Quando il padre uscì di casa sbattendo la porta, Milo, ritto in mezzo al letto con gli occhi sbarrati, balzò in piedi, raggiunse la finestra. Un bus nero senza finestrini sostava, col motore acceso, dall’altra parte della strada. Indossato il giubbotto e infilate le scarpe con la suola di gomma, Milo frugò in un cassetto, afferrò il doppione delle chiavi che aveva sottratto dal mobile del salotto il giorno prima, si precipitò giù dalle scale e diede mezzo giro nella serratura. Il meccanismo scattò, Milo spinse adagio il battente, sbirciò fuori: il padre saliva sulla scaletta del bus sostenendosi alla ringhiera. Fatta eccezione del motore borbottante, le strade, appena velate dall’alba grigio-bianca, ristagnavano nel silenzio. Milo spalancò la porta, chiuse a chiave, corse lungo il muretto di mattoni della casa, sciolse la catena della bici appoggiata contro, montò su.

Il bus partì, i tubi di scappamento sfiatarono una densa nuvola di fumo. I cerchioni ruotavano lenti sull’asfalto e Milo, mulinando le gambe sui pedali, gli stava dietro. Le vie si incuneavano tra blocchi di palazzi punteggiati di finestre, alte strutture ricoperte di vetro dalla base alla punta. Le mani gli tremarono sulle manopole: di solito girava intorno ai quattro lati del suo isolato, un borgo di villette a tre piani; qui, invece, edifici alti centinaia di metri si accalcavano l’uno sull’altro in blocchi compatti che convergevano minacciosi sulla strada. Quando il bus si fermava a un semaforo o rallentava per una svolta, Milo si lasciava scivolare rasente il marciapiede, celandosi come gli riusciva dietro i cassonetti, le pensiline delle fermate, i monitor pubblicitari, i lampioni.

Se solo suo padre avesse mantenuto la promessa, permettendogli di accompagnarlo alla Raccolta.

«Non ancora» gli aveva detto la settimana prima, dopo cena, seduto al tavolo «Il prossimo anno.»

«L’anno scorso mi hai detto la stessa cosa. Mi prendi in giro.»

Suo padre aveva storto le labbra e scosso la testa, si era passato poi la mano sui peletti brizzolati delle guance. Infine aveva detto, prima di sollevare la pancia dal tavolo e alzarsi: «Vuoi ficcare il naso dappertutto. Tutto tua madre sei.»

Oltre gli edifici, una spianata verticale di cemento: eccole, le Mura. Milo rimase a bocca aperta, smettendo di pedalare. Per quanto si sforzasse di spingere indietro il collo, non riusciva a vederne la fine. Quando la mamma gli raccontava che le Mura erano più alte del cielo, suo padre borbottava, gli faceva segno di non crederle, alla mamma, lei non ci stava con la testa. «Stai zitta!» le urlava.

Le luci posteriori si illuminarono, il veicolo rallentò: una vasta superficie di cemento si estendeva, da est a ovest, a separare la macchia urbana dalle Mura. Il bus si sistemò in mezzo ad altri parcheggiati e apparentemente vuoti. Scesero i passeggeri. Tessuto impermeabile grigiastro, elmetti rettangolari scuri, visiera opaca: indossavano tutti la tuta della Raccolta. Chi di loro era suo padre? Si raggrupparono di fianco ai bus. Poi, uno dietro l’altro, dondolando, iniziarono a muovere piccoli passi in avanti, in direzione delle Mura. Milo sbirciava da dietro l’angolo di un palazzo, battendosi le nocche sui denti. Quando il primo della fila giunse ai piedi della muraglia, un sibilo lacerò l’alba silenziosa, Milo si portò le mani alle orecchie: nella distesa grigia si aprì un varco, si dilatava sia in altezza sia in larghezza. Milo inspirò a lungo, drizzò le spalle, strinse le dita intorno alle manopole, si lanciò sullo spiazzo. Suo padre e gli altri scomparvero, inghiottiti dal buio della fenditura. Mulinava le gambe come un forsennato, Milo, il sudore gli chiazzava la fronte di macchioline rosse. In prossimità del passaggio, una collinetta lo sbalzò in alto e quando le gomme si riassestarono, dopo qualche saltello, Milo era dentro. Il buio si espandeva in ogni direzione, non si distingueva nulla. Anche se ogni sforzo era una coltellata nei quadricipiti, Milo continuò a filare veloce. Dov’erano finiti tutti? In fondo, una luce tenue.

Fuori, Milo sgranò gli occhi: torri, torri, torri. Torri ovunque. Così si chiamavano gli edifici più alti, gli aveva rivelato la mamma. Come le Mura, se non di più, si spingevano in cielo. Occupavano l’intero orizzonte, gettando ombre ciclopiche sulle stradine deserte che ne separavano le imponenti basi dagli spigoli a vista. Di nuovo quel fischio agghiacciante: dietro di lui, il varco cominciava già a richiudersi. Milo si allontanò velocemente, infilandosi nella foresta di torri. All’angolo di una viuzza rallentò, gli mancava il fiato. Tossì un paio di volte, provò a inspirare, ma l’aria che buttava dentro era pesante, calda, rancida. I polmoni si contraevano con impeto, le forze lo abbandonavano. Lasciò cadere a terra la bici. Si aggrappò al muro. Intanto che il respiro diventava affannoso, iniziò a vederci sfocato. Lo trattenne, allora, il respiro, e ci vide subito meglio. Ma ciondolava, le gambe non lo reggevano. Si abbassò, poggiò le ginocchia per terra. Gattoni, raggiunse l’ingresso di una torre. Ne attraversò la soglia stretta e buia. Dentro, rialzatosi, si fece largo tra i calcinacci, attento a non bagnare il piede nelle pozzanghere che colavano dalle pareti e si insinuavano sul pavimento. Nell’angolo, il vano delle scale. Salì alcune rampe di gradini sbeccati. Quando l’aria divenne più leggera, si fermò. Col dorso della mano si terse il sudore sulla fronte, inspirò a lungo. Poi si voltò: dei bisbigli, dietro. «C’è qualcuno?» disse con un filo di voce. Altri sussurri. Fece un passo avanti. «Papà? Sei tu?». Gli occhi non volevano saperne di adattarsi all’oscurità. «Accidenti!» esclamò quando immerse la scarpa in una pozza viscosa. Se la tolse, strisciò la suola contro il pavimento dissestato. In quel momento qualcosa gli afferrò il polso. Qualcosa di unto, rugoso, caldo. Milo cacciò un urlo, lasciò cadere la scarpa, provò a divincolarsi. Ma quel qualcosa tirava con forza, come se volesse strappargli il braccio. Si sentì agguantare anche per le spalle, le gambe, i piedi. Milo strattonò con energia, la pelle scivolò sul viscidume e riuscì a fuggire.

Una sagoma gli si parò davanti. Il raggio grigiastro che penetrava da una fessura nel muro ne illuminò i capelli lunghi e unti, appiccicati alle tempie, alle mascelle, il naso sottile, le labbra carnose. Milo si portò le mani alle labbra, sussultò. «Mamma!». Quella spalancò la bocca, sporse le fauci, ringhiò. «Sei tu!» continuò Milo, che provava ad avvicinarsi. Le orbite della sagoma si illuminarono di rosso, rivelando, sulla fronte e sulle guance, ulcere gibbose, bruciature, macchie scure. «Sei brutta, ma sei tu, mamma!». Milo sentì qualcosa afferrarlo per il fianco, scattò. La sagoma estrasse gli artigli adunchi, lo graffiò sulla guancia, lo fece cadere. Chinò la testa su di lui, lo fissò con gli occhi incandescenti; gli conficcò le fauci nel quadricipite. Milo gemette di dolore, rotolò giù per un paio di rampe. Provò a rialzarsi velocemente, ma la gamba ferita non rispondeva. Si girò sull’altro fianco. Con un lamento si alzò in piedi, traballò. Prese a saltellare su un piede, scese gli scalini sostenendosi ai muri scabri del vano. Fuori dalla torre, trattenne il respiro e tornò alla bici arrancando. Dai buchi profondi e tondeggianti nel quadricipite, non una goccia di sangue. Montò in sella, provò a spingersi con la gamba sana in direzione delle Mura, ma vide nero, si afflosciò sul manubrio, rovinò a terra insieme alla bici.

«Come sta?»

«È ferito.»

«Intendi…»

«Intendo che è ferito in volto.»

«Solo in volto?»

«L’hanno graffiato.»

«Ne sei sicuro?»

«Sì.»

«Voi, datemi una mano.»

«Cosa fai?»

«Devo. Dobbiamo.»

«Che cosa state facendo? Siete impazziti?»

«Dobbiamo controllare.»

« No!»

«Calmati.»

«Non un’altra volta! »

«Forse non è così. Lasciaci controllare.»

«Non toccatelo! Lasciatelo stare!»

«Perché no?»

«…»

«Ti ho chiesto perché no.»

«Non ce n’è bisogno.»

«In che senso non ce n’è bisogno!»

«È stato morso. Sei buchi tondi. Simmetrici. Niente sangue.»

Spalancò le palpebre, il cielo era nero. Da sdraiato che era, drizzò il busto, poggiò le mani a terra. Le unghie, appuntite, stridettero al contatto col suolo. Le fece rientrare nei polpastrelli nodosi. Sul dorso unto delle mani foreste di capillari rotti, pelle bluastra. Balzò in piedi. Inspirò a lungo l’aria arroventata, satura di polveri. Con gli artigli della mano destra squarciò il giubbotto, la maglietta del pigiama. Con un calcio nel vuoto si liberò della scarpa. Iniziò a correre per le strade buie ai piedi delle torri: spalancava le fauci, ringhiava, estraeva gli artigli. Altri come lui, più alti e più grossi e più veloci, facevano lo stesso: i suoni dei loro versi rimbombavano da una facciata all’altra. Così tutta la notte.

Quando il cielo prese a schiarirsi, gli altri si accalcarono davanti alle torri, sbracciando per entrare primi. Lui si coricò per strada. Nel giro di qualche istante urlò di dolore: la luce gli affumicava gli occhi e l’epidermide, una lama di fuoco. Corse dentro una torre schermandosi come riusciva. Salì qualche rampa di scale, si fece largo tra alcuni che si scannavano per una scarpa smangiucchiata. Si sdraiò per terra, la testa contro la parete ammuffita. Di fianco, una con i capelli lunghi e attaccati al volto, gli occhi rossi, spalancati, su di lui. Si girò dall’altra parte, chiuse gli occhi.

***

In copertina: Post-Apocalyptic Landscapes Series by Nydia Lillian