Non sapevo quanto la mia anima fosse vuota finché non è stata riempita.

(Excalibur, 1981)

 

Ludovico Mandelli si presentò ai microfoni con un abbigliamento sobrio, casual, non indossava la cravatta. La barba cresciuta ma curata era impeccabile emblema dei tempi correnti, così gli occhiali firmati dalla montatura nera. Mandelli non era postumo, né precursore; era lì, ora, rassicurante immagine di eleganza abbinata al successo. Il Paese lo voleva così; non era il momento giusto per gli eccessi, le pose, i leziosi orpelli, era il momento di  confermare le attese. Mandelli piaceva.
«Oggi nasce ufficialmente la Camelot Editrice.»
I giornalisti non si stupirono, tutti erano pronti a quell’annuncio, a destare la loro attenzione era più l’annunciante che l’annunciato. Ludovico Mandelli avrebbe gestito, a tempo debito, una parte consistente della ricchezza del Paese, sarebbe stato erede di un impero economico di fama internazionale, ma ciò sarebbe avvenuto in altri tempi. Prima gli toccavano anni da principe, con poche responsabilità, possibilità di godere, impossibilità a sfuggire all’occhio indiscreto dei mass media. La creazione di una casa editrice, per un uomo che avrebbe manipolato somme di denaro inimmaginabili e ai limiti dell’irrealtà, poteva sembrare un giochino da ricco viziato, probabilmente lo era.
«Pubblicheremo esclusivamente opere di narrativa italiana passibili di entrare nel canone dei classici, non è nostra intenzione produrre ciò che non è destinato a durare, non sono più tempi per accumulare l’effimero.»
Una sola frase, pronunciata mentre le dita ossute raschiavano il mento i cui peli neri celavano un probabile arrossamento da sfogo, con tono fermo e sguardo fiero, illuminato dalla giovinezza, riassumeva i propositi culturali di un’impresa volta a nobili e spropositati intenti. Dalla sala stampa una voce aspra, vissuta, di un giornalista che la telecamera, fissa sul protagonista, evidentemente asservita a una visione gerarchica dell’esistenza, ignorava, spezzò la solennità di quegli istanti.
«Signor Mandelli, avrei un paio di domande per lei. Come farete a canonizzare un classico in anticipo rispetto ai lunghi tempi fisiologici che servono a capire se un libro, a prescindere dalla qualità, lo sia? Ma soprattutto, perché ritiene che la sua impresa, oggi, possa avere un qualche interesse che non sia una narcisistica volontà di lasciare il segno nell’unico campo rimasto, cioè quello artistico, in cui il denaro conta meno della gloria imperitura e la gloria imperitura è meno effimera di quanto le contingenze storiche, assai mutevoli, volta per volta palesino ai testimoni viventi? Oggi i bisogni, potenziati oltremodo da una crisi economica la cui portata sociale e psicologica l’Occidente, seppur abituato a periodi di miseria, aveva per diversi motivi che non stiamo qui ad approfondire rimosso; e la paura, potenziata a sua volta da guerre e terrore che stanno finalmente trovando sfogo dopo anni di latenza, pongono decisamente in un piano inferiore ciò che alle menti aristocratiche e illuminate sembra nobilitare l’umanità, ossia la Cultura. Insomma, e concludo, la sua impresa non le sembra ingiustificatamente presuntuosa e totalmente inutile?»
Quegli avverbi così disarmonici, strascicati da una voce vecchia, che tradiva un vissuto compiuto e già superato dal tempo morto del giudizio, coprirono un coro armonico di mormorii rituali, quelli prevedibili di una banale conferenza stampa dove poco spazio è lasciato all’eclatante e molto alla prevedibilità e alla polemica pilotata e pretestuosa. Era tutto così poco interessante da farci anche sorridere, a noi che passivamente seguivamo la tv, poco interessante nel senso di non decisivo in tempi in cui diffusa era l’ansia per un futuro imprevedibile e difficile da programmare e per un presente in cui le capitali continentali erano in continua allerta terrorismo e le risorse planetarie tradivano una allarmante penuria. Che ce ne fregava di questa nuova casa editrice creata da un uomo quanto più lontano possibile dai dolori e dalle preoccupazioni della vita reale? Che importanza aveva questa polemica? Eppure, quei toni così solenni, e sinceri, ci incollarono allo schermo come non avveniva da tempo, e come certo non avveniva dinanzi alla quotidiana ossessiva ripetizione mediatica delle tragedie di un’umanità sull’orlo dell’abisso o, meglio, semplicemente aderente la verità, ossia che tutto muore, anche l’uomo come specie. Era l’eccezionalità che rendeva un evento così fatuo e fuori tempo passibile di fermare il tempo. Non vedevamo il giornalista che pronunciava quelle domande, ma ci immaginavamo un signore di una certa importanza, da temere, e cui una risposta si doveva, pena il crollo dell’impresa proprio nel momento epico della nascita.

«La ringrazio per queste domande, mi confortano.»
In tal modo esordì Ludovico Mandelli. Si schiarì la voce come un oratore qualunque e iniziò a parlare, così giovane — era vicino ai trenta —, così retorico.
«I più sopravvivono ai tempi come bestie, e non li condanno. Urge mangiare, urge andare avanti senza cedere alle insidie dell’esistenza, sicché tutto ciò che è nutrimento per la mente non è una priorità, anzi, è lusso degno di biasimo. Oggi le priorità sono altre, e lo capisco. Io non sono una bestia. Sono una persona fortunata, ho avuto a disposizione tempo per studiare senza ansia di prestazione o obiettivi da raggiungere perché, a differenza degli altri della mia generazione, già so cosa farò in futuro, la mia strada è perfettamente segnata e non contempla deviazioni che non siano altri modi di raggiungere la medesima meta. Io sono un Mandelli e morirò Mandelli, i miei coetanei invece sanno quello che hanno ma non sanno dove andranno essendo il futuro, per quasi tutti, un enigma. Io non devo giustificare a voi un’impresa personale che nulla toglie alla comunità e qualcosa toglie al patrimonio della mia famiglia. Io questa narcisistica impresa, come lei la definisce, posso permettermela. Però, nonostante sia in diritto di assumere una posa aristocratica, le dico e vi dico come la penso. Ci sono stati tempi in cui i libri hanno avuto un certo peso specifico, hanno segnato il corso della storia in qualche modo, insomma ci sono stati tempi in cui questi oggetti che non sono oggetti hanno avuto un senso. Ora sembra che essi non abbiano più senso, sembra che chi scrive non abbia la minima importanza, anzi non è che sembra, è così. Non sono tempi per ricamare con le parole, questo nonostante la parola continui a essere potente strumento di persuasione. Un chiaro paradosso. Eppure c’è ancora chi è martire delle sue parole e chi fonda il suo martirio sui libri, e questo vuol dire che ciò che tutti credono oggi, cioè che i libri non servono a niente o che sono mero intrattenimento e che insomma la priorità spetti a ben altro, tutto ciò è falso. L’impresa che da ora ha inizio, questa casa editrice che vuole dichiaratamente diffondere opere immortali del nostro Paese perché può concedersi il lusso — non lo nascondo —, di non preoccuparsi del mercato imperante, è un ambizioso tentativo di recupero della nostra immagine. Nessuno ricorda come eravamo, nessuno ricorda il peso culturale del nostro Paese per la civiltà, io dal canto mio, da aristocratico, ne provo nostalgia e, da giovane, non so ancora abituarmi alla nostalgia.
Questa è una mia impresa. Questo è un personale tentativo di non arrendermi al mio destino e di non cedere al destino comune a tutti, la tanto spaventosa senilità. Per portarla a compimento, tento di creare un elisir di giovinezza per un Paese che da tempo langue nella senilità, imbarbarito a tal punto da non pascersi nemmeno dei manierismi tipici della nostalgia. Perché sì, persino la nostalgia riesce a creare bellezza, seppur decadente, ma il nostro Paese ha oltrepassato anche quel livello. Cosa rappresenti l’arte, qui e ora, possiamo vederlo tutti, cosa dovrebbe rappresentare, invece, è stato dimenticato. Manca una visione, io ne perseguo una.»

Ci fissava attraverso lo schermo, con una mano continuando a grattarsi il mento e con l’altra muovendo dei fogli che mai, durante il discorso, aveva letto. Noi ascoltatori non capivamo. Parole belle, certo, parole che esercitavano fascino, perché si percepiva qualcosa di potente che era la passione, ma poi, a pensarci, che ce ne fregava di tutto questo? Il principino aveva finito e il brusio dei giornalisti riprese. Aspettavamo la risposta di quel giornalista che aveva posto sul tavolo le questioni, e alla fine giunse.
«A parte che non ci ha detto chi sarà in grado di scoprire queste opere immortali e come lo farà. Tralasciando questo particolare, mai mi è capitato di ascoltare parole così deliranti in oltre quarant’anni di carriera, parole deliranti e preoccupanti perché pronunciate da uno che è destinato a detenere un grosso potere economico. Non ho più nulla da dire se non augurarle il fallimento di questa megalomane aberrazione per fortuna ininfluente per le sorti umane. Auguri.»

Seguì un silenzio imbarazzante, la telecamera restava fissa sul volto del giovane Mandelli mentre io ero catturato dalle sue dita ossute che superavano i peli per solcare la pelle, produrre pus, sporcarsi. La conferenza stampa finalmente terminò, altrimenti quelle dita chissà dove sarebbero giunte: sotto pelle, nella carne, sulle ossa, in fondo all’umano.

Io che ero nel pieno dei miei studi, seguii da allora con curiosità la storia della casa editrice. Accademici di fama internazionale, gli editor più influenti, scrittori noti per una cultura vasta e per una produzione letteraria dalla qualità al di sopra della media, furono messi subito sotto contratto da Ludovico Mandelli. Le pagine culturali, in quei primi mesi di fermento, si concentrarono su un unico dibattito: come sarebbe stata l’Opera 1 del catalogo della Camelot. Tutti dicevano di tutto, si cercava di immaginare questo Libro che poteva essere di qualsiasi genere letterario, gli aggettivi usati per tratteggiarlo erano innumerevoli e contraddittori. Io leggevo e provavo confusione, ma condividevo quel senso di attesa, quella giovanile speranza, tipica di chi crede di essere sul punto di attingere a una fonte di ultraterrena illuminazione. Quel Libro, lo sentivamo tutti, ci avrebbe cambiati. Forse non avrebbe cambiato il Paese, non avrebbe risolto nessuno dei tanti problemi che devastavano il Paese Reale, ma avrebbe cambiato di certo noi aristocratici resistenti di un mondo, quello letterario, messo ai margini ingiustamente, come aveva lasciato intendere il signor Mandelli. Una squadra di addetti ai lavori di comprovata competenza portava avanti la ricerca mentre Mandelli, l’investitore, se ne stava al suo posto, fidando nei suoi molto ben remunerati professionisti di un settore che lui, di fatto, ignorava, perché lui non era altro che un appassionato, troppo appassionato lettore.

Io terminai gli studi, iniziai il mio percorso di dottorato di ricerca, terminai il contratto di dottorato, feci tirocinii in case editrici, intrapresi lavori estemporanei, mi sistemai grazie a un lavoro che nulla c’entrava con i miei studi. Erano trascorsi dodici anni. Quando in tv, pranzando con la mia compagna, vidi Ludovico Mandelli con la barba più lunga e meno curata, con lo sguardo privo di luce, con i capelli radi, non sapevo fosse lui. Vidi le dita ossute attraversare la barba per raschiare la pelle, e il gesto mi riportò a dodici anni prima. Mia moglie parlava di qualcosa di poco importante ma parlava, io la interruppi e la invitai ad ascoltare con me quell’uomo non comune.

«Oggi sono qui ad annunciarvi la chiusura della Camelot Editrice. In dodici anni non abbiamo pubblicato un libro, e ciò lo considero un mio personale fallimento che, visto il potere che detengo, non mi provoca particolare dispiacere. Allora ero Ludovico Mandelli, oggi sono un altro Ludovico Mandelli, ciò che mi avrebbe intimamente segnato in quei tempi non lo fa oggi. È vero che annuncio anche l’uscita dell’unico libro di una casa editrice in chiusura, ma non è certo il Libro che cercavo. Il libro che annuncio è un mio personale Memoriale di questi dodici anni in cui abbiamo inseguito un obiettivo senza raggiungerlo. Io ringrazio i miei collaboratori tutti, da oggi in poi la Letteratura tornerà per me a essere fonte di piacere e di accrescimento personale, e resterò in inerte attesa di occuparmi degli affari di famiglia.»

Io rimasi muto, fissando il volto ancora ripreso dalla telecamera nei due secondi successivi all’ultima parola pronunciata, la «famiglia». Era un volto rigido, spigoloso, grigio, era tutto ciò che diventiamo quando non chiediamo più nulla alla vita e restiamo in attesa della fine, distratti dalle contingenze che continuano a intersecarsi col percorso individuale senza la nostra volontà. Non c’era resa, non dispiacere, non c’era nient’altro che senso del dovere. Ero dispiaciuto. Io dal giovane Ludovico Mandelli, nei miei affannati anni di ricerca di una collocazione nella vita, mi aspettavo tanto, mi aspettavo una smentita al banale destino che spetterebbe a ogni individuo di questa società, un posto di lavoro, una casa, una famiglia, pena un terribile declino nei margini, la miseria. Io ero fortunato, a tavola, con un lavoro e una compagna. Ludovico Mandelli, dal canto suo, era Il Fortunato. Eppure lui era un uomo finito a poco più di quarant’anni, e io ero un uomo realizzato e seduto. Entrambi avevamo abbandonato ciò che di più potente e imprevedibile e caotico può inseguire l’uomo: il proprio sogno.

Quel pomeriggio andai in libreria e comprai il Memoriale. Era un tomo di oltre cinquecento pagine, lo lessi in una settimana. Lessi con una tensione addosso che non so descrivervi. Tra lettere, programmi editoriali, giudizi su manoscritti, giudizi su scrittori affermati e scrittori che non sarebbero mai diventati scrittori, scorrevo quelle pagine famelico, alla ricerca di un qualcosa che non saprei definire, di qualche segno, di barlumi di quella luce che il giovane Ludovico Mandelli ci aveva fatto subodorare dodici anni prima, e così, in quella ulteriore crudele attesa, sfogliavo le pagine e decifravo frasi e parole. Giunsi alla fine. Non trovai niente. Mi soffermai distrattamente sull’ultima pagina, i ringraziamenti di rito, pronto a richiudere il volume e a deporlo in biblioteca. Lì, inatteso, giunse il pugno allo stomaco.

Ringrazio X, autore di X, era quello che speravo di trovare all’inizio dell’impresa e che troppo tardi ho trovato.