Una visita a casa di Andrea Esposito, luogo in cui ha scritto Voragine.

Una voce limpida rimbomba. Mastodontica. Il canto di un cetaceo. Nell’ombra liquida del silenzio. Andrea ha i piedi immersi in una pozza di sangue. Pezzi di carne ovunque. Lacrime e contenuto gastrico.

 

Le fessure dei suoi occhi. Piangono cascate di dolore. Il suono della voce di Grace Davidson sovrasta il fruscio del vinile. Commovente, in sottofondo.
La pietà nello sguardo di Andrea. Uno specchio rotto, frammentato. L’empatia di chi soffre. Le schegge taglienti conficcate nella schiena, nelle braccia, nelle mani, in testa. Nei bulbi oculari. Sculture di ossa con i filamenti di cartilagine ancora appesi. Puzza di morte e sudore.

 

Maria gira la chiave nella serratura della porta di casa. Ciò che vede entrando la terrorizza. Urla e piange, e le vibra la testa e lo sterno. L’espressione del suo volto è mostruosa. Trasfigurata dalle scorie degl’atti di quel mostro di suo marito. Suo marito? Come hai potuto fare una cosa del genere? Sei un mostro. Sei uno psicopatico. Un assassino. Squilibrato. Grida, Maria. Si dimena in una danza disperata. Posseduta dallo sgomento, perde il controllo. Si abbandona accasciandosi sullo strato di sangue che ricopre il pavimento. Si lascia andare al vomito e alle lacrime. Andrea si solleva dalla sedia solo ora, e con un unico movimento l’abbraccia. Piangono insieme e tutto finisce. È finita.

Questa, più o meno, è la scena sulla quale io e Martha abbiamo fantasticato prima di arrivare a casa di Andrea Esposito. Il luogo in cui è stato concepito Voragine (il Saggiatore, 2018).

Chiunque lo abbia letto, immagino, pensando al suo autore, si sarà figurato un essere oscuro incurvato dal male. Un Howard Lovecraft della San Lorenzo degli anni duemila. Un’anima nera.
E invece sulla soglia della porta ci apre un uomo imponente ma buono. Un uomo cosparso di silenzio. Un uomo che emana pace e dissolvenza. Negli occhi ha il dolore che riposa sul fondo di quella pozza di sangue, questo è vero. Lontana ma presente. Una disperazione antica. La stessa che aveva negli occhi Samuel Beckett. Quell’empatia primordiale dell’artista. Al contempo, in quelle striature chiare si vede l’ospitalità degli uomini saggi. L’accoglienza. La calma placida di chi riconosce il proprio centro. Il respiro lungo e profondo della consapevolezza.

Accanto ad Andrea, Maria. Una bellezza scintillante, fresca. La camicetta bianca e lo sguardo illuminato. L’entusiasmo. La complicità. L’attenzione per le piccole cose. E un sorriso che inizia e finisce nelle gote. E ti fa sentire a casa. Ti fa venire voglia di chiudere gli occhi e sospirare liberamente mollando la tensione accumulata sulle spalle, guardando al sole che inonda il salotto. Maria è luce.

 

Io e Martha abbiamo portato con noi un vassoio di dolcetti e i due ci vorrebbero offrire un caffè, che però non hanno, e si sbracciano proponendosi di andare a comprarlo. Ma possiamo bere anche del tè, non preoccupatevi. E quando Maria inizia a enunciarci la lista delle varietà che hanno a disposizione in delle piccole scatole di latta, scatena subito un collaudato umorismo di coppia. Non una farsa, messa in scena ad hoc per i commensali. Un’affinità genuina, coltivata sull’autoironia. Si prendono in giro, Maria e Andrea. Lui ironizza sulla passione di lei, elogiandone le belle piante di peperoncino cresciute nel loro balcone, e confessa di non provare nessun trasporto emotivo per il mondo vegetale. Scherza su come questo deluda gli sforzi di Maria nell’abbandonare la via del pollice nero. Ci invita con scherzosa insistenza a farle i complimenti. E noi ci prestiamo volentieri a questa scenetta, mascherando apprezzamenti sinceri con battute artificiose. Ci fermiamo a guardare e commentare le tre piccole figlie di Maria ornate di fiori bianchi.
Dal balcone si vede un palazzo in costruzione. Al momento c’è solo la facciata. Che da qui si osserva dal retro, dal vuoto che ancora deve sorgere. E una lunga gru svetta sulle macerie.
La casa che abitano: un luminoso quarto piano di un appartamento dall’arredo nuovo, tutto sul bianco.
Lo immagino, Andrea, a sviscerare dal suo intestino le parole di Voragine. Lo immagino nella luce del mattino, mentre il disco gira a spirale sui solchi, e poi smette di vorticare quando ancora le dita con le unghie rosicchiate continuano a suonare i tasti del portatile grigio.

 

Il braccetto tiene la puntina sollevata sul centro del vinile e una strana ombra si slarga sull’occhio sinistro di Andrea. Una profondità diversa, nello sguardo storto.
Gli chiedo cosa legge Maria. Classici, per lo più. Lei gli ha fatto scoprire Paul Auster, insieme hanno letto Thomas Hardy. Le piace Zweig, vagamente. Andrea ci racconta di quando si sono conosciuti. Giocavamo a biliardino, ubriachi. Io le ho chiesto cosa stesse leggendo. E lei ha detto Le braci di Sandor Màrai. Voleva darsi un po’ di arie, dice Andrea prendendola ancora un po’ in giro. E lì ho capito che ci si poteva parlare, aggiunge sardonico, ridacchiando assieme a Maria.
Andrea è uno di quei librai con la vocazione. Tutto nasce da un libro o ha a che fare con un libro. Persino il suo matrimonio: ha dato da leggere a Maria le bozze di Voragine mentre lei sceglieva i fiori. (In effetti, simbolicamente – e ci penso solo adesso – Maria mi sembra proprio rappresentare colei che fa crescere le piante, nella loro casa colma di libri. Inverdisce gli spazi bianchi, annaffia nella notte. Mi pare, chiaramente, ora, di scorgerla in lontananza nel cespuglio verde, dove finisce Voragine. Maria è luce e acqua.)

Sul tavolino basso del salone, di piatto: Fogli d’ipnos di René Char, poggiato su Le liriche di Hölderlin. Il rimbombare di quei versi sul biancore immacolato delle pareti. E quando mi fa fare il giro della casa, ci fermiamo davanti alla libreria di legno sbiancato del salone e tira fuori dagli scaffali un libricino mai visto, dalla copertina viola: In pienezza di cuore (Gitti editore) di autore anonimo. In quella libreria c’è di tutto, eppure lui mostra a me questo libro sconosciuto, introvabile, con un titolo coraggioso che mi ricorda un libro di Jünger.
Mi chiede cosa sto leggendo, ancor prima che glielo chieda io. Parliamo di Hamburg, e così di Sebald e di Bolaño. Parliamo de La debuttante di Leonora Carringhton, libri appena pubblicati. Ci scambiamo informazioni segrete, soffiate da lettori, da librai. Sottovoce, con il tono pacato e cavernoso di chi brama solo il silenzio.

 

Maria si mette in camera da letto, a lavorare, e restiamo soli.
Martha ci gira attorno e scatta, ma è invisibile. Scompare. Anche di questo parleremo: di quant’è bello e giusto quando l’autore riesce a scomparire, ed esiste solo l’opera. La responsabilità del testo non è più sua, perché l’autore non c’è. Esattamente come per In pienezza di cuore, è anonimo.
Chiedo ad Andrea se ha visitato davvero tutti quei luoghi i cui nomi risaltano in verticale stampati sul dorso delle guide poste in uno scaffale basso del salone.
No, solo alcuni, gli altri sono ancora desideri. Ci racconta del Giappone, il loro viaggio di nozze. Ci racconta di Hiroshima, della commozione e delle lacrime versate nel museo. C’è l’ombra lasciata sul muro da una delle vittime della bomba, ci dice. Qualcuno che è stato disintegrato dall’esplosione. Svanito nel nulla. Lasciando solo quella traccia, quel segno scuro. Il suo stesso negativo. Ritorna quella pietà empatica nel suo sguardo abissale. Si sente forte il suo autentico senso di compassione, la sua umanità scarlatta.
Torniamo a parlare di libri, in un certo senso. Di letteratura, di scrittura. Quando scrivi? Come scrivi? Che cosa ascolti quando scrivi?
Scrivo di mattina, prima di tornare al mondo, quando tutto tace. E scrivo poco, una, due ore al giorno. Ascolto musica che abbia una costante in accumulo o in dissolvenza. Basinski (che appare anche nei ringraziamenti di Voragine, dice orgoglioso). L’ho scritto tutto ascoltando Basinski, quel libro. Max Richter, anche. Ci farà ascoltare il vinile di From Sleep, nel silenzio, prima di lasciarci andare.

Parliamo di Samuel Beckett, di Bernhard, delle sue influenze e dei paragoni. Luciano ci ha trovato questo, Maria quell’altro. E alla fine è vero: dentro ogni libro ci sono frammenti di molti altri libri, messi lì più o meno consapevolmente, risaliti in superficie da una pozza di parole alla quale solo l’inconscio ha libero accesso. Parliamo di Lenz e dei Sillabari, addirittura. Di Robert Walser. Di come fare paragoni sia un po’ tradire, in effetti. Un po’ come tradurre. Rendere subito comprensibile, intuibile, ciò di cui si sta parlando. Fare paragoni è, in parte, il lavoro del libraio, mi ricorda Andrea. Serve a spiegarsi, a capirsi. Non è letteratura, sta attorno alla letteratura. Serve per orientarsi, per scoprire. Serve.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E stai scrivendo? Sei riuscito a scrivere ancora dopo quello che hai scritto in Voragine? Ho scritto dei racconti, e sto scrivendo un’altra cosa. La scrivo ascoltando Saggittarian domain di Oren Ambarchi. Sarà una cosa più movimentata, più violenta.
Abbiamo ironizzato tutto il tempo sulla violenza e la crudezza e lo struggimento e la pena che sono dentro Voragine, anche con Maria quando ci raccontava di aver letto le bozze prima del loro matrimonio. Così, immaginare qualcosa di più violento ci fa ridere. Tutti e tre.
Martha allora si lascia andare, si siede con noi, commenta la sua lettura del libro di Andrea, con una semplicità spiazzante. E tutti i nomi che Andrea ed io abbiamo evocato fino a quel momento cessano di riecheggiare nel nostro linguaggio in codice, il linguaggio dei paragoni. Vedere la commozione di Martha lo gratifica, nel senso più empirico e altruistico del termine. Scorre una gratitudine sincera in quei commenti e nei successivi grazie.

 

E, dopo aver invocato ancora Bolaño, Gottfried Benn, Bela Tarr e Hitchcock, continuiamo a scherzare sui peperoncini di Maria mentre Martha inizia a scattare dei ritratti di Andrea, e di loro due insieme; e parliamo ancora di piante, d’immigrazione e dell’educazione al diverso. Andrea ci dice della malattia all’occhio che lo obbliga a portare sempre delle lentine rigide e a non esporre i suoi occhi al sole. Parliamo del mare e della Grecia, del loro viaggio sfumato e di come lui preferisca la montagna, le campagne, i paesi del nord. Parliamo di Shutter Island e dei colpi di scena retroattivi. Ascoltiamo il giradischi suonare quella voce abnorme, quel canto di balena nel silenzio del respiro. Il sottofondo avvolgente della scena che immaginavamo all’inizio. Sveliamo a Maria e Andrea che avevamo fantasticato sulla pozza di sangue, ma anche sull’idea di entrare in casa e rubare tutto, tacciamo sulle fantasie di stupro. Anche se sarebbe stato divertente fare qualcosa di assolutamente imprevedibile. Invece è stato semplicemente uno di quei rari momenti in cui ci s’incontra e ci si scambia qualcosa. Un momento di contatto e comprensione, di empatia. Come Martha e Andrea che parlano dei loro rispettivi problemi all’occhio, e si capiscono. Come Giovanni con il cieco. Come quando si legge la scrittura di Andrea e si piange, inevitabilmente. Come la polaroid che Martha ha scattato e lasciato sul tavolino; c’ho scritto sul bordo «Ma presto saremo canto», un verso di Hölderlin che Andrea ha detto di voler mettere in esergo a ciò che sta scrivendo adesso. Non è importante che questo accada o meno. Quello che mi colpisce è come Andrea riesca a sentire e farti sentire la tribolazione essenziale e sottile dell’esistenza. Nella sua scrittura è questo che scuote, e anche se nelle sue parole riesce a scomparire e lasciare la presenza solo a quella voce unica, è possibile scorgere quel fomite in fondo ai suoi occhi verde marino. Inizialmente atterrisce, come le sue prime pagine; lasciandosi abbracciare dall’abisso, oscuro e silente, si scoprirà, invece, la possibilità di un incontro dal significato profondo, una cicatrice che sa ancora di umidità.

Ci salutiamo calorosamente come vecchi amici. Scattiamo qualche foto del pianerottolo e della spirale delle scale, con quella voce smisurata ancora nelle orecchie. Usciamo dal palazzo e siamo per strada. Non diciamo niente. Non una parola. Lasciamo spazio al silenzio dopo l’assedio. Anche questo niente, mentre tutto è sull’orlo, ha un significato. In lontananza, speriamo, continuerà a testimoniare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le foto sono di Martha Micali. Ringraziamo Andrea e Maria per averci permesso di invadere i loro spazi domestici e per il piacevole incontro, e per il tè e la visione delle loro magnifiche piante di peperoncino.