Nessuno sa – o tutti sanno – chi è Giacomo Leopardi. Voi, amici di Crapula, limitrofi di Vacca Pezzata, sapete invece una cosa che Leopardi non sa e non saprà mai, cioè che oggi è venerdì, giorno del milite ignoto.

Per quelli che non conoscono Leopardi Giacomo (e di questi tempi il numero cresce, almeno 20 anni fa a scuola c’era l’obbligo del Sabato del villaggio e di conoscere quelle tre parole: solitudine, natura, nulla – che a dieci anni non capisci, ma accetti), per voi c’è un interessante libero di Pietro Citati “Leopardi” (Oscar Mondadori, 2012).

Per tutti, invece, una cosa su Leopardi, che non sempre troverete, a meno che non siate dei tecnici, abbiate letto lo Zibaldone o abbiate il mio stesso libro, che lo cita. Il libro in questione “Metrica e analisi letteraria” G. Gorni (Il Mulino, 1993) è noioso da morire, ipertecnico, tutto sigle e conteggi di rime. Però, quando si tratta di citare Giacomo Leopardi c’è come uno scatto di vita (sì, di vita!) nel mortorio della filologia dal ‘500 al Romanticismo.

N. B.
In media la gioia di una talpa filologica è sempre pari al numero di volte che in una frase compare un termine come “strofe”, “peristalsi”, “fenotipo”, “glaucolemma”, “pentacosiosfaccimma”.

Ecco la cosa – il fatto, la roba (pag. 25 – 26):

Nello Zibaldone invano cercheremmo paradigmi o annotazioni filologiche sulla stesura delle canzoni: ciò che preme al Leopardi non è la struttura degli schemi in sé, bensì la loro esecuzione, l’impressione di «armonia» che sono in grado d’ispirare a un orecchio ben educato. Sullo spirito di sistema e sull’occhio del poeta-architetto, qualità in auge fin dai tempi dell’affermazione della lirica dantesca e petrarchesca, col Leopardi prevale, per la prima volta, un criterio nuovo di lettura, prossimo alla facoltà uditiva del musicista:

Un italiano assai colto, ma non avvezzo a legger poesia nostra, leggendogli una canzone del Petrarca, mi disse quasi vergognandosi, che trovava privo d’armonia quel metro, e che il suo orecchio non era punto dilettato. Il qual metro somiglia a quello delle odi greche composte di strofe, di antistrofe e d’epodo, ed ha un’armonia così nobile e grave, ed atto alla lirica sublime. Soggiunse ch’egli non sentiva il diletto dell’armonia fuorché nelle ottave, e in qualcuno de’ nostri metri che chiamiamo anecreontici.

È coerente a questa ricerca leopardiana dell’«armonia», svincolata da un progetto metrico rigoroso e fedelmente riprodotto di stanza in stanza, la precoce invenzione nei Canti della «strofe libera» che da lui si denomina.

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È venerdì,ripeto,  giorno del milite ignoto, e il finale non l’ho pensato, ve lo scrivete da soli.