Qualche giorno fa, dopo lunga attesa e vari piccioni viaggiatori – a noi piace l’idea che da qualche parte  nel mondo meccanizzato i piccioni rechino ancora messaggi! – finalmente è arrivato un atteso commensale, si è seduto a tavola con noi, già cotti, e ci ha dato questo foglietto: D’eternità o d’avanguardia su F. Dostoevskij. Ci siamo guardati, io e Fharidi, e abbiamo esultato: “Finalmente!” Poi ci siamo accorti che non ricordavamo più il suo nome battesimale. – Eppure, un nome che importa? –
Ora,  dice di chiamarsi The Light Carrier.

Fahridi e Quijano, eccoci. Mi unisco a voi dopo che avete riposto la palla: si può andare d’accordo su tutto, meno che sul calcio parrebbe, ed allora eccomi a parlare non per mettere d’accordo, non per confrontarci o per scontrarci. In effetti, non so nemmeno bene per cosa, ma so che ho un limite di caratteri ed un argomento di cui parlare. A porla così, è già un gran dire: qualcosa di cui parlare. Quel qualcosa è un monumento, persona fisica e cima spirituale, vetta con aria sottile, profumo d’incenso e zolfo, tanto zolfo, per ricordare l’amarezza anche dell’incenso. Va bene, allora: parliamo di Dostoevskij e facciamolo in ogni caso brevemente, e prospetticamente, in parte minima, focalizzando l’attenzione su quanto meno sfugga a chi scrive in questo momento, senza speranza preventiva di poter guardare in faccia la sua aria sottile.

Qualche giorno fa ebbi modo di confrontarmi con un amico circa l’articolo di Aldo Busi sulla morte di Lucio Dalla, a proposito delle accuse di incoerenza –parolaccia –, che Busi avrebbe rivolto a Dalla, e mi è venuto in mente Dostoevskij. In realtà non credo fosse mai uscito dai miei pensieri, dopo tutto mi sono rituffato a distanza di anni nella sua lettura, e, dopo i suoi capolavori mi sono ritrovato tra le mani il suo Diario di uno scrittore. Evento presentato di proposito come casuale, ma il caso e la vita, e la letteratura, vanno d’accordo solo compenetrati in qualche modo. No, non è un caso che io sia ritornato alla lettura di Dostoevskij, così come non è un caso che accenni a lui, scomodandone la statura per parlare anche di Busi e Dalla, perché se sono le persone a farela Letteratura,  a fare l’Arte, essa non si riduce meramente a loro. L’arte trasfigura, chi? Loro, ovviamente. Ecco perché mi è tornato in mente Dostoevskij, ecco perché ho pensato all’idiozia di un artista che reprime le sue potenzialità creative cantando luoghi comuni e non spogliandosi di quelle viscere che trovano consistenza trasfigurate in versi. Ho ripensato alla figlia morta di Dostoevskij, e di rimando ai discorsi sui bambini di Miskin e sull’ingiustificabilità della loro sofferenza nella voce tragica di Ivan Karamazov, di nuovo agli epilettici Miskin e Smerdjakov e alla rivelazione del “male caduco” che tormentò lungamente lo scrittore, per poi finire col vizio del gioco e la gioventù vissuta in ambienti legati agli anarchici fourierani. Sì, tutto un gran parlare e trattare di estetica e teoria che nega quanto sia evidente e per nulla nascosto al genio, che con abilità da artigiano della parola sappia cesellare tutti i minuscoli e polverosi  dettagli della propria esistenza in edifici incrollabili, lo stesso che rispondendo ai grandi critici dell’epoca in un giornale tra tanti, per alcuni bigotto, lavorando su se stesso tirava fuori tutte le contraddizioni, le iperboli e gli abissi di un uomo che solo per modestia, il Nostro chiamava semplicemente, russo. Non solo russo, appunto, ma, per fortuna russo. Lo “slavismo” di Dostoevskij non è ideologico o nazionalista: nessuno sciovinismo ma la constatazione che per lo scrittore essere russo aveva un qualcosa di provvidenziale.

Di nuovo un cenno alla biografia, in maniera comparata: allegorie che vengono in mente solo quando si sta alla tastiera, e prima impensate. Anche Manzoni –Alessandro, quello che si insegna nelle scuole… –  ebbe un certo giorno della sua vita una “conversione”, descritta in maniera particolareggiata, scenica, orpellata quanto bastava per renderla giustificatrice della messa in opera di un testo motivato ideologicamente. Il sentimento del sacro legato al sentire minuto della povera gente diviene l’artifizio letterario del linguaggio de I promessi sposi, ed il lettore sa che il narratore non ha nulla a che spartire con quei poveracci che parlano come lui, che sono la sua caricatura, lo strumento narrativo di cui ha dovuto avvalersi per riportare i suoi concetti sulla terra. Dostoevskij non ha mai dovuto riportare nulla sulla terra, semmai il contrario, anche in forma letterale: nelle Memorie dal sottosuolo è la terra a parlare, è un “microbo”, un uomo che si repelle, che sa di non essere degno di calpestarla -la terra-, ad ergersi ad eroe, come solo un uomo può fare, da vinto, da contraddetto, da uomo appunto. Giorni fa leggevo, ritornando a Manzoni, un passaggio di Parente in cui, giustamente, sottolineava come Renzo e Lucia dopo il trionfo della Provvidenza perdessero ogni interesse agli occhi di qualsiasi lettore, ed anche di Manzoni a quel punto, che decise, opportunamente di porre termine alla vicenda. Io invece mi sono sempre chiesto che ne sarebbe stato di Alesa Karamazov alla fine del romanzo. Dopo la tragedia che aveva investito i fratelli e prima il padre, avrebbe potuto recuperare il suo ruolo di simbolo della fede incrollabile? L’umanità di Dostoevskij lascerebbe intendere di sì, Alesa è l’ultimo suo Cristo, l’ultima speranza nel cuore dell’uomo, definitivo appello alla ricerca di una innocenza data dalla gratuità dell’amore, di quella purezza morale che nei romanzi maggiori viene chiamata semplicemente “bellezza”.

Mentre in Occidente il pensiero si scopriva inevitabilmente e definitivamente ateo, con Nietzsche che stava per annunciarela Morte di Dio, un artista russo, estremamente colto e consapevole di quanto avveniva in Europa, dedito al gioco, condannato a morte e graziato solo sul patibolo, rovinato dai suoi vizi e tormentato da dolori nel suo fisico, diffidando e smentendo la cultura, vana scopritrice di non-luoghi, credeva nel cuore degli umili, e nel loro ingenuo sentire, nel popolo russo non ancora corrotto dal razionalismo europeo, conservatore e rivoluzionario perciò.  Di fronte alle consolazioni socialiste e al disincanto positivista egli lodava il “bisogno della sofferenza, continuo ed insaziabile, dappertutto e in tutto” del suo popolo, non coinvolto, se non negli strati più elevati nelle vane diatribe ideologiche sulla politica e sulle arti, popolo bambino, espressione di quegli ancestrali tratti dell’esistenza ancora tutti da spiegare nella vita, da trasfigurare in fatti, opere e parole, che “rendono più umana la nostra anima con la loro semplice apparizione fra noi”.  Egli rinveniva nel suo Alesa l’uomo non corrotto dal cinismo civile, l’uomo che è riuscito a rimanere bambino, che ha trovato in una innocenza da fanciulli forse l’ultima speranza di umanesimo possibile.  E l’arte per l’arte allora? E l’arte comprensibile solo dagli artisti? E la metaletteratura? Ed il postmodernismo?  E i Barthes di Barthes? Ghiacci gelidi sedimentatisi prima di giungere alle alte vette dove l’aria si fa sottile…

The Light Carrier