C’è una casa disfatta, all’incrocio di due strade, ci abitava uno che da bambino voleva essere un fantasma. Sua madre, in principio, fu colei che del ghiribizzo sospettò qualcosa, quando la mattina cominciò a trovare il letto del figliolo sempre intatto e il pigiama sempre impolverato, poi suo padre, una notte, che costretto alla veglia da un odioso virus intestinale registrò, raggiungendo il bagno, dei rumori venire dal soggiorno, e giunto che fu in sala vide il piccolo, coperto da un lenzuolo, camminare dietro le tende delle finestre e dei balconi, e negli angoli della sala indugiare mugolando e sotto il tavolo acquattarsi picchiettando il pavimento, dunque se ne accorsero infine entrambi quando decisi una sera a sciogliere ogni dubbio videro il bambino, fasciato nel lenzuolo, dormire sotto al proprio letto.
Riluttanti a consultare uno psicologo, i due genitori decisero fosse meglio fare finta di niente, non interrogare il bambino, lasciarlo in pace, al fatto manco alludere, giusto presero i due delle accortezze: lei ogni mattina spazzava via la polvere sotto il letto del bambino, lui allargò i buchi per gli occhi nel lenzuolo così da evitare che il figliolo andasse a sbattere. Fatalmente bianche furono per loro le prime notti giacché i rumori – calpestii, scricchiolii, cigolii, bisbiglii – dal corridoio e dal soggiorno claudicavano fino alla loro camera da letto a graffignare il sonno dalle molecole del buio, e, la prima notte fingendo di dormire, ad occhi aperti i due dal letto assistevano a quel teatro di rumori e suoni sinistri, paralizzati dal precetto che s’imposero e un vago senso di colpa; e certo pure venne inverandosi l’ominosa e prevedibile notte in cui il bambino, gorgogliando di sotto al lenzuolo, strisciando entrò infine nella loro camera: uno strillo la madre, il padre dovette trattenere i propri occhi , spalancati in un baleno dalla sorpresa dello spavento, e ambedue soffocarono il respiro: videro loro figlio brancicare nel buio, aprire e chiudere i cassetti, sostare ai piedi del letto; come quella volta, così nelle notti successive. La quinta, stremata dalla paura, dall’insonnia, e dall’insonnia della paura, prima della funesta apparizione la madre si alzò dal suo letto e corse a dormire in quello di suo figlio, rifugiandosi sotto le coperte tirate fin sopra la testa; così pure il padre, che decise di seguirla: insieme, rintanati nel lettino singolo, originavano una di quelle colline, che sempre si formano nelle camerette dei bambini spaventati, su cui i residui bagliori urbani scorrazzano rincorrendo le ombre del buio nascoste tra le pieghe della coperta, là dove si sciolgono gli incubi: in quelli della madre, quella notte, suo figlio non era mai nato; in quelli del padre, suo figlio era già morto. Trasalirono, svegliandosi, entrambi nello stesso momento, per la reazione naturale del cervello all’ansia onirica e perché i passi, dal corridoio, i passi sciancati del bambino si avvicinavano alla camera dove la mamma, tirate via le coperte, allora scese dal letto, affannosamente, si precipitò fino alla porta aperta allungando la mano all’interruttore della luce, nell’istante in cui il bambino –  la madre di fronte, a pochi centimetri – era ormai sulla soglia: come la camera si illuminò, il bambino si ritirò rientrando dentro il confine della notte; rimase fermo pochi secondi prima di voltarsi e di tornare lungo il corridoio. Pure, a quel punto, solo un passo, preciso, alla donna bastò per tentare anche l’interruttore del corridoio, e accese la luce nel momento in cui il bambino raggiunse appena il soggiorno, e così proseguì, lei, lungo il corridoio, proseguì fino al soggiorno, lì dove intuì suo figlio fermo in un angolo della stanza scura, accanto alla finestra, nascosto da una kentia che al buio le parve carbonizzata, le foglie di cenere, e lo scrutò, coperto dal lenzuolo sembrava una collina, disegnata da un bambino, di gessetto bianco su un foglio nero. Accese la luce: e suo figlio, il fantasma, sparì.
Il padre, anche lui corso in soggiorno, visto l’accaduto spense immediatamente, ma il bambino non ricomparve; mentre la donna, ferma, sbigottiva, l’uomo, per tutta la casa, in fretta, spense le luci che lei aveva acceso: nondimeno, i due rimasero non di più che al buio, da soli, in una casa vuota: per quanto il padre lo cercasse, in ogni stanza, lo chiamasse, a voce alta o sussurrando, il bambino non c’era più.
Sull’ordito del silenzio, intrecciato nello spazio da linee di mancanza e sconcerto, il padre collassò, universo oscillante, fino alla camera di suo figlio: senza speranza vi entrò, e si accucciò a guardare nell’unico posto in cui non aveva controllato: sotto il letto. Una coltre di polvere, spessa un dito, brinava in quella spelonca; non senza difficoltà, l’uomo decise dunque di adagiarvisi: si distese completamente sotto il letto e chiuse gli occhi. Senza nemmeno rendersene conto, in poco tempo si addormentò. Riaprì gli occhi, dopo quelli che a lui parvero cinque secondi, che s’era fatto invece giorno, e frastornato si tirò fuori da quell’interstizio: si issò, si batté via con le mani la polvere di dosso, si affacciò fuori dalla stanza per chiamare sua moglie. Si accorse che non c’era. Girò la casa, tutte le stanze: constatò d’essere rimasto solo.
Forse di esserlo sempre stato o di dover esserlo ancora per un poco, disse al suo dottore, quando due mesi dopo si decise infine a raccontare a qualcuno cosa gli fosse successo: a parlare di suo figlio e di sua moglie che mai più aveva incontrato. Eppure, a ogni seduta, il dottore non aveva fatto altro che sorridergli, condiscendente e compassionevole, e un’unica volta lo prese sul serio, e quell’unica volta gli disse che ciò che non c’è più è ciò che non c’è mai stato: semplicemente non c’è.
Così, in questa casa disfatta, all’incrocio di due curve ideali, l’uomo ha continuato a vivere, da solo, aspettando qualcosa che era già successa, dimenticando che ancora doveva succedere.
Finché, un giorno, sparì.

***

In copertina: René Magritte, L’impero delle luci