Sarà una patita di falconeria, perché sotto alcuni pezzi ci sono delle piccole cesta con vari arnesi: cappucci, bisacce, cinghie, staffe. Un gheppio mi osserva con la coda dell’occhio, carica di rimproveri. Però rimango pietrificato davanti a un imponente avvoltoio che ha una pellicola azzurra negli occhi. Noi, Arnault e io, siamo lui. Uccelli rapaci che rubano ciò che possono da chiunque. Viviamo in una casa che abbiamo vinto a una subasta municipale di sfrattati. Abbiamo un figlio tolto a una famiglia di drogati. Ricicliamo come se, da un momento all’altro, arrivasse la fine del mondo. Abbiamo un garage pieno di mobili che decapiamo e restauriamo con piacere. Facciamo il compostaggio.
Siamo saprofagi, carnivori di carnivori, e ci alimentiamo della spazzatura, dei cadaveri che avanzano. Non creiamo niente di nuovo. Sorseggiamo, mastichiamo, togliamo la polvere, diamo una mano di nuovo. Però in fondo non inganniamo nessuno.
La porta dell’entrata mi fa trasalire e fa sbattere le pareti rivestite dai pannelli di legno. Trattengo il respiro quando entrano le due donne che devono salvare mio figlio, che già è da un pezzo che non brontola. Questa mattina al risveglio, disperato,  ho osservato il suo ditino morbido e mi è sembrato che la fascia violacea gli arrivasse alla falangina. Cosa si deve fare in questi casi? Dicono che è cruciale fermare il male alla radice. Bisogna fermare l’avanzare della putrefazione. Per prima cosa gli ho fatto un laccio emostatico col cordone del grembiule. Mi sono venute le lacrime agli occhi nello stringergli il nodo. Non so da dove Àngel tirava fuori le forze per urlare tanto. Tutto il suo corpicino gli serviva da megafono. Ho capito chiaramente il messaggio: «Non concluderai niente. Non sono tuo e non mi meriti. Mi consumerò fino al punto che di me non resterà niente e dovrai cominciare da capo a cercare un altro bambino che qualcun’altro abbia abbandonato, perché tu non mi meriti». Ho messo le braccia delle tenaglie sotto l’acqua del rubinetto e li ho scaldati con un fiammifero come fanno nei film per ammazzare i batteri. Àngel non ha urlato molto di più; si è arreso.
Siedo da più di un’ora sulla sedia di finta pelle nel corridoio. Loro spadroneggiano dentro. Mando un SMS ad Arnault per dirgli che lo amo, che accada quel che accada, lo amo. Mi risponde: «Tutto bene? Riunione. Non posso parlare». Sento commenti bisbigliati, paure, sospetti. Ricordo di averle raccontato di un cane traditore. Di averle detto che lo abbiamo ucciso con una pietra. Aveva strappato il dito, non potevamo salvarlo. Poco a poco tutto si è tranquillizzato, e mi chiedono di entrare. L’amica mi dice che gli hanno bendato il piede, che al momento la ferita si è chiusa bene e che il taglio era curiosamente pulito. Continuo a guardarla mentre conto i secondi che ho per fuggire. Il bambino, nel suo stupore, sembra felice. Voglio abbracciarla, ringraziarla, però lei mi guarda con durezza, come un patriarca inclemente. Realizzo che l’infermiera se n’è andata. Sento delle voci dall’altro lato. Prendo mio figlio con decisione e l’amica mi afferra il braccio implorandomi di restare a parlare con lei. Nell’uscire faccio cadere senza volere una damigiana di cristallo da uno scaffale, però nemmeno mi volto a chiedere scusa.

Venere ci regala un giorno tranquillo. Àngel fa colazione e muove la gamba, che ancora è un po’ infiammata, però mi sembra che abbia voglia di giocare. Leggo il mio articolo sulla divulgazione amateur nella edizione digitale della rivista. È da qualche ora che è online e già ha ricevuto tredici commenti, la maggior parte di elogio. Ce n’è uno, invece, che si chiede chi creda di essere io per giudicare la qualità o la pertinenza dei testi dei bloggers. «Chi ti ha conferito un simile potere divino?», mi sfida, «Una carriera sono ore di studio, d’accordo, però queste stesse ore le potresti dedicare ad altre cose e ottenere la stessa conoscenza, o forse anche migliore per altre strade. L’università oramai non è un contenitore del sapere. È un istituto per giuggioloni, un patio di scuola per barbuti». È inevitabile: se hai spazio per dilungarti, le tue parole sempre terminano nella deriva. Ha cominciato col criticarmi e ha terminato col criticare tutto ciò che voleva. Per questo gli SMS affascinano. E Twitter. Quanto più corto il formato, tanto meno c’è la possibilità di sbagliare. Basta pippe. Che cosa vuoi dirmi? Dillo e basta! Senza giri. Insomma, adesso io sto facendo lo stesso: visto che non ho restrizioni di spazio mentale, divago. Non siamo niente.
D’altra parte però, questo lettore ha ragione. Anche nel lavoro sono avvoltoio: do opinioni sulle opinioni, scrivo sugli scritti. Non sono d’aiuto nemmeno a far girare la ruota, che sta inchiodata in un pozzo molto profondo. Forse ciò che dovrei fare è lasciar perdere e, per una volta nella vita, correre il rischio sul serio. Lasciare che qualcosa migliori e prosperi grazie a me. Chiudo il portatile, non senza aver prima spento il sistema operativo così evito di contraddire in men che non si dica la mia risoluzione e ritorni a perdere tempo con le opinioni che hanno gli altri delle mie opinioni sui testi degli altri, che, a loro volta, sono imbevute di altre che non hanno la licenza su niente in questo mondo.
Tolgo ad Àngel la scarpina di lana appallottolata, sfilo le bende e mio figlio alza per la prima volta il suo piedino con quattro dita. Mi si contraggono le budella come se avessi ingoiato un pianoforte. È calmo, però non apre del tutto gli occhietti. Li tiene mezzi chiusi, come una persiana abbassata male. Si sta riconciliando nuovamente con la vita. È uscito dal fuoco e ha ancora paura di cadere nella brace. Mi sembra che abbia voglia di vedere Arnault, fosse anche solo per esigergli il risarcimento danni. Sicuramente lui sarà capace di dargli qualche spiegazione convincente, di giustificare le dure decisioni prese da un padre che lui, ancora, non vede (letteralmente) con chiarezza.
Passo il pomeriggio con Àngel nel nostro letto matrimoniale, rubandoci sguardi, dormicchiando, chiedendogli perdono. Mi struggo il cervello per stabilire qualsiasi tipo di comunicazione telepatica con lui, provo a interpretare il suo sbattere degli occhi, le sue piccole dita elettriche, come risposte tranquillizzanti, come bolle papali tanto attese. Mangia ogni volta meglio, però mi prendo i suoi rigurgiti di petto, come autentiche dimostrazioni di rifiuto e disprezzo di poppante. Sento una necessità implacabile di vederlo già grande, almeno adolescente, per avere la certezza che, nonostante mi odi senza rimedio, le sue cellule e i suoi tessuti, che al momento causano solo dolore, si stireranno e prolifereranno sino ad abitare lo spazio che li circonda e lui arriverà a essere un corpo, un discorso, una formica nel mondo. Non mi rimane altra speranza che questa. E, nonostante qualsiasi atto d’amore nasconda un sacrificio impronunciabile, non posso evitare di sentirmi deluso da me stesso.

Oggi è il giorno di Saturno, il dio che mangiava i suoi figli appena nati per paura che gli usurpassero il trono.
Arnault è arrivato ieri a pezzi, mezzo sudato, però contento. Mi ha dato un bacio sull’orecchio e mi ha detto di tornare a dormire. Io mi sono alzato per andare al bagno e mi ha raccontato a bassa voce com’era andato il suo volo. Mi è sembrato dicesse che c’erano state delle cadute di pressione nell’aereo e che uno stewart si era rotto la clavicola. Prima di tornare a letto ha notato che trascinavo il piede per il corridoio.
«Zoppichi? Ti sei fatto male?».
Io mi sono scrollato la domanda di dosso con uno sbadiglio. Dall’armadio in bagno, senza che mi vedesse, ho preso tre calmanti infantili che ho mandato giù con un po’ d’acqua del rubinetto. Quando sono uscito, ancora un po’ frastornato, Arnault teneva Àngel in braccio e gli faceva le coccole in francese. Il bambino era completamente sveglio e guardava il tetto, assorto. Come il veterano accecato dalla necessità di testimoniare una battaglia, all’improvviso si è tolto il calzino. Tra il pollice e il cuore, gli pulsava un indice tarchiato, avvolto in un cerotto. Era molto più lungo rispetto alle altre dita, con quattro peli ondulati e scuri che gli fuoriuscivano dalla tela. Non era quello il suo posto. Una pecora nera e senza senso tra i suoi fratelli.
«Un giradito», mi affrettai a dire.
«Gli è uscito del pus. Hanno dovuto curarglielo. Un casino che non ti dico. Mi hanno detto che la prossima volta non dobbiamo andare troppo in profondità quando gli tagliamo le unghiette dei piedi. Per un po’ il dito gli rimarrà gonfio, però si sistemerà».
Arnault non se n’è preoccupato. Ha passato un dito della mano sulla pianta del piedino di Àngel e lui, per la prima volta da quando era nostro figlio, ha riso scandalosamente.

Domani sarà il giorno del Sole e abbiamo deciso che, se non piove, andremo tutti e tre a passeggio.

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La traduzione, apparsa in Ô Metis IV, Forme Brevi,  viene da “No es pot tornar aigua”, Barbamecs (Cossetània, 2012) di Yannick García. Il racconto è stato tradotto dall’autore stesso dal catalano allo spagnolo. La traduzione del testo in italiano è basata sulla versione spagnola.