Alonso Quijano è tornato. Torna, se ne va, lo mette e lo leva.
Glaucopia, la donna alla finestra è la seconda stanza di Scirocco, un poema di Alonso Quijano.

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2. Glaucopia, la donna alla finestra

“Che cosa offusca la mia vista? Forse ho gli occhiali appannati!”
Disse l’assetato, dopo una lunga pausa, gettando lontano la piccola pietra
che stringeva ancora in mano. Sotto il ciglio della strada sgattaiolò un topo.
Anche quest’essere, questo untore, ha schifo di me! Mi fugge.
Movimento, movimento – pensò – e acqua, mi sto seccando.
“Perché, sempre più solo, parlo esclusivamente con te?” chiese all’ermafrodita
– la voce dell’assetato s’era fatta tremendamente asciutta, quasi ingrata
usciva dalle sue labbra viola. L’ermafrodita sghignazzò, poi si inventò solenne:
“Tu mi piaci. Se non avessi quell’affare lì in mezzo alle gambe,
anzi se non avessi tutte queste manie, sorvolerei pure sul pendolo…”
L’assetato la osservò di sbieco, poi indifferente tornò ad annoiarsi
e a formulare pensieri casuali, come tutti i buoni pensieri.
La sua gola bruciava da tempo. Ogni tanto sbadigliava
e soffici nuvole di fumo fuoriuscivano dalla sua bocca
e salivano lente, sfaldandosi sotto la pressione della gravità.
L’ermafrodita giocherellava, provandosi a imbrigliarle con fili di plastica
o a risucchiarle con cannucce, pescate mentre nuotavano
nel rivolo d’acqua di scolo, lungo il marciapiede.
Intorno si muoveva la gente, conficcata nelle scarpe come alberi nei vasi,
e si iniziava a sentire da ogni lato provenire un suono di molte voci,
il frusciare dei vestiti e del fogliame dei pensieri interpretati
con parole sconnesse, provenienti da bocche irriconoscibili,
e quel vento che soffia dalla gola e dallo stomaco stordiva
e sfumava la realtà che si abbigliava. Era mattino.
L’assetato si scosse, s’aggiustò i capelli e forse sorrise.
Un’aria fresca, narrativa, si spalancò tutta dalle finestre
infiorate e spumeggiò negli sbuffi dei deodoranti alcolici.
Una donna, lunghi capelli e braccia dorate dal sole, si strizzò nel cielo,
miliardi di respiri si concentrarono e sbocciarono nei suoi seni
e le labbra schioccarono. “È mattina, ne sono certo” si disse l’assetato,
e per la prima volta da sempre parlò da solo, dalla sua gola,
e l’ermafrodita non capì, forse neppure sentì, perché amava sé stessa,
rannicchiata dietro un lampione, con quella mano elettrizzata.
L’assetato la cercò con lo sguardo e rise di lei. Rise con tutto il suo corpo
che vibrava – era una corda, un ramo, un cerchio nell’acqua
o qualsiasi altra cosa che la trapassa e la scuote, perché le metafore
erano cambiate e non sia aveva tempo di inventarsene una nuova
che subito, nell’attimo dopo, bisognava crearne una più ingenua ancora.
L’altra si scuoiava freneticamente il piccolo pendolo pendolante
con una mano, ansimando, mentre le labbra colavano e frignavano,
quando la donna si sporse alla finestra, e rise attraverso quel rettangolo
lì in alto, nel silenzio dell’aria sottile e libera, finché migliaia di corde vocaliche
non avessero ripreso a vibrare simultaneamente cicaleggiando
nello spazio, confusa ogni lingua in un mormorio distante.
L’assetato si mise a sedere, si tirò accanto l’ermafrodita e disse:
“Ascolta tu, cosa che strisci, smettila di muovere quella mano.
Qui abbiamo altro da dirci, altro da vedere. Non è finito niente!
Abbiamo tempo, cosa ripugnante, e se dici di essere paziente e terribile,
ascolta: sono tre giorni che non bevo, tre giorni non prescritti
da nessuna improvvisata superstizione, tre giorni prosciugati
dal desiderio di acqua… non è finito niente, perché continuo ad avere sete.”
La donna alla finestra canticchiò qualche verso, con quelle labbra
esposte all’esistenza del suono e alla sua riproduzione.
L’ermafrodita taceva. La donna cantava. L’assetato ascoltava il silenzio di una
e l’allegria dell’altra. “Oh, questo giorno se ne va via lontano!”
sillabava alla finestra, mentre le mani strizzavano i capelli gonfi d’acqua.
“E dove va?” le urlò l’assetato. “Dove andrà, se è appena cominciato?”
(Insistette nel’urlo con quella voce che s’era fatta garrula e quasi afona.)
La donna si sporse, che quasi ormai volava ed era bella
nella sua carne tornita, bella come una donna che piace a un uomo.
Parlò – ma prima parve intonare la voce con due vocalizzi, due sciacqui
di note, sempre ridendo, sporgendosi più sbilanciata fuori asse,
che si videro tutti i denti e le gengive e il ricamo del palato
e la lingua e qualche filamento di saliva – disse:
“Mi chiamo Glaucopia, vivo di notte e di mattina vado a dormire.”
L’assetato la guardò sbigottendo. Stentò un sorriso
come il naufrago che da lontano osserva la spiaggia che l’attende
e sente, nello stesso momento, la tristezza per l’abbandono del mare,
così l’assetato da lontano guardava la promiscuità di quei seni fioriti
e, nello stesso momento, lo assaliva il desiderio di darsi la morte.
“O triste, non puoi nemmeno piangere. Perché non attraversi, non vieni a me?”
– ancora con più dolcezza – disse la donna alla finestra, emozionata,
dopo che s’accorse che quell’astuccio d’uomo era fatto più di sale che di acqua,
perché in luogo di calde lacrime, crisalidi ialine gli pendevano dagli occhi.
La voce dell’assetato faticava a darsi un contegno, se ne stava
strappata e rotta, in punta di lingua, dopo che l’ossigeno
s’era districato tra ragnatele di secchezza fino alle corde,
scariche di tensione e flosce – maligno appiglio per ogni futuribile parola
– ed era infine giunto, trasformato in voce, in punta di vocali e stanco,
trascinandosi dietro il trapezio, sul ciglio della bocca desertificata.