La caccia e la fuga, il pericolo bipolare di essere scovato e di non riuscire a trovare. Il delitto, la punizione, perché anche il dolore trovi riscatto. Oreste e le Erinni, figure disarmoniche, si scontrano nell’ultima delle tre tragedie che compongono l’Orestea[1] (Agamennone, Coefore): il primo non più lordato dal peccato del matricidio, purificato da Apollo; le Erinni, che nulla possono contro gli dèi, predano il colpevole, indifferenti alla purificazione conoscono solo la vendetta, il suono gorgogliante del suo risucchio. Eppure, c’è una frattura. Come può chi è stato mondato essere ancora colpevole? C’è quindi un altro stadio più terribile, una sfumatura in più nella scala cromatica della punizione? Sì.

Vado con ordine.

Zero. A differenza di come giudicava il giovane Nietzsche, la tragedia non può fare a meno dell’apollineo, per essere completa. L’apollineo è lo stadio di partenza, basti ricordare che a Delfi (secondo la tradizione orfica, in particolare) il tempio era abitato rispettivamente da tutti e due i daimones: Apollo e Dioniso. L’alternanza, che contempla anche un istante di compresenza, dei due daimones ci dà un indizio fondamentale: se Apollo può essere ritenuto il tessuto di ispirazione poetica, il mondo fuori, la luce (su questo Nietzsche non si è mai sbagliato), Dioniso è il tessuto connettivo, il cervello e le sue ramificazioni. (In modo piuttosto paragonabile a quell’istante di compresenza, nel Castello di Kafka, il mondo suburbano del villaggio si pone nel rapporto dualistico e transitorio — una volta trascorso l’istante — descritto sopra. K., a differenza degli abitanti del villaggio, pare che non voglia nient’altro che penetrare quell’istante, esserne partecipe e, una volta inteso, rifuggirlo).

Uno. Si comincia con un’invocazione: Clitemnestra vuole vendetta e chiama a sé le Erinni, affinché martorizzino il suo omicida (sul perché Oreste non abbia agito allo stesso modo tornerò più avanti). Invocare le Erinni non è invocare la Musa (a patto che Erinni e Musa non coincidano, ma che io ricordi questa coincidenza avviene solo in Kafka). Invocare le Erinni equivale a produrre la frattura tra la purificazione e la colpa: entrambe permangono separate, come se non fossero più legate, se non dipendessero l’una dall’altra.

Due. Ora è lecito chiedersi perché la purificazione di Apollo acquisti un valore transitorio. La spiegazione sta nel ruolo che la tragedia assume nella pólis, propriamente ad Atene. Oreste giunto come supplice presso il dio di Delfi, chiede che il delitto agli occhi degli dèi sia ritenuto in qualche modo legittimo — nei termini che una tale legittimazione circoscrive con un sacrificio di un animale e con la lavanda delle mani. Ci troviamo dunque nell’ambito della pratica religiosa, di una ritualità che presa singolarmente è soltanto mezza tragedia. Insomma, la sola purificazione religiosa nell’ambito politico-educativo della tragedia eschilea, ha lo scopo di veicolare verso un’altra specie di salvezza, ossia quella propriamente politica, la sfera ateniese per eccellenza.

Tre. La scena dal tempio di Apollo si sposta in quello di Atena, luogo in cui Oreste chiede un’altra purificazione, l’ultima, la sola che possa placare il flagello delle Erinni. Innanzitutto rispondo alla questione del perché Oreste non abbia invocato a sua volta le Erinni dopo l’omicidio del padre. La risposta più comune è il rapporto filiale tra madre e figlio, diverso da quello tra marito e moglie. In realtà Oreste non richiama le Erinni (sarebbe stato legittimo farlo), perché Eschilo vuole condurre la platea di Atene a comprendere più profondamente lo scuotimento che un tale delitto può provocare nel tessuto politico[2]. La frattura prodotta dalle Erinni è dunque soltanto umana, ossia soltanto politica e Oreste è martire, cioè testimone, di questa condizione. La presenza di Atena, immagine dell’intelligenza e della forza (quasi fosse il succo dell’unione dell’apollineo e del dionisiaco), crea l’armonia tra la frattura e le sue giustiziere, le trasforma, pur non ricucendo lo strappo — poiché al dolore, ci dice Eschilo, non c’è rimedio.

***

 

Eschilo, Eumenidi, vv. 244 – 306

 

Coro: ecco! Questo è l’evidente segno dell’uomo!

Segui gli indizi del silenzioso delatore!

Come il cane fiuta il cerbiatto ferito,

così scoviamo lo stillicidio del sangue.

Per le molte sofferenze che colpiscono gli uomini ansima

il mio cuore: infatti ogni luogo della terra ho percorso,

e sul mare in un volo senza ali

ho continuato a inseguirlo non più lenta di una nave.

E ora costui è qui, che si nasconde da qualche parte:

odore di sangue mortale mi sorride.

 

Vedi, vedi meglio ancora!

Guardate dovunque, che muovendosi

di nascosto il fuggiasco non resti impunito per il matricidio.

Eccolo, infine, che con forza si stringe

al simulacro della dea immortale,

e vuole essere giudicato colpevole per le nefandezze della sua mano.

 

Non è lecito questo: sangue materno versato a terra

non si può riscattare, orrore!

Il sangue liquido una volta versato è assorbito dalla terra.

Ma bisogna che io sia ripagata da te vivo

bevendo rosso sangue dalle tue membra. Da te

prenda nutrimento di bevanda imbevibile

e ancora vivo, una volta disseccato, ti trascinerò sotto terra,

perché tu sconti in compenso le pene del matricida.

E vedrai ancora chiunque altro dei mortali fu colpevole

o un dio o un ospite straniero

o i cari genitori offendendo,

ciascuno che sconta una giusta pena.

Infatti Ade è possente giudice dei mortali

nel sottosuolo

e tutto sorveglia e conserva nella memoria.

 

Oreste: educato ai mali conosco

molte purificazioni e quando sia giusto parlare

e ugualmente tacere. In questa circostanza

da un maestro sapiente mi è stato ordinato di parlare.

Infatti dorme il sangue e svanisce dalla mano,

è ripulita la nefandezza del matricidio:

quando era ancora umida presso l’altare

del dio Febo fu purificata con il sacrificio di un maiale.

Lungo sarebbe per me raccontare dall’inizio,

a quanti mi sono accostato in una compagnia non dannosa

[il tempo cancella ogni cosa mentre s’invecchia insieme]

e ora dalla bocca pura invoco devotamente

Atena signora di questa terra di venirmi

in aiuto: senza guerra conquisterà

me e la mia terra e il popolo argivo

giustamente fedele e alleato in ogni avvenimento.

Ma sia che nei luoghi della pianura libica

presso la corrente del Tritone, suo fiume nativo,

si metta a sedere dritta e con il piede incoronato

soccorrendo gli amici, o sia che la pianura Flegrea

sorvegli come un condottiero coraggioso,

venga — come dea ode anche da lontano —

affinché sia per me fonte di liberazione da questi mostri.

 

Coro: né Apollo né la forza di Atena

potrebbero salvarti dal perire malamente abbandonato,

senza che tu possa imparare a gioire nel cuore,

tu sanguinoso cibo dei morti, ombra!

Non rispondi, ma respingi con orrore le mie parole,

tu che per me sei stato nutrito e consacrato?

Ma vivo mi sazierai non se vieni sgozzato su un altare:

e ascolterai questo inno che in incatena.



[1] Agamennone, Coefore, Eumenidi (Mondadori, 1995)

[2] Nel VI sec. a. C. si credeva ancora che la famiglia fosse alla base della struttura statale, si veda in merito la vicenda di Edipo.